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Festa del Cinema di Roma 2017: le recensioni
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Festa del Cinema di Roma 2017: le recensioni

Terminata anche la 12° edizione della Festa del Cinema di Roma (e la 15° della "gemella" Alice Nella Città), giunge il momento del riepilogo. Come già negli anni passati, ripropongo a beneficio di chi non le avesse lette, o di chi più semplicemente volesse farsi un'idea dei film proiettati nella rassegna, tutte le recensioni da me scritte nel corso della stessa, ordinando i film in base al mio gradimento ed indicando la sezione specifica in cui ciascuno è stato presentato.

Playlist film

Detroit

  • Drammatico
  • USA
  • durata 143'

Titolo originale Detroit

Regia di Kathryn Bigelow

Con John Boyega, Will Poulter, Algee Smith, Jacob Latimore, Jason Mitchell, Hannah Murray

Detroit

In streaming su Amazon Prime Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE

A 50 anni esatti da uno dei momenti più bassi ma meno conosciuti della storia americana recente, Kathryn Bigelow ed il suo ormai fido sceneggiatore Mark Boal (con lei anche nei precedenti The Hurt Locker e Zero Dark Thirty) decidono di riesumarlo, portandolo all'attenzione del grande pubblico attraverso un thriller mozzafiato che ha la precisione aneddotica del reportage. I fatti in questione risalgono al 25 luglio 1967, quando a Detroit - già epicentro della protesta dei neri, sempre più ghettizzati e sempre più vittime predestinate di una polizia parafascista e arrogante - lo sgombero gratuitamente esemplare di un locale che vende alcolici senza autorizzazione diviene la goccia che fa traboccare il vaso dell'insofferenza, dando il via a una sommossa disordinata e destinata, per l'incapacità, la protervia e il delirio di onnipotenza di alcuni agenti in servizio, a finire soffocata nel sangue: teatro di una notte di ordinario razzismo e straordinaria violenza è il Motel Algiers, dove la ricerca vana di una pistola inesistente si trasforma in una lunga notte di tortura ai danni dei malcapitati che vi alloggiano, con tre morti ammazzati e diverse esistenze segnate per sempre.

Partendo da una ricostruzione il più possibile fedele dei fatti, ottenuta con un grande lavoro di documentazione consistente anche nella raccolta delle testimonianze di tre superstiti - Dismukes, Larry e Julie, rispettivamente la guardia giurata, l'aspirante cantante R&B e una delle due ragazze bianche in vacanza - Boal butta giù una sceneggiatura divisa sostanzialmente in tre atti, e Bigelow (con il direttore della fotografia Barry Ackroyd) la traduce in immagini con uno stile immersivo fatto di camera a mano e primi e primissimi piani, ottenendo un film che, dopo aver presentato a dovere il contesto in quello che può impropriamente definirsi un lungo prologo, toglie il fiato negli interminabili tre quarti d'ora centrali, coincidenti con l'insostenibile interrogatorio/mattanza, per poi trasformare l'ansia in rabbia nel corso del processo farsa di cui si occupa il segmento finale.
Detroit
è un film davvero impressionante, per i fatti tremendi che racconta e per lo stile asciutto e brutale con cui lo fa: scritto e diretto magistralmente, si pregia altresì di un cast volenteroso e votato al sacrificio (emotivo), all'interno del quale a spiccare sono John Boyega nel ruolo della succitata guardia giurata, e soprattutto Will Poulter, stupefacente nel rendere la follia e l'incultura del sadico agente di polizia Krauss.

VOTO ****½

Rilevanza: 2. Per te? No

Birds Without Names

  • Drammatico
  • Giappone
  • durata 123'

Titolo originale Kanojo ga sono na wo shiranai toritachi

Regia di Kazuya Shiraishi

Con Yû Aoi, Sadao Abe, Tôri Matsuzaka, Yutaka Takenouchi, Shû Nakajima, Eri Murakawa

Birds Without Names

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE

Towako vive con Jinji ma lo chiama coinquilino, perché lo trova rozzo e disgustoso, con la sua abitudine di mangiare con le mani e di sfilarsi i calzini a tavola, e per di più non sopporta le sue attenzioni e gentilezze, che considera invadenza. Ci vive perché porta i soldi a casa e, nonostante l'esiguo stipendio da tipografo, le permette di passare le giornate a non far nulla, lasciandole l'energia ed il tempo per telefonare quotidianamente, avanzando pretese assurde, a negozianti dai quali ha acquistato oggetti che ritiene difettosi. In fondo, lei è ancora innamorata di Kurosaki, nonostante non abbia più sue notizie da quando hanno rotto, otto anni prima, e nonostante l'ultima volta che l'ha visto l'abbia riempita di botte.

Quando Mizushima, impiegato in una gioielleria, le viene spedito a domicilio per sostituire un orologio e dare un freno alle sue telefonate di protesta, Towako si scioglie come neve al sole davanti a quei modi che le ricordano l'adorato ex; lui ricambia e la scintilla scocca, con tanto di promessa di abbandonare moglie e figli e scappare via con lei.
Nel frattempo, qualche notizia su Kurosaki arriva: gliela dà un investigatore quando, venuto a farle qualche domanda al riguardo, la informa che da cinque anni si è dissolto nel nulla. Una frase ambigua di Jinji sul conto di questi, unita al fatto che abbia iniziato - con tutta la sua goffaggine - a pedinare Towako durante le uscite con Mizushima, fanno sorgere in lei il sospetto che possa aver avuto un ruolo in quella sparizione, e che anche il suo nuovo amante possa essere in pericolo.

