consigliato da LUCHINO VISCONTI
Lettera di Visconti a Chaplin scritta su l'Unità il 18 dicembre 1952:
Signor Chaplin, mi permetta di porgerle qui il benvenuto. A nome mio e dei lettori di questo giornale, a nome mio e dei milioni di operai, contadini, intellettuali democratici italiani che mi hanno pregato di dirle tutto il loro affetto, tutta la loro gratitudine per la poesia che lei ha donato agli uomini semplici del mondo, a qualunque latitudine essi vivano, a qualunque razza essi appartengano, purchè amanti, come lei, della libertà e della dignità umana. I lettori di questo giornale, signor Chaplin, la conoscono da molti anni, da prima ancora che una guerra sanguinosa, provocata dalla follia dei nuovi barbari, li costringesse a scendere nella lotta che i popoli d’ogni paese – e anche di quello ove lei vive, signor Chaplin, non vogliano dimenticarlo – hanno condotto contro i nemici dell’umanità. Allora i lavoratori italiani, gli antifascisti italiani, di qualunque fede politica o religiosa, seppero di averlo alleato, di averlo schierato dalla loro parte. E certo fu quello un aiuto, signor Chaplin, che essi ebbero caro. Da allora, quando, ricacciato il nemico al di là delle frontiere, riconquistata quella libertà per la quali molti dettero la vita, nelle carceri fasciste, sulle montagne, nei villaggi, nelle città, dovunque si poteva colpire l’assassino, da allora, signor Chaplin, gli operai, i contadini e tutti i democratici italiani hanno seguito con rinnovata ammirazione e commozione la sua opera; ed oggi lei è popolare come pochi artisti lo sono, è atteso come pochissimi altri artisti lo sarebbero. Forse, nelle nostre campagne, nel nostro sud – un sud, signor Chaplin, in tanto simile a quello del paese nel quale lei è vissuto per tanti anni – tra coloro che vivono ancora nelle grotte dell’appennino, i famosi «sassi» di Matera dei quali anche lei avrà sentito parlare, tra coloro che ignorano tutto della vita moderna, della vita civile, che non hanno neppure la possibilità di leggere un giornale c’è qualcuno che non lo ha mai visto, che non conosce la figura derelitta e commovente di Charlot, l’omino dalla bombetta e dal bastoncino flessibile. Anche per questi uomini dimenticati, anche per tutti coloro che un ingiusto ordine sociale non consente entrino nella vita, godano dei diritti che con la nascita la creatura umana s’acquista; per tutti costoro mi permetta, signor Chaplin, di porgerle il benvenuto, di dirle la speranza e la fiducia che tutti gli umili, gli oppressi, gli uomini semplici hanno in lei e nella sua arte, nel significato della sua arte. Essi vorrebbero certamente che lei sapesse con quanto sacrificio e con quanto dolore trascorrono i giorni non lieti della loro vita, ma anche con quanta decisione e con quanta fermezza essi combattono, istante per istante, per un avvenire migliore, più giusto e più dignitoso. Essi, che sanno come lei, signor Chaplin, sia sempre stato dalla loro parte, ogni volta che c’era da scegliere tra la giustizia e il quieto vivere, tra la libertà e l’oppressione, vorrebbero che io le esprimessi con le parole più appropriate il loro proposito di esserle ancora a fianco, tutte le volte che se ne porrà la necessità, in questa onesta battaglia; e come lei possa contare, concretamente contare, sulla più completa solidarietà, ove essa le occorresse. Questo i lettori dell’Unità volevano, signor Chaplin, che io le dicessi. Ed io mi auguro di non essermi lasciato trascinare a dire nulla di meno o di diverso da quanto essi mi hanno chiesto. Per questo, a loro nome, mi permetto ancora di rivolgerle un fraterno saluto, nella speranza e con l’augurio che lei porti con sè un buon ricordo dell’Italia e degli italiani.
