Un ospedale sulla First Avenue con camera con vista sul Chrysler Building. Prima metà degli anni ottanta del secolo scorso. Una figlia e sua madre. Due famiglie. Due zone di due stati, lo sprofondo dell'Illinois e la capitale newyorkese. I postumi di una banale operazione di appendicectomia: le complicanze di un distacco necessario. E un addio temporaneamente ritrattato.
Dalla quarta di copertina:
In una stanza d'ospedale nel cuore di Manhattan, davanti allo scintillio del grattacielo Chrysler che si staglia oltre la finestra, per cinque giorni e cinque notti due donne parlano con intensità. Non si vedono da molti anni, ma il flusso delle parole sembra poter cancellare il tempo e coprire l'assordante rumore del non detto. In quella stanza d'ospedale, per cinque giorni e cinque notti, le due donne non sono altro che la cosa piú antica e pericolosa e struggente: una madre e una figlia che ricordano di amarsi.
Dai due risvolti di copertina:
Da tre settimane costretta in ospedale per le complicazioni post-operatorie di una banale appendicite, proprio quando il senso di solitudine e isolamento si fanno insostenibili, una donna vede comparire al suo capezzale il viso tanto noto quanto inaspettato della madre, che non incontra da anni. Per arrivare da lei è partita dalla minuscola cittadina rurale di Amgash, nell'Illinois, e con il primo aereo della sua vita ha attraversato le mille miglia che la separano da New York. Alla donna basta sentire quel vezzeggiativo antico, «ciao, Bestiolina», perché ogni tensione le si sciolga in petto. Non vuole altro che continuare ad ascoltare quella voce, timida ma inderogabile, e chiede alla madre di raccontare, una storia, qualunque storia. E lei, impettita sulla sedia rigida, senza mai dormire né allontanarsi, per cinque giorni racconta: della spocchiosa Kathie Nicely e della sfortunata cugina Harriet, della bella Mississippi Mary, povera come un sorcio in sagrestia. Un flusso di parole che placa e incanta, come una fiaba per bambini, come un pettegolezzo fra amiche. La donna è adulta ormai, ha un marito e due figlie sue. Ma fra quelle lenzuola, accudita da un medico dolente e gentile, accarezzata dalla voce della madre, può tornare a osservare il suo passato dalla prospettiva protetta di un letto d'ospedale. Lí la parola rassicura perché avvolge e nasconde. Ma è nel silenzio, nel fiume gelido del non detto, che scorre l'altra storia. Quella di un'infanzia brutale e solitaria, di una miseria umiliante, di una memoria tanto piú dolorosa perché non condivisa. Oltre la finestra, le luci intermittenti del grattacielo Chrysler, emblema di grandi aspirazioni nella Grande Mela degli anni Ottanta, insieme all'alternarsi del sonno e della veglia e all'avvicendarsi delle infermiere dal nomignolo fiabesco, scandiscono il passare di un tempo altrimenti immobile. Ma il tempo passa. L'isola d'intimità di quei cinque giorni d'ospedale non si ripeterà nella vita di madre e figlia. Molti anni piú tardi la donna è una scrittrice di fama. Ha scelto la parola al silenzio, dopotutto, perché è cosí che può raccontare anche quella storia d'amore. Un amore invalido, mezzo afasico, ma amore senza dubbio. Dalla sua insegnante di scrittura ha appreso che «ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Ma tanto ne avete una sola». La donna si chiama Lucy Barton, e questa è la sua.