Quella di Birds without name (adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo di Mahokaru Numata, best-seller in patria) è una storia bella e forte raccontata con il piglio affabulatorio di un illusionista.
Arzigogolato ma a suo modo lineare nel far quadrare perfettamente ogni dettaglio, il film di Kazuya Shiraishi disegna personaggi complessi e sorprendenti nonostante la loro apparente semplicità, guidandoli per mano lungo un percorso dalla traiettoria imprevedibile: perché nessuno è del tutto ciò che sembra, ed ogni giudizio espresso di primo impulso è probabilmente sbagliato, in un film che presenta degli essere umanissimi, sì, ma grevi e antipatici, per poi renderli via via, ognuno con le proprie peculiarità, adorabili, e che sa cambiare registro per puntare sempre più in alto, riuscendo, ad ogni passaggio, ad agganciare in maniera più decisa l'attenzione e ad elevare l'asticella del coinvolgimento emotivo.

In soldoni, Birds without names (titolo suggestivo il cui senso si comprenderà in uno degli ultimi fotogrammi), altro non è che un film sull'amore, un amore infinito, incondizionato e totalizzante che il regista riesce a nascondere dietro la corazza di un dramma garbato e ironico che slitta verso il thriller, rivelando la propria reale anima di melò disperato negli ultimi venti minuti di straziante bellezza.
Allievo di Koji Wakamatsu, del quale è stato assistente di regia e per il quale ha in cantiere un film omaggio nel prossimo futuro, relativamente giovane ma con già una manciata di film alle spalle, Kazuya Shiraishi è un regista che merita attenzione.

VOTO: ****

Rilevanza: 2. Per te? No

My Friend Dahmer

  • Biografico
  • USA
  • durata 107'

Titolo originale My Friend Dahmer

Regia di Marc Meyers

Con Ross Lynch, Anne Heche, Vincent Kartheiser, Alex Wolff, Dallas Roberts, Cameron McKendry

My Friend Dahmer

In streaming su Amazon Prime Video

ALICE NELLA CITTÀ 2017 - PANORAMA

Un ragazzotto biondo e occhialuto, un po' gobbo e molto goffo, scorge dal finestrino dell'autobus su cui sta viaggiando la carcassa di un gatto morto distesa sull'asfalto: scende, va a raccoglierla e si avvia per portarsela a casa. Quel ragazzo si chiama Jeffrey Dahmer, e di lì a circa un anno, nell'estate del 1978, poco dopo il conseguimento del diploma, commetterà il primo di 17 efferatissimi omicidi: omicidi che perpetrerà a mani nude, col coltello o con il trapano, seguiti dallo squartamento del cadavere con la sega e da eventuali atti di cannibalismo.
My friend Dahmer parla di lui, ma di come era 'prima': prima di iniziare a lasciare dietro di sé la lunga scia di sangue per la quale è passato alla storia come "Il Mostro di Milwaukee".
Parla di un ragazzo all'ultimo anno di liceo, solo, triste e incapace di sorridere, figlio primogenito di una famiglia in dissoluzione, con la madre reduce dall'ospedale psichiatrico ed il padre, un chimico, assente e distante.
Parla della sua difficoltà ad instaurare rapporti con i coetanei, schernito dai compagni di scuola, scansato o al massimo ignorato, fino a quando il nuovo vezzo di simulare attacchi epilettici in mezzo alla gente non lo porta a farsi ben volere da tre nerd che lo scelgono come loro giullare.
Parla della sua ossessione per le ossa, che lo porta a raccattare animali morti per poi scoglierli nell'acido o conservarli in formaldeide.
E parla di come il collasso della situazione familiare, il diradarsi della frequentazione con i tre nerd, e l'ingresso di prepotenza dell'alcool nel menu giornaliero, lo portano a spostare via via più in alto l'asticella della follia, iniziando con il fare la bocca non più al sezionamento degli animali morti quanto allo smembramento di quelli vivi, per andare poi ancora oltre.

My friend Dahmer è stata prima di tutto una graphic novel scritta nel 2012 da John Backderf detto 'Derf', che altri non è che uno dei tre nerd con cui Dahmer si frequentò in quell'ultimo anno di liceo. È plausibile che, al momento di sapere - con l'arresto, nel 1991 - che quel tizio che reputava solo bizzarro era diventato un serial killer, qualcosa abbia spinto 'Derf' a rivisitare e rivivere tutta la storia da un punto di vista diverso, maturo e analitico. Sceneggiato e diretto da Marc Meyers partendo da quel testo, e girato nella stessa casa in cui egli effettivamente visse al tempo degli studi, My friend Dahmer è a tutti gli effetti il racconto di formazione di un mostro cannibale, e in quanto tale mette in scena il fallimento di un giovane uomo, di una famiglia che non lo ha compreso, e di una società che lo ha rifiutato; lo fa tenendo un registro leggero da 'high school comedy', e riuscendo a ritagliare momenti di umorismo macabro in un contesto nel quale a salire, con il passare dei minuti, sono di pari passo una genuina inquietudine ed un senso di disperata incredulità.

VOTO: ****

Rilevanza: 2. Per te? No

And Then There Was Light

  • Drammatico
  • Giappone
  • durata 138'

Titolo originale Hikari

Regia di Tatsushi Ohmori

Con Arata Iura, Eita, Kyoko Hasegawa, Manami Hashimoto, Kaho Minami, Mitsuru Hirata

And Then There Was Light

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE

A Mihama, un'isola al largo di Tokyo, Nobuyuki fa le prime esperienze sessuali con la coetanea Mika, ma vive quasi scortato dal Tasuku, un bambino di dieci anni che, maltrattato a casa dal padre, ha trovato in lui un modello e lo segue ovunque. Lo segue fino ad assistere (non visto) e documentare (con una foto) un omicidio che l'amico compie per difendere la ragazza da uno stupro. Di lì a poco, uno tsunami si abbatte sull'isola e la devasta.
Venticinque anni più tardi, sulla terraferma, i tre hanno preso ciascuno la propria strada: Mika è un'attrice in ascesa, mentre Nobuyuki lavora al municipio del paese ed ha moglie e una figlia, e Tasuku fa l'operaio e, tanto per restare idealmente vicino al'ex amico, si porta a letto la moglie a sua insaputa. Quando il padre di questi, tornato a dar botte e batter cassa, scopre del crimine di cui il figlio è stato testimone e di cui conserva una prova, lo convince a ricattare la ragazza per estorcerle denaro.