LISTA COMPLETA di VISCONTI
- La corazzata Potemkin (Eisenstein)
- Amanti perduti (Carné)
- La grande illusione (Renoir)
- Rapacità (von Stroheim)
- Alleluia! (K. Vidor)
- Giorni perduti (Wilder)
- Monsieur Verdoux (Chaplin)
- Que viva Mexico! (Eisenstein)
- Ombre rosse (Ford)
- Tabù (Murnau)
Fonti: Cinematheque Belgique (1952); "Luchino Visconti" edizioni Il Castoro; luchinovisconti.net; criterion.com
Su Luis Buñuel: "Credo che oggi ci siano troppi registi che si prendono sul serio, l'unico capace di dire qualcosa di davvero nuovo ed interessante è Luis Buñuel. Lui è un grandissimo regista." ~ Luchino Visconti
INTERVISTATORE: "Lei pensa di appartenere alla corrente neorealista italiana? E in caso affermativo, in che si distingue da un De Sica, ad esempio, o da un Germi?"
VISCONTI: "Penso che sarebbe meglio parlare di realismo, semplicemente. Indubbiamente lavoro in quella direzione. Il grosso errore, a mio modo di vedere, di Germi e anche di De Sica, con tutta la stima che ho per loro, è quello di non partire da una realtà sociale effettiva. Esistono i barboni, esiste Lambrate, esistono gli emigranti clandestini; «finali» come quello di MIRACOLO A MILANO e di IL CAMMINO DELLA SPERANZA, nella realtà sociale non esistono...A mio parere si tratta di una pericolosa mescolanza di realtà e di romanticismo. Nel finale di LA TERRA TREMA ci sono più promesse e più speranze che nel volo dei barboni a cavallo delle scope. Non si può e non si deve uscire dalla realtà. Io sono contro le evasioni."
INTERVISTATORE: "Ma quella esperienza che è stata definita neorealismo, la ritiene ancora valida? E se sì, la ritiene valida solo come «esperienza» oppure come «poetica»?"
VISCONTI: "Il neorealismo è, come esperienza e come poetica, valido ancora oggi. L’importante è mettersi in quello stesso atteggiamento in cui ci mettevamo allora, ma rispetto, ripeto, ai casi e ai problemi attuali. Si torna sempre qui, a parlare di problemi. Sembra una banalità, ma non lo è, poiché parlare di problemi incute ancora paura in molti. Comunque, questa è l’unica linfa del neorealismo. (...) Io parlo più di realismo, che di neorealismo. Noi dobbiamo porci in una attitudine morale di fronte agli avvenimenti, alla vita: in un atteggiamento, insomma, che ci consenta di vedere con occhio limpido, critico, la società così come è oggi, e raccontare fatti che di questa società sono parte. Neorealismo fu un termine inventato allora, perché uscivamo da quel cinema che sai, e avevamo bisogno di novità. Ma abbiamo trattato i temi che ci si consentiva trattare da quell’angolo visuale che è stato sempre tipico di un artista realista."
INTERVISTATORE: "Dunque il «neorealismo o «realismo italiano del dopoguerra» è nato, secondo lei, in modo polemico?"
VISCONTI: "Non c’è dubbio: il nostro realismo è stato soprattutto una reazione al naturalismo, al verismo, che ci venivano dalla Francia, e che avevamo in parte accettato. Ora noi, attraverso esperienza umane e esperienze sociali, come la guerra, la Resistenza, da un lato ci siamo liberati di quelle scorie, dall’altro ci siamo trovati quasi involontariamente a guardare i fatti con quella attitudine morale che ti dicevo, e che ci ha consentito di fotografarli con un’assoluta verità. E verità non vuol dire verismo."
INTERVISTATORE: "Ha fiducia nelle «nuove leve» del cinema?"