Elizabeth Strout - “My Name is Lucy Barton” - 2016 Ediz. ital. Einaudi, 2016 - traduz. (al solito encomiabile) di Susanna Basso - 160 pagg., 17.50 € - rilegato, copertina rigida con sovraccoperta; e ottimo, classico odore vegetale della carta stampata nei pressi di Cles (Tn)
* * * * ¼ (½)
La radice sentimentale (ma ovviamente non sentimentalistica) dei romanzi-di-racconti (il che è ciò che spesso sono le sue opere) di Elizabeth Strout non trae nutrimento suggendolo - e trasformandolo in linfa vitale e nettare generoso - dal terreno di quello che azzarderei qui sbrigativamente e quindi grossolanamente a definire come “Invidia del Dolore” (scorciatoia, semplificazione e ripiego cui spesso ricorrono ottimi autori - come, per pescare nel mainstream medio-alto, David Grossman, Amos Oz, Michael Cunningham, Haruki Murakami, Kazuo Ishiguro, o, per tuffarci nel genere altissimo, Stephen King -, indipendentemente e a prescindere dal fatto che al termine dell'avventura si prospetti o meno all'orizzonte una sorta pur stropicciata, lisa, arruffata e consunta di lieto fine, mai fine a sé stesso o accomodante), ovvero quel processo che s'ingenera nel lettore portandolo a provare il desiderio di soffrire come e tanto quanto i protagonisti pur di viverla, quella storia, ma piuttosto recupera un dispositivo segreto (quello cui ricorrono naturalmente autori come Alice Munro e Raymond Carver, o, in maniera più interpolata, traslucida e impalpabilmente virulenta, Harold Brodkey), che all'invidia sostituisce la condivisione, il riconoscere come proprio quel dolore, piccolo o grande, costitutivo delle umane civiltà: non (solo) uno specchio, non (solo) un compagno di viaggio, non (solo) vecchi album di fotografie, diari, lettere spedite e ricevute e poi tenute/scordate a segnalibri della memoria, ma un autentico viaggio nel tempo, che si spalanca sul presente, e su quello che il futuro potrebbe diventare, se solo...se solo...se solo…
È un romanzo breve (160 pagine) – o è un racconto lungo che potrebbe appartenere al suo séguito, “AnyThing is Possible”, in cui si raccontano le vite dei personaggi accennati nel presente prologo esteso, anticipatore, prolettico –, “My Name is Lucy Barton”: risulta però arduo leggerne più di una ventina di pagine alla volta: troppo pieno, troppa vita.
La penultima opera di Elizabeth Strout è un romanzo breve che si spegne poco a poco, infiammandosi e bruciando, come la vita. “Veloce, eh?”, direbbe Alvin Straight (David Lynch + Richard Farnsworth), e gli farebbe eco Sylvie Schenk.
Da “Olive Kitteridge”: “...la vita avrebbe acquistato velocità, e poi sarebbe trascorsa quasi tutta, lasciandoti senza fiato, davvero.”
A “My Name is Lucy Barton”: “Di recente mi capita di pensare a come d'autunno il sole calava sui campi attorno alla nostra piccola casa. La vita spaziava all'orizzonte, a trecentosessanta gradi, con il sole che scendeva alle spalle mentre il cielo davanti diventava di un rosa delicato e poi di nuovo vagamente azzurro, come se non potesse interrompere il suo ciclo di bellezza, e poi la terra più vicina al tramonto scuriva, fino a farsi quasi nera contro la linea arancione dell'orizzonte, ma se ti giravi, c'era ancora terra disponibile allo sguardo, e di una tale dolcezza, qualche albero, e terreni a riposo già dissodati, e il cielo che resiste, resiste e infine cede al buio. Come se l'anima potesse far silenzio in quei momenti. La vita mi lascia sempre senza fiato.”
Tutte le opere dell'autrice del Maine sono un lungo eternare uno sfilacciamento permanente di avvenimenti e impressioni, un vasto persistere di un resistente esistere di fatti avvenuti vite fa, quando eravamo un'altra persona, quella che ci ha accompagnato all'oggi, un infinito, resiliente ritorno a casa, a sé.
Quello raccontato nei romanzi di Elizabeth Strout, inchiostrati di sgomente suggestioni e di accadimenti precisi come la memoria, è tutto il futuro che avanza inesorabile a ritroso, e inghiotte il passato, e divora il presente. Il momento. Ecco...
Mio marito, naturalmente, aveva il suo daffare a mandare avanti la casa e il lavoro e di rado aveva il tempo di venirmi a trovare. Appena conosciuti mi aveva confessato che odiava gli ospedali – suo padre era morto in ospedale quando lui aveva quattordici anni – e adesso mi rendevo conto che non diceva per dire.