IMDb alla mano, And Then There Was Light (Hikari) è l'ottavo lungometraggio di un regista giapponese attivo dal 2005 ma ignoto ai più: Tatsushi Omori, un nome da seguire.
Trattasi di un riuscito thriller sentimentale con echi noir che colpisce per il piglio sicuro con cui - camera spesso a mano - il regista si barcamena in un microcosmo nel quale il denominatore comune di qualsiasi scelta sembra essere la violenza (non necessariamente mostrata), principale frutto dell'incapacità dell'uomo di controllare e gestire il proprio lato irrazionale.

Venato di un erotismo irruento e istintivo, e popolato di personaggi vivi e credibili perché ciascuno legittimo portatore del proprio angolo di follia, il film di Omori si fregia di uno script articolato ma solido, che sembra spesso sul punto di zoppicare ma poi arriva a varcare di slancio la soglia dei 120 minuti, e che non ha timore di fare scelte apparentemente assurde, come quella di inserire di tanto in tanto, tra una scena e la successiva, a mo' di jingle, brevi stacchi di acid house su immagini perlopiù statiche e 'di raccordo' che convenzionalmente si confarrebbero a generi assai meno movimentati.

VOTO: ****

Rilevanza: 2. Per te? No

I racconti di Parvana

  • Animazione
  • Irlanda, Canada, Lussemburgo
  • durata 94'

Titolo originale The Breadwinner

Regia di Nora Twomey

I racconti di Parvana

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE
ALICE NELLA CITTÀ 2017 - CONCORSO

A 11 anni, Parvana vive nella Kabul del 2001. Il padre, mutilato di guerra, che le ha insegnato a leggere, a scrivere, e ad usare la fantasia, si ostina a portarla fuori senza il velo, nonostante corra l'obbligo di farlo: preso di mira da un gruppo di talebani, viene arrestato con un'irruzione in casa e portato in una prigione distante chilometri.
Persa l'unica figura maschile, e verificata l'impossibilità di fare alcunché fuori dalle mura domestiche visto il divieto per le donne di uscire sole, Parvana decide di tagliarsi i capelli e vestirsi da uomo, per poter sostentare la madre, la sorella maggiore ed il fratellino di un anno, e per provare in qualche modo ad avere notizie del padre.

Lo fa, trovando la forza nelle storie che lui gli raccontava (perlopiù la Storia del suo paese), e a sua volta creandone di nuove per il fratellino, per gli altri e per sé stessa, dando fondo all'immaginario cupo ed inquietante di chi nella propria breve vita ha visto solo guerra e soprusi, ma inserendovi i barlumi di lucentezza che solo una mente innocente può concepire. Così, mentre un disegno dal tratto realistico narra la drammatica ricerca del padre da parte di Parvana, sprazzi di cut-out animation (una forma di stop-motion fatta usando ritagli di carta) portano al centro dell'attenzione l'oscuro mondo di Elephant King da lei inventato, col luciferino elefante a simboleggiare il male che è al potere e che va combattuto.

Dopo due corti pluripremiati (vecchi però di oltre dieci anni) e la partecipazione nel cast tecnico di Song of the Sea, candidato all'Oscar nel 2015, The Breadwinner (prodotto da Angelina Jolie) è l'esordio sulla distanza di Nora Twony: un'animazione adulta capace di far accapponare la pelle e di affondare nella realtà tragica dell'Afghanistan talebano con inusitata delicatezza, riuscendo a mantenere un tono equilibrato interrotto, nei momenti giusti e con intensità via via crescente, da svolazzi onirici tetramente deliziosi.

VOTO: ****

Rilevanza: 1. Per te? No

The Movie of My Life

  • Drammatico
  • Brasile
  • durata 113'

Titolo originale O Filme da Minha Vida

Regia di Selton Mello

Con Vincent Cassel, Selton Mello, Bruna Linzmeyer, Bia Arantes, Johnny Massaro

The Movie of My Life

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE

È il 1963 a Remanso, nel sud del Brasile: i televisori iniziano a soppiantare le radio, mentre nei cinema impazzano i film con John Wayne. Il cinema è la passione di Tony, che, terminati gli studi classici, torna a casa proprio nel giorno in cui il padre - francese - l'ha lasciata per tornare in patria. Due anni dopo, Tony fa il professore e ha legato particolarmente con Augusto, un alunno che ha 14 anni e tanta voglia di andare al bordello del paese vicino per perdere la verginità, mentre lui, che se la tiene ancora stretta, ne osserva le due sorelle maggiori Petra e Luna, chiedendosi se sia meglio la reginetta di bellezza sofisticata o la ragazza acqua e sapone. E intanto continua a pensare al padre, a ricordare i mille momenti passati insieme, a scrivergli lettere senza avere risposte e a consolare la madre, che da allora non s'è più fatta sfiorare da alcuno.

The Movie of My Life (in originale, O Filme da Minha Vida), traduzione in immagini del libro A Distant Father di Antonio Skármeta (l'autore de Il Postino), è la terza regia dell'attore Selton Mello (che si ritaglia il fondamentale ruolo dell'amico di famiglia Paco): una regia morbida ma attenta a catturare il dettaglio che, grazie al valido apporto di una fotografia (di Walter Carvalho) le cui tonalità vagamente seppiate esaltano i colori della campagna brasiliana, e di una colonna sonora d'epoca che annovera - tra gli altri - brani di Charles Aznavour e Nina Simone, ne fa un validissimo omaggio al cinema classico, nonché un'esperienza sensoriale di buon livello.