VISCONTI: "Ne ho già parlato spesso. La mia impressione è che, a parte uno o due Truffaut, Resnais, o Malle, che mi pare il più francese, gli altri sono solo gente che ha studiato bene i vecchi film, e li rifà. La loro è una esperienza da moviola: ci senti dentro Vigo, Renoir, Antonioni, Rossellini e anche qualcosa di mio. Hai sempre la sensazione di «già visto», vedendo i loro film. Non sono originali come dovrebbe essere una «nuova ondata». Sono della gente che ha assimilato molto. Forse anche noi, allora, avevamo assimilato, ed era giusto: ma poi, almeno, ci siamo liberati di quello che di esterno avevamo appreso, per dire qualcosa di nostro, di personale. Dire qualcosa di personale non è facile. Bisogna meditare quello che si dice, lavorare molto. Io faccio il cinema da molti anni, e ogni film per me è un’esperienza complessa, dolorosa. Anche per questo, forse, ne ho fatti così pochi. Ma direi che nemmeno c’è bisogno di fare tre film all’anno, per dire qualcosa. La produzione cinematografica ha bisogno di programmi densi, ma noi autori non ne abbiamo necessità: noi abbiamo bisogno solo di riuscire a dire, con la massima tranquillità possibile, quello che vogliamo, se abbiamo qualcosa da dire." ~ Luchino Visconti (1960)
"L'opera, quando ero ragazzo, era lo spettacolo per antonomasia. Andare all'opera era ancora come essere immersi nell'Ottocento. Per me, il sipario della Scala, tremolante prima dell'inizio dello spettacolo, il preludiare degli strumentisti, rappresentavano l'anticipazione di ogni piacere. Avevamo il palco proprio sull'orchestra: stavo lì in ansia per la curiosità di sapere quello che sarebbe accaduto una volta tirata la tela. Quel piacere, devo dire, il cinema non riesce a supplirlo. Non mi piace tornare a vedere un film che ho già visto: «Il trovatore» l'ho invece visto e sentito tantissime volte. É quel che mi succede con i romanzi. È una gioia, certe volte, finire di girare e saper di poter correre a casa a leggere un libro. Della lettura non posso fare a meno: è uno stimolo continuo. D'altronde, ogni film che ho fatto aveva alle spalle un libro. OSSESSIONE aveva dietro di sé i romanzi americani che durante la guerra si leggevano di straforo. LA TERRA TREMA era Verga, «I Malavoglia». Saltiamo BELLISSIMA, che invece nacque da un soggetto cinematografico puro e semplice. SENSO era il racconto di Camillo Boito. ROCCO E i SUOI FRATELLI veniva dai racconti di Giovanni Testori, cui avevo mescolato «l'Idiota» di Dostoevskij. IL GATTOPARDO era «Il Gattopardo». Dietro VAGHE STELLE DELL'ORSA c'era «l'Elettra». LO STRANIERO era Camus. Ne LA CADUTA DEGLI DEI ho messo insieme Dostoevskij, Mann e le letture che avevo fatto sul nazismo, prima fra tutte la Storia di Shirer. Fino a MORTE A VENEZIA, e fino al LUDWIG che sto terminando, dove c'è il mondo wagneriano visto attraverso le sue componenti culturali, non sono mai riuscito a sottrarmi alla letteratura." ~ Luchino Visconti
"Ecco quella che, secondo me, è una grande differenza fra la regia teatrale e la regia cinematografica: un dramma di Cechov, una commedia di Ibsen, una tragedia di Shakespeare si presentano al regista in una forma che è compiuta, intoccabile. Bisogna darne la realizzazione spettacolare sul palcoscenico, cercando naturalmente di avere il massimo rispetto per un testo che abbiamo scelto noi stessi e che quindi, indubitabilmente, amiamo. Un testo cinematografico, prima della sua definitiva realizzazione sulla pellicola, non ha mai riscosso (almeno da parte mia) un tale rispetto per cui mi sentissi intimidito. Molte volte una sceneggiatura è stata da me completamente capovolta: capovolta perché la realtà davanti alla quale mi trovavo girando, era assolutamente diversa da quella precedentemente concepita al tavolino. (...) Mi interessa soprattutto lavorare con esseri umani, cercare nel fondo di un'anima la verità che essa tenta di esprimere: quella dell'autore, quella dei personaggi, degli attori che li interpretano, del pubblico. È per questo che mi è indifferente curare una regia teatrale o cinematografica. Non dipende dalla mia scelta il passaggio da una forma di espressione all'altra. Prendo ciò che viene. Resta inteso, comunque, che il cinema è una creazione. Il teatro soltanto un'interpretazione. Vi viene fornito un testo scritto in modo definitivo. Nel cinema, invece, bisogna inventare tutto. Da questo punto di vista, è più appassionante. Ma in ogni caso, l'essenziale del lavoro consiste nelle relazioni che si stabiliscono con gli individui." ~ Luchino Visconti