[…]
Un pomeriggio, piú o meno tre settimane dopo il ricovero, girai lo sguardo dalla finestra e vidi mia madre seduta ai piedi del letto. – Mamma? – dissi. – Ciao, Lucy, – disse lei. La sua voce mi parve timida, ma inderogabile. Si chinò e mi strinse un piede attraverso il lenzuolo. – Ciao, Bestiolina, – disse. Non vedevo mia madre da anni; continuavo a fissarla, non capivo come mai mi sembrasse tanto cambiata.
[…]
Io intanto sonnecchiavo ascoltando la voce di mia madre. Pensavo: Non voglio nient'altro.
Con Melissa Gilbert, Dean Butler, Richard Bull, Victor French, Kevin Hagen, Dabbs Greer
– Tuo fratello vomitava. Aspettai un momento. Ne passarono diversi. Alla fine disse: – Ogni mattina, prima di andare a scuola, in quinta elementare, tuo fratello vomitava. Mai saputo perché. – Mamma, – dissi. – Che libri per bambini legge? – Quelli della bambina nella prateria, ce n'è una serie completa. Gli piacciono tanto. Non è ritardato, eh.
La seconda cosa a proposito di Mr Haley è che ci faceva lezione sugli indiani. Fino ad allora non avevo mai saputo che gli avevano rubato la terra con l'inganno costringendo Falco Nero [Ma-ka-tai-me-she-kia-kiak (1767-1838), tribù Sauk (MidWest); NdR] a ribellarsi. Non sapevo che i bianchi distribuivano whiskey, che ammazzavano le loro donne nei campi di granturco. Seppi subito di amare Falco Nero come amavo Mr Haley, perché erano due uomini eroici e meravigliosi, e non riuscivo a credere che, dopo la cattura, Falco Nero fosse stato portato in giro in alcune grandi città. Lessi la sua autobiografia appena potei. E imparai a memoria il paragrafo nel quale diceva: «Quanto dev'essere suadente la lingua dei bianchi, se sa far apparire giusto ciò che è sbagliato e sbagliato ciò che è giusto». Mi preoccupavo anche che la sua autobiografia, essendo stata trascritta da un interprete, potesse non risultare accurata e perciò mi chiedevo, Ma chi sarà stato, in realtà, Falco Nero? E me lo immaginai come un uomo forte e sgomento, che, parlando del «nostro Grande Padre, il Presidente» [Andrew Jackson; NdR], spendeva per lui belle parole, il che mi rendeva triste.
Dissi: – Mamma, ma tu lo sai che cosa abbiamo fatto agli indiani? – Pronunciai le parole con lenta solennità. Mia madre si scostò i capelli con il dorso della mano e disse: – Non me ne importa un accidenti, di cosa abbiamo fatto agli indiani.
Ed ecco la scena che credo ricorderò per sempre: c'era mia madre seduta al buio nella sala d'attesa, laggiù nel sotterraneo dell'ospedale, con le spalle curve per lo sfinimento, ma comunque seduta con l'aria di chi dispone di tutta la pazienza del mondo. – Mamma, – mormorai, e lei mi salutò con un cenno delle dita. – Ma come diavolo hai fatto a trovarmi? – Facile non è stato, – disse lei. – Ma la lingua ce l'ho, e so farla funzionare.
– Il marito comunque è stato fortunato, – aggiunse dopo qualche minuto. – Al telegiornale ho visto una scena dove al marito tocca assistere mentre violentano sua moglie. Misi giù lentamente la rivista. Guardai mia madre seduta ai piedi del letto, una donna che non avevo visto per anni. – Davvero? – esclamai. – Davvero cosa? – Davvero, un uomo costretto ad assistere mentre violentano sua moglie? Ma che cosa stavi guardando, mamma? – E mi trattenni dal chiedere quello che mi premeva di più: Da quando voi due avete un televisore? – L'ho visto in tv, te l'ho appena detto. – Ma al telegiornale, o in una di quelle serie poliziesche? Capivo, mi sembrò di capire, che ci stesse riflettendo, poi disse: – Era al telegiornale, una sera a casa di Vicky. Chissà dove, in uno di quei paesi orrendi –. E chiuse gli occhi di scatto.