Ma tutti questi pregi rischierebbero di restar fini a sé stessi se non servissero a supportare una storia tanto valida ed emozionante. Il percorso di definitiva maturazione di Tony va inevitabilmente in parallelo con l'evoluzione del dramma familiare in cui incolpevolmente si trova: così, mentre da un lato lui inizia a recuperare il tempo perduto dal punto di vista sessuale prima (gustosa la scena nel bordello) e sentimentale poi, dall'altro un colpo di scena ben assestato a metà film fornisce una scossa emotiva importante che cambia le carte in tavola anche per ciò che riguarda il padre e le ragioni della sua sparizione; il tutto, servito con la leggerezza di un racconto garbato, intenso e venato di ironia, che si prende i suoi tempi ma non ha momenti di stanca e - al netto di un finale un po' frettoloso - ripaga con (quasi) due ore di buon cinema che soddisfano gli occhi e scaldano il cuore.

VOTO: ***½

Rilevanza: 2. Per te? No

Una questione privata

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 84'

Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani

Con Luca Marinelli, Lorenzo Richelmy, Valentina Bellè, Francesco Turbanti

Una questione privata

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE

Fendendo le nebbie dense delle Langhe, il giovane partigiano Milton torna alla villa estiva della benestante Fulvia, conosciuta e frequentata l'anno precedente assieme al migliore amico Giorgio. Ma Fulvia, cui non dispiaceva farsi corteggiare da entrambi, alla villa non ci sta più, perché da Alba è tornata a Torino; a custodirla è la governante, che con una punta di malizia gli confessa di sospettare che - mentre lui la bramava contorcendosi immobile tra i propri pensieri - tra la ragazza e l'estroverso Giorgio possa esserci stata una relazione. Sconvolto dalla terribile suggestione, decide di cercarlo - partigiano anche lui ma in un'altra brigata - per chiedergli quale sia la verità.

Come sospeso su una nuvola, Milton dimentica gli amici e la centralità della guerra in corso, avendo come unico obiettivo quello di andare fino in fondo per dare un senso alla propria ossessione d'amore, l'amore del tutto platonico e nemmeno corrisposto per il suo "Splendore". Con lui, i Fratelli Taviani (che adattano il racconto lungo Una questione privata di Beppe Fenoglio, tornando a parlare di Resistenza a 35 anni da La notte di San Lorenzo) fanno sì che la guerra inizi come mero sfondo ad un triangolo d'amore osservato esclusivamente da un lato solo, alternando il vagare di Milton nel presente (è il 1944) ai ricordi dell'estate precedente (gli approcci impacciati e abortiti con Fulvia, la maggior consapevolezza di Giorgio). Ma la speranza di risolverla in breve tempo svanisce subito, perché Giorgio è finito nelle mani dei fascisti, e per riaverlo indietro, Milton deve cercare a sua volta un fascista da catturare per proporre uno scambio. E la guerra torna progressivamente a giocare il proprio ruolo, involvendo il protagonista in un vortice inarrestabile di riflessioni e azzardi, ma sempre e inesorabilmente concepiti sulla propria nuvola.

Incentrato su un ottimo Luca Marinelli, che con il proprio fare nervoso restituisce appieno l'ingenua inquietudine di Milton, Una questione privata ha un'andatura irregolare ma affascinante, e almeno due sequenze da ricordare: quella, agghiacciante, che vede una bambina alzarsi tra i cadaveri dei familiari per andare a bere un bicchiere d'acqua e poi tornare al proprio posto, e quella, repentina e muta, in cui il protagonista incrocia per strada i genitori increduli, stringendoli in un abbraccio clandestino e straziante che da solo fotografa l'insensatezza e la crudeltà della guerra.

VOTO: ***½

Rilevanza: 2. Per te? No

Abracadabra

  • Commedia
  • Spagna
  • durata 96'

Titolo originale Abracadabra

Regia di Pablo Berger

Con Maribel Verdú, Antonio de la Torre, José Mota, Josep Maria Pou, Quim Gutiérrez

Abracadabra

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE

Carmen ama ballare, uscire e vivere una vita attiva, ma da quando ha sposato Carlos non fa più nulla, relegata in casa per badare alla figlia Toñi e cucinare pasti che lui sistematicamente critica con i modi rozzi di un patriarca incolto. Carlos fa il muratore, e la sua vita è il Real Madrid, tanto da portarsi radiolina e sciarpetta persino al matrimonio del nipote di lei, detestato perché reo di averlo organizzato in concomitanza con la finale di Copa del Re contro il Barcellona, e tanto da rischiare pure di mandarlo in fumo per colpa di un gol di Messi.

Avvelenato per la situazione e per l'esito della partita, durante la cena che segue alla cerimonia si offre volontario come cavia per un esperimento di ipnosi condotto da Pepe, il cugino di Carmen, con il chiaro intento di boicottarlo: ci riesce, ma da quel momento non è più lo stesso.
Preoccupata dalle gentilezze che dall'indomani mattina l'uomo comincia a prestarle, assolutamente lontane dal suo repertorio abituale fatto di ordini e prepotenza, Carmen, sentito Pepe, chiede aiuto al maestro ipnotista di questi, il dottor Fumetti, il quale, dai sintomi esposti, deduce che Carlos ha capacità extrasensoriali nascoste che hanno permesso ad uno spirito che aleggiava nell'aria di entrare nel suo corpo durante il tentativo di ipnosi: bisognerà capire di chi sia, e cercare di scacciarlo utilizzando un oggetto a lui appartenuto.