"Ho realizzato LE NOTTI BIANCHE perché sono convinto della necessità di battere una strada ben diversa da quella che il cinema italiano sta oggi percorrendo. Mi è sembrato cioè che il neorealismo italiano fosse diventato in questi ultimi tempi una formula trasformata in condanna. Con LE NOTTI BIANCHE ho voluto dimostrare che certi confini erano valicabili, senza per questo rinnegare niente. Anche attraverso la scenografia ho voluto raggiungere non un'atmosfera di irrealtà, ma una realtà ricreata, mediata, rielaborata. Ho voluto, cioè, operare un netto distacco dalla realtà documentaria, precisa, proponendomi una decisa rottura con il carattere abituale del cinema italiano di oggi. (...) Io parlo più di realismo, che di neorealismo. Noi dobbiamo porci in un'attitudine morale di fronte agli avvenimenti, alla vita: in un atteggiamento, insomma, che ci consenta di vedere con occhio limpido, critico, la società così come è oggi, e raccontare fatti che di questa società sono parte. Neorealismo fu un termine inventato allora, poiché uscivamo da quel cinema che sai, e avevamo bisogno di novità. Ma abbiamo trattato i temi che ci si consentiva di trattare da quell'angolo visuale che è stato sempre tipico di un artista realista. (...) Quante volte si è parlato di me come di un decadente. Ma io ho della decadenza un'opinione molto alta, come l'aveva Thomas Mann per esempio. Sono imbevuto di questo spirito: Mann era un decadente di cultura tedesca, io di formazione italiana. Quello che mi ha sempre interessato è l'analisi di una società malata." ~ Luchino Visconti
"È vero, a me interessano sempre le situazioni estreme, i momenti in cui una tensione abnorme rivela la verità degli esseri umani; amo affrontare i personaggi e la materia del racconto con durezza, con aggressività. C'era crudeltà e violenza in OSSESSIONE più che in qualsiasi altro mio film; ce n'era in SENSO; non ce n'era in ROCCO E I SUOI FRATELLI, perché lì violenza e crudeltà erano completamente dominate dalla storia, da circostanze eccezionali. Quanto al sadismo, forse soltanto nella messinscena del CROGIUOLO e in quella di PECCATO CHE SIA UNA SGUALDRINA c'era vero sadismo: crudeltà fisica, voglio dire. Altrimenti, molto più spesso nei miei film c'è crudeltà morale, sadismo morale o estetico: come in BELLISSIMA o ne «Il lavoro» di BOCCACCIO '70. E questa è, naturalmente, la forma più violenta e crudele. Questo interesse in me è molto vivo." ~ Luchino Visconti
"Stendhal avrebbe voluto che si incidesse sulla sua tomba questa epigrafe: «Adorava Cimarosa, Mozart e Shakespeare». Allo stesso modo vorrei che si scrivesse sulla mia: «Adorava Shakespeare, Cechov e Verdi». Verdi e il melodramma italiano sono stati il mio primo amore. Quasi sempre la mia opera emana qualche tanfo di melodramma, sia nei film che nelle regie teatrali. Mi è stato rimproverato, ma per me è piuttosto un complimento." ~ Luchino Visconti
"Sì, è vero, io provenivo da una famiglia ricca, ma mio padre, pur essendo un aristocratico, non era né stupido, né incolto. Amava la musica, il teatro, l'arte. Noi eravamo sette fratelli, ma la famiglia è venuta su molto bene. Mio padre ci ha educati severamente, duramente, ma ci ha aiutati ad apprezzare le cose che contavano, appunto la musica, il teatro, l'arte. Io sono cresciuto tra i palcoscenici. A Milano, nella nostra casa di via Cerva, avevamo un piccolo teatro, e poi c'era la Scala. Allora la Scala era una specie di teatro privato, che veniva tenuto dai mecenati. Dapprima lo sovvenzionava mio nonno e poi mio zio. Mia madre era una borghese. Una Erba. La sua famiglia vendeva medicinali. Erano venuti dal nulla, avevano cominciato a vendere i medicinali al minuto, lungo le strade. Mia madre amava molto la vita mondana, i grandi balli, le feste sfarzose, ma amava anche i figli, amava anche lei la musica, il teatro. È lei che si occupava quotidianamente della nostra educazione. È lei che mi fece prendere lezioni di violoncello. Non siamo stati abbandonati a noi stessi, non siamo stati abituati a condurre una vita frivola è vuota, come tanti aristocratici..." ~ Luchino Visconti