[Avrei voluto inserire Hill Street Blues, NYPD Blue, the Wire...; NdR]
Certe volte mi dispiace che Tennessee Williams abbia scritto per Blanche DuBois la battuta in cui dice: «Ho sempre confidato nella gentilezza degli estranei». È capitato spesso a molti di noi di essere salvati dalla gentilezza degli estranei; peccato che a lungo andare la battuta risulti trita, buona per un adesivo da appiccicare sulla macchina. Ed è questo che mi rattrista, che per quanto bella e piena di verità possa essere una frase, a furia di ripeterla si riduca a una battuta da adesivo.
Con Christopher Walken, Susan Sarandon, Robert Ridgely, Dorothy Patterson
Off Topic. Ne approfitto per consigliare la visione di questo piccolo gioiellino demmeiano (“Who am I This Time?”, un ep. della 1a stag. della serie antologica PBS “American PlayHouse”) e la lettura del racconto omonimo del '61 di Kurt Vonnegut da cui è tratto, contenuto nella raccolta ('68) “Welcome to the Monkey House” (tradotta in italiano nel '91 dalle meritorie edizioni SE). NdR.
Con Carlo Ninchi, Gianna Maria Canale, Peter Trent, Luigi Pavese, Piero Palermini
All'interno del Metropolitan Museum che si estende immenso sulla piattaforma della vasta gradinata di Fifth Avenue, a New York, c'è una sezione a pianoterra definita il giardino delle sculture; chissà quante volte, prima con mio marito e poi con le mie figlie mano a mano che crescevano, devo essere passata accanto a quella statua, personalmente concentrata solo su dove prendere da mangiare alle bambine, senza mai sapere davvero cosa si faccia dentro un museo del genere, con tutta quella roba da vedere. Comunque, nel bel mezzo di tanti bisogni e tanta agitazione, c'è una statua. E solo di recente – in questi ultimi anni voglio dire –, una volta che la luce la inondava come un'acqua luminosa, mi sono fermata a guardarla e a dire: Oh. La statua è di marmo e rappresenta un uomo coi suoi figli accanto, e l'uomo ha sulla faccia un'espressione disperata e i figli ai suoi piedi sembrano aggrapparsi a lui e supplicarlo, mentre lui rivolge al mondo uno sguardo angosciato e con le mani si tormenta la bocca, ma i bambini guardano solo lui e quando io l'ho vista finalmente, dentro di me mi sono detta, Oh. Ho letto la targa e ho scoperto che quei figli stanno offrendo se stessi in pasto al padre prigioniero che muore di fame e loro, i figli, vogliono una cosa sola: veder sparire l'angoscia dalla faccia del padre. Tanto da essere pronti, più che pronti, a farsi divorare. E ho pensato, Quindi quell'uomo lo sapeva. Mi riferivo allo scultore. Lui lo sapeva. E come lui, il poeta che scrisse ciò che la scultura mostra. Anche lui lo sapeva.
L’ho già detto: mi meraviglia come riusciamo a trovare modi per sentirci superiori a un’altra persona, o a un gruppo di persone. Succede dappertutto, di continuo. Comunque lo si chiami, a mio giudizio è il fondo del barile di chi siamo, questo bisogno di trovare qualcuno da snobbare.
Recensione (al film di Debra Granik e al romanzo di Daniel Woodrell).
– Non è il mio mestiere ricordare al lettore la differenza tra la voce narrante e il punto di vista personale dell'autore. […] Una donna del pubblico alzò una mano e chiese: – Ma davvero lei la pensa così sull'ex presidente, o no? Sarah Payne tacque un momento e poi disse: – D'accordo, allora mi faccia dire una cosa. Se quel personaggio femminile che mi sono inventata definisce il presidente un vecchio rincitrullito e accusa la moglie di guidare il paese con i suoi temi astrali, io, – a quel punto annuì con fermezza e fece una pausa, – nel senso della sottoscritta, Sarah Payne, cittadina di questo paese, direi che la donna di mia invenzione gliela fa passare ancora abbastanza liscia.