Dopo aver rivisitato i fratelli Grimm in Blancaneves, nel suo terzo film Pablo Berger mantiene il tono fiabesco sin dal titolo, Abracadabra. L'ambizione è quella di creare un'opera che salti dalla commedia al dramma e dal thriller al fantasy cercando di cadere in piedi - e magari fare anche l'inchino: un'operazione difficilissima cui Berger si accosta con l'irruenza di un vulcano in eruzione, spingendo sull'acceleratore di uno humor nero, grottesco e barocco, facendosi volutamente beffe della verosimiglianza, e attingendo ad una tavolozza di colori accesissimi e ad un variegato campionario musicale (che va da Bach a Strauss, dai Goblin di Profondo Rosso alla Steve Miller Band del brano che dà il titolo al film, fino ad arrivare alla versione spagnola del Ballo del Qua Qua), finendo per montare una maionese impazzita satura di (troppi) indirizzi e suggestioni.

L'inchino proprio non riesce, perché i mille cambi di tono danno alla lunga un senso di frammentazione che limita la resa dal punto di vista della partecipazione emotiva, ma la caduta in piedi, quella sì, perché disseminate come mine nel caleidoscopico corpo di un film convulso e cangiante, vi sono gag e situazioni assurde e folli il giusto per garantire una discreta quantità di abbondanti risate.

VOTO: ***

Rilevanza: 1. Per te? No

Una preghiera prima dell'alba

  • Azione
  • Gran Bretagna, Francia
  • durata 117'

Titolo originale A Prayer Before Dawn

Regia di Jean-Stéphane Sauvaire

Con Joe Cole, Billy Moore, Vithaya Pansringarm, Pornchanok Mabklang

Una preghiera prima dell'alba

In streaming su Now TV

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE TUTTI NE PARLANO

La reclusione in una prigione tailandese è come un biglietto di sola andata per un girone dantesco dell'inferno: lo sa bene Billy Moore, che nel 2007 in quel paese si arrangiava grazie alla boxe, e di tanto in tanto arrotondava piazzando in locali notturni l'eroina che non decideva di tenersi per sé. Arrestato dalla polizia del posto dopo un'irruzione in casa che lo colse impreparato, senza lasciargli il tempo di nascondere o gettare nulla, trascorse tre anni in un carcere di massima sicurezza vicino Bangkok.
A Prayer Before Dawn, del francese Jean-Stéphane Sauvaire, è tratto dal libro omonimo che lo stesso Moore scrisse dopo la scarcerazione, avvenuta nel 2010 grazie ad un'amnistia reale, e si propone come un'immersione totale nella brutale realtà di un posto nel quale anche i diritti umani più elementari sono sospesi, e nel quale la convivenza forzata in grosse celle senza neanche una brandina che costringono i reclusi a dormire ammassati uno sull'altro porta a risse continue, talvolta col morto: per la dose giornaliera - che arriva sempre e comunque, magari anche dai carcerieri (Vithaya Pansringarm, unico attore professionista oltre al protagonista Joe Cole) -, ma anche solo per essere andati a far pipì nel momento sbagliato, o per un paio di sigarette, unica merce di scambio per chi non ha soldi per contrattare.

Sauvaire decide di eliminare ogni orpello, riducendo al minimo anche le informazioni sulla vita passata di Moore, e si concentra esclusivamente sull'impatto devastante che questa esperienza ha sulla sua psiche di tossicodipendente, costretto a cercare di sopravvivere in condizioni estreme in un microcosmo iperviolento senza aver nemmeno la padronanza della lingua: la scelta di non sottotitolare i dialoghi svolti nella lingua locale, che sono poi la stragrande maggioranza, ha proprio lo scopo di favorire uno stordente stato di empatia con il protagonista da parte di un pubblico che si vuole travolto, scioccato e disorientato quanto lui. Non sono d'altronde le parole il mezzo espressivo preponderante in una simile situazione, quanto piuttosto i corpi, quasi sempre seminudi, quasi sempre in tensione, e quasi sempre schiacciati l'uno sull'altro, feriti, insanguinati; e quasi tutti tatuati, come a voler raccontare ciascuno la propria vita in un colpo d'occhio, lasciando Moore ulteriormente solo con il suo pallore muto.
La scoperta all'interno del carcere di una sezione pugilistica gli indicherà la strada per poter alzare anche lui la voce, e trovare una dimensione che lo salvi da una deriva altrimenti prossima e inevitabile.

Guidato dalla volontà di non farsi corrompere dalla tentazione di spettacolarizzare alcunché, Sauvaire sceglie uno stile crudo e grezzo, con la camera a mano sempre in movimento e pronta ad appiccicarsi al corpo di turno, in un film lontano da ogni compromesso ma anche limitato dal proprio essere esclusivamente fisico, caratteristica che lo porta ad apparire - alla lunga - monotono e ripetitivo nella prima parte, e, per conseguente paradosso, sbrigativo nella seconda, con la sezione dedicata alla Muay Thai (la boxe tailandese) che sembra un po' tirata via, come se a Sauvaire, più che gli allenamenti ed i combattimenti in sé, interessasse il fatto stesso che Moore (quello vero, che appare nel finale nel ruolo del proprio stesso padre) avesse trovato la forza di rimettersi in gioco ed affrontarli.