"Al cinema mi ha portato soprattutto l'impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse. Il cinema che mi interessa è un cinema antropomorfico. Di tutti i compiti che mi spettano come regista, quello che più mi appassiona è dunque il lavoro con gli attori; materiale umano con il quale si costruiscono questi uomini nuovi, che, chiamati a viverla, generano una nuova realtà, la realtà dell'arte. Perché l'attore è prima di tutto un uomo. Possiede qualità umane-chiave. Su di esse cerco di basarmi, graduandole nella costruzione del personaggio: al punto che l'uomo-attore e l'uomo-personaggio vengano ad un certo punto ad essere uno solo. Fino ad oggi, il cinema italiano ha piuttosto subito gli attori, lasciandoli liberi di ingigantire i loro vizi e le loro vanità: mentre il problema vero è quello di servirsi di ciò che di concreto e di originario essi serbano nella loro natura. Perciò importa fino a un certo grado che attori cosiddetti professionali si presentino al regista deformati da una più o meno lunga esperienza personale che li definisce in formule schematiche, risultanti di solito più da sovrapposizioni artificiose che dalla loro intima umanità. Anche se molto spesso è una dura fatica, quella di ritrovare il nocciolo di una personalità contraffatta e una fatica che tuttavia vale la pena di spendere: proprio perché al fondo una creatura umana c'è sempre, liberabile e rieducabile. Astraendo con violenza dagli schemi precedenti, da ogni ricordo di metodo e di scuola, si cerchi di portare l'attore a parlare finalmente una sua lingua istintiva. Si intende che la fatica non sarà sterile, solo se questa lingua esiste sia pure involuta e nascosta sotto cento veli: se esiste cioè un vero "temperamento". Non escludo, naturalmente, che un "grande attore" nel senso della tecnica e dell'esperienza, possegga tali qualità primitive. Ma voglio dire che, spesso, attori meno illustri sul mercato, ma non per questo meno degni di attirare la nostra attenzione, ne posseggono altrettante. Per non parlare dei non attori, che, oltre a recare il contributo affascinante della semplicità, spesso ne hanno di più autentiche e di più sane, proprio perché, come prodotti di ambienti non compromessi, sono spesso uomini migliori. L'importante è scoprirle e metterle a fuoco. Ecco dove è necessario intervenga quella capacità rabdomantica del regista, tanto nell'uno come nell'altro caso. L'esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell'essere umano, la sua presenza, è la sola "cosa" che veramente colmi il fotogramma, che l'ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell'uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano. Ogni diversa soluzione del problema mi sembrerà sempre un attentato alla realtà così come essa si svolge davanti ai nostri occhi: fatta dagli uomini e da essi modificata continuamente. Il discorso è appena accennato, ma accentrando il mio netto atteggiamento, vorrei concludere dicendo (come spesso amo ripetermi): potrei fare un film davanti a un muro, se sapessi ritrovare i dati della vera umanità degli uomini posti davanti al nudo elemento scenografico: ritrovarli e raccontarli. ~ Luchino Visconti (1943)
"Naturalmente il vecchio attore portava con sé parecchi difetti: però facilmente correggibili. Su un violino che suona bene, se uno suona con cattivo gusto, lo correggi facilmente, gli dai un gusto migliore voglio dire come esecuzione. Io quando ho avuto dei buoni strumenti, anche se avevano abitudini cattive, le hanno perse immediatamente. Ecco, Benassi: che strumento meraviglioso. Una volta che tu lo ripulivi dei suoi difetti, era uno strumento, un violoncello straordinario. Bastava dirgli: “No, torniamo un momento all’inizio: questo via, questo non si fa, questo si dice chiaro, questo si pulisce, questo si dice…” Ora simili strumenti io, nei giovani, poche volte ho ritrovato: Gassman è un grandissimo strumento, siamo d’accordo, ma anche lui è pieno di difetti e di cattivo gusto; e però quando uno gli dice: “No, è così, e non cosà, allora si rivela uno strumento meraviglioso. E’ ancora di quella pasta lì, di quel tessuto lì. Altri non direi, è un’altra cosa. Mastroianni, per esempio, ha molte qualità, però Mastroianni è venuto su così, senza base alle spalle. Sì, è certo un attore moderno, ma non so se potrebbe affrontare certi personaggi. Certi personaggi li può affrontare soltanto chi ha alle spalle appunto dieci anni di allenamento in palestra." ~ Luchino Visconti (1965)