Explanation for Dummies: - “Allora dimmi, ragazzo del futuro, chi è il presidente degli Stati Uniti nel 1985?” - “Ronald Reagan” - “Ronald Reagan? L'attore? E il vice presidente chi è? Jerry Lewis? Suppongo che Marilyn Monroe sia la First Lady! E John Wayne il ministro della guerra!”
Non sognarti nemmeno di metterti a frignare, piccola deficiente.
PS. Scrivevo, nella recensione su “Olive Kitteridge”: “Olive Kitteridge, ovvero : tutto quello che Stephen King non ha mai avuto il coraggio di raccontarvi sul Maine”. NdR.
– Ascolti, mi stia bene a sentire. Quello che ha scritto, quello che vuole scrivere, – e intanto tornava a sporgersi e batteva con un dito sul testo che le avevo consegnato, – è davvero bellissimo, glielo pubblicheranno. Ora, mi dia retta. Qualcuno l'accuserà per aver associato la miseria con l'abuso. Che parola cretina, «abuso», così banale, così stupida, ma ci sarà qualcuno pronto a dire che esiste la miseria senza abuso e lei non dovrà mai aprire bocca. Mai difendere quello che ha scritto. La sua è una storia d'amore e lei lo sa. È la storia di un uomo che si è tormentato ogni giorno della vita per cose che aveva fatto in guerra. È la storia di una moglie che è rimasta con lui, perché lo facevano quasi tutte le mogli di quella generazione, e che si presenta nella stanza d'ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni falliti di tutti gli altri, e nemmeno lo sa, nemmeno sa che cosa sta facendo. È la storia di una madre che ama sua figlia. In modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto. Ma se mentre scrive questa cosa sentirà che sta proteggendo qualcuno, si ricordi: c'è qualcosa che non va –. […] Ho potuto constatare quasi sempre come coloro che hanno ricevuto di più dallo stato, in termini di scuola, sussidi, vitto e alloggio, siano di solito gli stessi che trovano sbagliato il concetto stesso di stato. In un certo senso li capisco.
Un'altra cosa: Subito dopo aver saputo di essere stata ammessa al college, mostrai al mio professore di letteratura il racconto che avevo scritto. Ne ho un ricordo molto vago, ma questo mi è rimasto impresso: aveva segnato l'espressione «da quattro soldi». La frase diceva più o meno: «La donna indossava un vestito da quattro soldi». Evita quell'espressione, mi disse, non è gentile né accurata. Non so se furono queste le sue parole esatte, ma so che aveva segnato l'espressione e che con garbo mi fece sapere che non era bella né buona, e questo non l'ho mai più dimenticato.
In sala d'attesa c'era una donna vecchissima che portava il busto su una schiena praticamente piegata in due. E sorrideva da un viso costruito per sembrare anni e anni più giovane. La giudicai coraggiosa.
Con Nick Nolte, James Coburn, Sissy Spacek, Willem Dafoe
Quando tornai a New York dopo aver visto mio padre – e mia madre l'anno prima –, dopo averli visti per l'ultima volta, il mondo cominciò a sembrarmi diverso. Mio marito mi pareva un estraneo, le figlie adolescenti, lontane da gran parte della mia realtà. Ero decisamente disorientata. Non riuscivo a controllare il panico, come se la famiglia Barton – tutti e cinque, per quanto squinternati – fosse stata per me un'impalcatura di cui non conoscevo nemmeno la presenza finché non aveva cessato di esistere. Ripensavo a mio fratello e a mia sorella e allo smarrimento sulle loro facce alla morte di mio padre. Ripensavo a come noi cinque avessimo avuto una famiglia decisamente malata, ma mi rendevo anche conto di come le radici profonde di ciascuno fossero avvinghiate al cuore di tutti gli altri. Mio marito commentò: – Ma se nemmeno ti piacevano –. E sentirglielo dire accrebbe il mio spavento.
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