VOTO: ***

Rilevanza: 1. Per te? No

Hostiles - Ostili

  • Avventura
  • USA
  • durata 127'

Titolo originale Hostiles

Regia di Scott Cooper

Con Christian Bale, Rosamund Pike, Wes Studi, Adam Beach, Ben Foster, Jesse Plemons

Hostiles - Ostili

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE

È il 1892, e il Capitano di Fanteria ed ex eroe di guerra Joseph Blocker (Christian Bale) sta concludendo la sua carriera come carceriere a Fort Berringer, un accampamento nel New Mexico. Qui, tra gli altri, è tenuto da sette anni prigioniero Falco Giallo (Wes Studi), un ex capo Cheyenne. Questioni di mera immagine ed opportunità politica inducono il tenente colonnello McCowan (Peter Mullan), suo diretto superiore, ad intimargli di scortare questi, con tutta la sua famiglia, fino a quella che era stata la loro terra, in un villaggio nel lontano Montana. Nella squadra che parte con lui in un viaggio lungo centinaia di miglia e irto di pericoli, c'è chi resterà sconvolto la prima volta che ucciderà un uomo, chi sa già bene come si fa, e chi non avrà neanche il tempo per provarne l'ebbrezza. E c'è poi, aggregata al gruppo alla prima tappa, la giovane e sfortunata Rosalee (Rosamund Pike), trovata a vaneggiare dinanzi ai tre figli piccoli appena morti assieme al marito, uccisi dai Comanche durante un attacco alla loro casa.

Sceneggiato e diretto da Scott Cooper partendo da un vecchio soggetto di Donald Stewart, e recitato da uno stuolo di ottimi attori un buona forma, Hostiles ambienta in pieno crepuscolo del "west(ern)" una storia che parla di come la cattiveria, l'intolleranza ed il cinismo dell'uomo possano essere combattuti attraverso la presa di coscienza del diverso da sé. La strada verso il Montana, con il sopravvenire di difficoltà ed insidie, è un percorso che conduce a una fisiologica apertura, portando per la prima volta in vita sua l'incattivito Blocker a non guardare i 'pellerossa' sistematicamente come nemici, ma a riconoscergli la dignità di un pensiero, di una volontà, di una cultura.

Ma se questo percorso, parimenti a quello di Rosalee - che trovandosi in uno stato di disperazione estrema cerca nella condivisione dell'altrui sofferenza la forza per reagire -, è tutto sommato ben delineato, e se anche i bianchi che attraversano il film per solo mezzora lo fanno in maniera significativa (il sergente destinato alla forca interpretato da Ben Foster), a mancare di una vera e propria parabola personale nell'arco delle due ore abbondanti che dura è proprio il prigioniero Cheyenne, che, come tutti gli altri nativi che si affacciano sullo schermo, sembra più un ingranaggio funzionale alla trama che un personaggio a tutto tondo.
Se è una scelta, visto il messaggio solidale e antirazzista che si vuol veicolare, è paradossale. E fa storcere il naso.

VOTO: ***

Rilevanza: 1. Per te? No

Valley of Shadows

  • Drammatico
  • Norvegia
  • durata 91'

Titolo originale Skyggenes Dal

Regia di Jonas Matzow Gulbrandsen

Con Adam Ekeli, Kathrine Fagerland, John Olav Nilsen

Valley of Shadows

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE

Una piccola barca di legno con dentro un bambino addormentato si muove in balia della corrente placida sul fiume che taglia in due una foresta fitta di piante secolari: sullo sfondo, esaltata e resa minacciosa dalle tonalità gelide della fotografia, la luna piena, che irradia il suo chiarore sulla foschia che si insinua densa tra le cime degli alberi prima di sciogliersi sul pelo dell'acqua; e in sottofondo, a suggerire la presenza impellente di qualcosa di arcaico e oscuro, un tappeto musicale d'ambiente compassato, robusto e dal respiro spettrale.

Questa immagine pittorica potrebbe già bastare a spiegare i pregi e i difetti di Valley of Shadows, film d'esordio del giovane regista norvegese Jonas Matzow Gulbrandsen, che associa il proprio evidente talento espressivo alle suggestioni visive create dalle immagini catturate dal fratello Marius (direttore della fotografia) e a quelle sonore composte dal veterano Zbigniew Preisner (una vita al fianco di Kieslowski), qui per la prima volta in carriera alle prese con algide spruzzate di elettronica. Perché questo armamentario sensoriale di notevole potenza è messo in piedi per conferire forza ad un racconto che, purtroppo, ne è carente strutturalmente.

La storia è quella del giovane Aslak e della sua paura del "mostro", suggerita da un amico che - complici le favole gotiche della cui lettura entrambi si nutrono - insinua il dubbio dell'esistenza di un licantropo in azione quando, in una notte di plenilunio, si imbattono in una manciata di pecore orrendamente massacrate: qualcosa di brutto accaduto al fratello maggiore tossicodipendente e da lui non metabolizzato, assieme la sparizione del proprio border collie, apparentemente inghiottito dalla foresta, lo convincono ad addentrarvisi a sua volta alla ricerca della ragione del proprio terrore.
Questa ricerca, sospesa tra realtà e immaginazione e condotta mantenendo una costante condizione di ambiguità, è il cuore pulsante del film, ma non basta, da sola, a tenerlo in piedi per novanta minuti. La conclusione, che oltretutto giunge bruscamente, porta con sé il rimpianto di quanto una discreta sforbiciata avrebbe potuto giovare al risultato finale.

VOTO: ***

Rilevanza: 1. Per te? No

Cuernavaca

  • Drammatico
  • Messico
  • durata 88'

Titolo originale Cuernavaca

Regia di Alejandro Andrade

Con Carmen Maura, Emilio Puente, Mariana Gajá, Moises Arizmendi, Diego Álvarez García

Cuernavaca

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Andy sogna in ralenti, poi si sveglia di soprassalto: sogni popolati da formiche aggressive che si insinuano ovunque impedendogli il controllo. A circa 12 anni, è timido e chiuso, e vive in simbiosi con la madre a Città del Messico. Una mattina, la tavola calda dove stanno mangiando viene attaccata da dei rapinatori, e un colpo di pistola partito ad uno di questi centra la madre, riducendola in condizioni disperate: mentre lei lotta tra la vita e la morte, con la seconda destinata a prevalere, lui viene provvisoriamente parcheggiato a casa della distaccata nonna paterna a Cuernavaca, in attesa di trasferirsi in Canada dalla zia, o nella speranza - tutta sua - che sia lo scapestrato padre a tornare a farsi vivo e portarlo via con sé.