"Impiegare attori non professionisti non è affatto una condizione indispensabile del neorealismo. Certo è possibile prendere dalla strada le persone «vere» che aderiscono perfettamente al personaggio, ma c'è poi il lavoro da compiere per farli diventare attori. Ho passato ore e ore con i miei pescatori de LA TERRA TREMA per far loro ripetere una piccola battuta. Volevo ottenere da loro lo stesso risultato che può dare un attore. Se ave-vano del talento, e ne avevano (avevano soprattutto una dote straordinaria: nessun complesso davanti alla macchina da presa) potevano arrivarvi molto presto. Il lavoro vero, con gli attori, consiste nel far loro vincere i complessi, il pudore. Ma quella gente non aveva pudori; ottenevo da loro quanto avrei ottenuto in un tempo molto più lungo dagli attori. Allo stesso modo la sceneggiatura non era prestabilita; la affidavo a loro stessi. Ad esempio, prendevo i due fratelli e dicevo: ecco, la situazione è questa. Avete perso la barca, siete alla miseria, non avete più da mangiare, non sapete più che fare. Tu vuoi andartene, ma sei troppo giovane e lui vuole trattenerti. Digli ciò che ti spinge lontano di qui ". Mi rispondeva: “Vedere Napoli, e poi, non so..." “Sì, si tratta di questo, ma ancora perché non vuoi rimanere qui? ". Mi rispondeva allora proprio quello che dice nel film: “Perché qui siamo come bestie; non ci danno niente. Mentre io vorrei vedere il mondo". Per lui il mondo era Napoli. era molto lontano, era il polo Nord... Poi mi sono rivolto all'altro: “Che cosa diresti a tuo fratello per trattenerlo, a un tuo fratello vero?". Era già commosso, con le lacrime agli occhi; credeva si trattasse veramente di suo fratello. E' quanto si vuole ottenere dagli attori senza mai riuscirvi. Con le lacrime agli occhi, risponde-va: “Se vai oltre i Faraglioni ti travolgerà la tempesta". Chi avrebbe potuto scrivere questo? Nessuno. Lo diceva in siciliano e non posso ripeterlo esattamente perché non ricordo più quel dialetto, ma era molto bello, simile al greco. Il dialogo nasceva dunque così; io non fornivo che la traccia, loro apportavano idee, immagini, coloriture. Poi facevo loro ripetere il testo, a volte per tre o quattro ore, come si fa con gli attori. Ma non cambiavo più le parole. Erano diventate fisse, come se fossero scritte. E tuttavia non erano, scritte, ma inventate dai pescatori. L'originale, che è in mio possesso e che è stato proiettato a Venezia con i sottotitoli, è in vero siciliano, che è come il greco: non se ne capisce nulla. E' una lingua straordinaria; una lingua che ha delle “immagini”. Soltanto Verga ha saputo ricrearla: ha inventato una lingua speciale, a metà tra l'italiano e il dialetto. Si tratta, se volete, di italiano, ma che conserva la costruzione dialettale. Quanto al vero dialetto di Catania, quello dei pescatori de LA TERRA TREMA è veramente molto difficile da capire. Quando Brancati, che è un ottimo autore siciliano, ha sentito questi dialoghi ha esclamato: “Sono i più bei dialoghi del mondo! Non si sarebbe mai potuto scrivere niente di simile! " E' vero; questi dialoghi sono belli perché sono giusti. Sono come una parte di quella gente; persino nei momenti drammatici si esprimono così. De Sica ha fatto a volte cose che io non riesco a comprendere. In LADRI DI BICICLETTE, ad esempio, ha fatto doppiare Maggiorani da un attore e il testo stesso non si addice al viso di Maggiorani. E questo è un grave errore ai miei occhi, anche se LADRI DI BICICLETTE è un film molto bello, molto vigoroso. lo stesso sfortunatamente ho dovuto usare il doppiaggio in SENSO perché Granger e la Valli hanno girato in inglese." ~ Luchino Visconti (1976)
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