Per il suo esordio sulla lunga distanza, il regista Alejandro Andrade Pease afferma di aver prima scelto il contesto e di averci poi cucito sopra una storia: il caldo tropicale di Cuernavaca, le formiche e la guaiava (un frutto tropicale tipico della zona), la villa così simile a quella che fu di sua nonna ai tempi in cui era bambino, hanno avuto un ruolo ben più decisivo che non la voglia di narrare le sventure del giovane Andy: forse un retaggio della propria ventennale attività di documentarista televisivo, probabilmente per un viscerale amore per quei luoghi; ma sta di fatto che la forza del racconto e la sua stessa urgenza sono esattamente ciò che in Cuernavaca fatica ad emergere.

I personaggi sono ben definiti ed hanno ruoli perfettamente funzionali allo scopo: (accanto allo sfortunato protagonista) c'è la nonna che va avanti a antidepressivi e che ancora piange e si ubriaca nel ricordo del marito suicida, c'è il padre ludopatico ed irresponsabile incapace ad assumersi la benché minima responsabilità, e c'è anche il nuovo amico, un carismatico perdigiorno di qualche anno più grande che è la quintessenza della cattiva compagnia: ma tutto appare talmente in ordine da esserlo troppo, anche in fatto di prevedibilità. E a completare un quadro nel quale buone capacità di regia finiscono annacquate in una sostanziale mancanza di ambizione, c'è il ricorso ad un onirismo elementare che, se per un po' affascina per semplicità, alla lunga stanca per ripetitività.

In conclusione, il percorso di questo bambino costretto a maturare prima e di più degli adulti che gli gravitano attorno, è portato avanti senza infamia ma purtroppo anche senza alcun guizzo degno - se non della lode - almeno di una particolare nota di merito che gli permetta di distinguersi da altri mille racconti di formazione.

VOTO: ***

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Stormmaker

  • Drammatico
  • Colombia, Repubblica Dominicana, Messico
  • durata 80'

Titolo originale Tormentero

Regia di Rubén Imaz

Con José Carlos Ruiz, Gabino Rodríguez, Monica Jimenez, Waldo Facco

Stormmaker

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Tormentero è aperto da una didascalia nella quale, in prima persona, il protagonista racconta di quando, dopo tredici giorni al largo in barca, avvistò nell'acqua una chiazza scura che lo insospettì, portandolo a far presente la cosa a chi di dovere nonostante gli altri pescatori minimizzassero pensando al carburante perso da qualche imbarcazione: esaurite queste poche righe di introduzione, che resteranno il momento narrativamente più limpido e compiuto del film, iniziano le immagini, e con esse il pellegrinaggio di don Romero Kantun, detto Don Rome, tra le spoglie di un villaggio ora disabitato, al cui pontile non attraccano più barche e che nel mare non vede più pescatori ma solo un agglomerato petrolifero, e tra quelle della propria abitazione, nella quale, oltre alla sua inseparabile bottiglia di whiskey, si materializzano in ordine sparso figure a lui familiari.
La chiazza scura di cui parlava nella didascalia introduttiva era petrolio, e tale scoperta, se da un lato si rivelò una risorsa fondamentale per l'intero Messico e gli garantì la riconoscenza diretta (solo quella) di chi impiantando il giacimento iniziò a lucrarci, dall'altro causò di fatto la morte sociale del villaggio stesso e la rovina economica dei suoi abitanti - che si sostentavano grazie alla pesca del gambero - facendogli guadagnare il loro disprezzo.

Gli ottanta criptici minuti di Tormentero sono l'omaggio di Rubén Imaz (giovane regista giunto qui al quarto film) all'uomo realmente esistito - e del quale asserisce di aver visitato anche la tomba - che dopo la scoperta del giacimento in questione finì per morire solo e alcolizzato, rinnegato ed allontanato da quella che era stata la sua comunità. Tormentero, dunque, altro non è che il sogno inquieto e delirante di un uomo al crepuscolo giunto alle soglie della pazzia, disperato per la propria solitudine da un lato e per lo stato in cui la natura versa per via dalla cupidigia dell'essere umano dall'altro, e all'ostinata ricerca di qualcosa che possa sollevarlo dai propri sensi di colpa.
Messe in chiaro la genesi e il senso iniziale dell'operazione, e sottolineata anche l'affermazione del regista di essersi ispirato alla figura di Prospero de La Tempesta di Sheakespeare (anche lui espulso dalla sua gente) per conferire al personaggio di Don Rome dei rilievi ancestralmente magici, resta l'impressione di essere di fronte ad un'operazione respingente e cervellotica oltre ogni dire, che rifiuta programmaticamente ogni forma di linearità e si crogiola nel proprio velleitario ermetismo, chiedendo allo spettatore di lasciarsi trasportare tra le belle immagini create assieme a Gerardo Barroso (direttore della fotografia capace di unire nella stessa immagine neri profondissimi e colori caldi brillanti) in un viaggio affascinante ma quantomai frustrante, serenamente annoverabile nella categoria degli esercizi di stile.

VOTO: **½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Mudbound

  • Drammatico
  • USA
  • durata 132'

Titolo originale Mudbound

Regia di Dee Rees

Con Carey Mulligan, Garrett Hedlund, Jonathan Banks, Jason Clarke, Jason Mitchell

Mudbound

In streaming su Netflix

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Primi anni '40. Dopo esser stati truffati per l'acquisto di una fattoria tutta loro, Henry and Laura McAllan si vedono costretti, con i pochi soldi che gli restano, a ripiegare su una casa ben più modesta e per di più già abitata da Hap e Florence Jackson con i loro figli, una famiglia di afroamericani che vive lì già da tempo e da lì sta progettando il suo futuro, ma che, suo malgrado, non può non accettarne la presenza, l'autorità e la precedenza, ritrovandosi di colpo in posizione subordinata in virtù delle Leggi Jim Crow emanate alla fine del XIX secolo e ancora in vigore.

Nel frattempo, la seconda guerra mondiale chiama a sé un maschio per famiglia: l'altro figlio maschio di casa McAllan, Jamie, e il primogenito dei Jackson, Ronsel, il primo spedito a pilotare aerei, e il secondo a combattere in prima linea. La permanenza in Europa li pone di fronte a una cultura diversa e più aperta che cambia entrambi. Al ritorno, il nuovo impatto con il razzismo che si respira lì sul delta del Mississipi è per loro devastante: già provati dal ricordo del conflitto, i due trovano l'uno nell'altro un sostegno e stringono amicizia, sfidando però pericolosamente le convinzioni di papà McAllen e della maggioranza bigotta.

Tratto dall'omonimo romanzo di Hillary Jordan, Mudbound si ripromette di condensare in poco più di due ore un lustro della storia di queste due famiglie per produrre una foto il più possibile fedele di quanto fosse culturalmente aberrante la situazione nell'America rurale in quegli anni: lo fa presentando poco a poco tutti i suoi personaggi e mostrando di ciascuno quali sono le idee, i pensieri o i desideri, soffermandosi sulla frustrazione di Hap, che vorrebbe dare alla figlia ora bimba l'opportunità di realizzarsi, come sui tentennamenti di Laura, che ha sposato il fratello sbagliato ed è sempre in contrasto con la sua blanda imitazione del proprio padre padrone. La sceneggiatura della regista Dee Rees (scritta con Virgin Williams), però, si affloscia subito sotto il peso della propria provenienza letteraria, proponendo una lunga prima parte convulsa, prolissa ed eccessivamente verbosa, nella quale vorrebbe raccontare tanto ma riesce solamente a far 'declamare il racconto' a ben cinque voci fuori campo onnipresenti e pedanti, puntando all'opera corale ma finendo per sfociare in un polpettone frammentario e senza ritmo.
Seppur l'ingorgo di informazioni e voice-over si sciolga solo dopo un'ora abbondante, permettendo che al dramma di montare e al ritmo di salire quando i buoi sono ormai usciti dalla stalla, Mudbound resta una megaproduzione dell'ormai non più solo emergente Netflix, vanta la presenza di un buon cast (sprecato) e affronta (scolasticamente) un tema capace di far vibrare la coscienza sporca degli 'americani', e tanto basterà per farne un sicuro protagonista alla prossima notte degli Oscar.

VOTO: **½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Blue My Mind - Il segreto dei miei anni

  • Drammatico
  • Svizzera
  • durata 97'

Titolo originale Blue My Mind

Regia di Lisa Brühlmann

Con Luna Wedler, Zoë Pastelle Holthuizen, Regula Grauwiller, Georg Scharegg, Nicola Perot

Blue My Mind - Il segreto dei miei anni

In streaming su Rakuten TV

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017 - SELEZIONE UFFICIALE

A 15 anni, Mia è sempre più insofferente verso i genitori, verso la loro invadenza e quell'educazione imposta con gli obblighi e le punizioni. Ed è angosciata perché, avendo appena cambiato casa, non ha nemmeno amici cui affidarsi. Arrivata nella nuova scuola ad anno in corso, è decisa a farsi accettare da un gruppetto di bulle ribelli capitanate da Gianna, la cui unica regola è che le regole non vanno rispettate: con loro impara a rubare nei supermercati e a mostrare le tette dai cavalcavia, a bere, a drogarsi, e a darla (o per lo meno offrirla) a chiunque incontri.

Nel frattempo, l'arrivo delle prime mestruazioni ha portato con sé un effetto collaterale inspiegabile: da un giorno all'altro, due dita dei piedi le si sono attaccate, unite tra loro da una specie di membrana, e poco più tardi le gambe hanno iniziato a coprirsi di strani lividi. A casa, poi, scopre di essere particolarmente vorace di pesce fritto, ma di gradire anche di più i pesci rossi dell'acquario, crudi e senza limone. Mentre l'acqua del mare gli si para davanti ogni volta che chiude gli occhi, Mia, cui il medico non ha saputo dar spiegazioni, continua a tacere il problema coprendosi via via di più e tenendo comportamenti sempre più estremi. Fino al momento in cui, inesorabile, la soluzione spunta dall'oceano della sua disperazione, ed è sfuggente come la coda di una sirena.

Fosse stato solo un dramma giovanile dal respiro antropologico, incentrato sul percorso di emancipazione di una ragazza e sul rifiuto dell'autorità e del controllo da parte degli adolescenti, Blue My Mind avrebbe avuto il suo perché: i giovani sono descritti in maniera schietta e precisa, i loro bagordi sono accompagnati da telecamere sempre presenti, mobili e vicinissime all'azione, e la scoperta/perdita del sé da parte della protagonista, stravolta da un sovraccarico di stimoli di diversa natura che non riesce a gestire, è resa degnamente dalle atmosfere morbose che la regista sa suggerire. Regista svizzera al primo lungometraggio e già attrice televisiva, Lisa Brühlmann ha invece voluto azzardare un originale incontro tra il racconto di formazione e il fantasy, ma senza trovare il registro giusto, o meglio, calando il fantasy dal nulla - come un pugno in un occhio - alla fine di un percorso improntato ad un realismo quasi brutale che non può che rigettarlo. Tutto questo per servire, male, una metafora.

VOTO: **½

Rilevanza: 1. Per te? No
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