"...E dopo, quando abbiamo fatto un secondo film e un terzo sapevamo bene che non ci sono solo i problemi sociali. Abbiamo anche alcuni problemi ontologici e ora credo che un bell'ammasso di merda sia in arrivo dal cosmo." ~ Bela Tarr
"La terza ragione (per cui ammiro Bresson) è l'inesauribilità della sua forma artistica. Nel senso che si è forzati a valutare la sua forma artistica come fosse vita, come fosse la natura stessa. In questo senso lo trovo molto vicino al concetto orientale di arte Zen: profondità all'interno di limiti rigidamente definiti. Lavorando con queste forme, Bresson nei suoi film non tenta di essere simbolico, tenta di creare una forma inesauribile quanto la natura, quanto la vita stessa. Chiaramente questo non sempre funziona. Infatti, ci sono episodi nei suoi film che sono estremamente simbolici, e perciò limitati - simbolici e non poetici." ~ Andrej Tarkovskij
"C'è stato un momento in cui mi sono piaciuti i suoi film (di Rossellini), per esempio VIAGGIO IN ITALIA. Ma tutto considerato lo trovo disgustoso." ~ Jean-Marie Straub
Non so se siete stati raggiunti dalla circolare sul cambio della cadenza di pubblicazione di questa rubrica da circa-mensiliforme ad annuale... Comunque sia, qui c'è la ventesima dispensa dell'enciclopedia con un quintetto registico tra i più raffinati, rivoluzionari e festivalieri tra quelli ospitati finora. Più Oliver Stone. (Che non incontra molto il mio favore ma questo poco importa e certo (?) non ha inciso sulla cura dovuta al suo segmento.) Del resto in un certo senso di uno come Oliver Stone c'era quasi "bisogno" per alleggerire un po' la cappa austera e cospiratoria da cinema d'essai, quel genere di clima che ti fa venir voglia ogni tanto di stordirti con un film fracassone in una sala dove la distanza tra le file di poltrone non sia a misura di Hobbit. Ciò detto...tra le attrazioni di questo numero si segnalano: l'amore di Oliver Stone per il poco citato filmmaker Barry Shear; quello di Suzuki Seijun per l'epopea del samurai psicopatico Ryunosuke Tsukue; un paio di titoli datati e oscuri selezionati da Syberberg (uno dei quali conduce curiosamente ad EYES WIDE SHUT di Kubrick)...e per finire, per il capitolo delle scelte sorprendenti, vi lascio giusto qualche secondo per indovinare chi tra questi cinque rinomati autori ha elogiato i meriti artistici del TERMINATOR di Cameron. E poi basta. Ci risentiamo tra un anno.
I consiglieri:
Oliver Stone (J.F.K. ; WALL STREET)
Jean-Marie Straub (CRONACA DI ANNA MAGDALENA BACH; SICILIA!)
Seijun Suzuki (DERIVA A TOKYO; IL MARCHIO DELL'ASSASSINO)
Hans Jurgen Syberberg (HITLER - UN FILM DALLA GERMANIA; LUDWIG - REQUIEM PER UN RE VERGINE)
"Credo che Robert Wise sia uno dei registi americani più sottovalutati. Il suo QUELLI DELLA SAN PABLO è una delle più formidabili grandi produzioni mai realizzate. Il film è ambientato negli anni '20, nella Cina dilaniata dalla guerra civile. Uno straordinario Steve McQuenn interpreta il ruolo di Jake Holman, un marinaio cinico imbarcato su una cannoniera americana, la "San Pablo", che si ritrova fatalmente implicata nella rivolta cinese. Nel film ci sono due bellissime storie d'amore, la prima tra classi sociali diverse - il rude marinaio Steve McQuenn e la virginale, aristocratica figlia del missionario, Candice Bergen - e la seconda tra razze diverse - Richard Attenborough, nel memorabile ruolo di un veterano della marina, e Marayat Adriane in quello di una bella e oppressa cinese. Ci sono moltissime scene memorabili, una di queste - l'uccisione per cause politiche di un "coolie" cinese amico di Holman, impersonato dall'attore nippo-americano Mako - è stata la prima scena di un film che mi abbia fatto piangere per un personaggio asiatico. La tensione tra i marinai della cannoniera è espressa magistralmente: molti tra i compagni di Holman - come quello interpretato dal perfido Simon Oakland - non sono affatto eroi americani, ma animali che tentano di trascinare il protagonista al loro livello. All'epoca della sua uscita QUELLI DELLA SAN PABLO fu considerato un fiasco: il pubblico era ancora troppo abituato alla versione della guerra proposta da John Wayne. Eppure io sono convinto che, allora come oggi, sia un film notevole ed estremamente coraggioso. È dall'età di nove anni che adoro Wise, da quando la sua ELENA DI TROIA mi spinse a leggere "L'Odissea" e gli altri classici e miti greci. Quando giravo WALL STREET ho sentito forte l'influenza de LA SETE DEL POTERE, un film di Wise ambientato nel mondo degli affari. È un delitto che Wise, come molti altri registi della sua generazione, compresi Stevens, Wellman, Wyler, Milestone e Kramer, siano stati messi in croce dalla critica che rifiutava lo stile classico a favore della Nouvelle Vague francese e dei suoi imitatori americani. Ho amato e sono stato influenzato da Godard, Resnais e dagli altri, ma non credo che sia un tradimento continuare ad apprezzare la tradizione americana." ~ Oliver Stone
Con Cornel Wilde, Rip Torn, Burr de Benning, Jean Wallace, Patrick Wolfe
consigliato da OLIVER STONE
"Presto o tardi Cornel Wilde verrà riconosciuto per il regista originale che era. SPIAGGIA ROSSA è un film di guerra brutale, diretto. Lo vidi poco prima di partire per il Vietnam e ne fui colpito per la crudezza e la violenza delle scene di battaglia. Come in QUELLI DELLA SAN PABLO il nemico asiatico assume un volto umano, proprio nel momento in cui il conflitto del Sud-Est asiatico stava per esplodere. Anche se quando scrissi PLATOON non ne ero cosciente, il contrasto tra l'ufficiale umanista interpretato da Wilde e il duro interpretato da Rip Torn in qualche modo anticipa quello tra Elias e Barnes nel mio film." ~ Oliver Stone
Con Anthony Quinn, Yaphet Kotto, Paul Benjamin, Ed Bernard
consigliato da OLIVER STONE
"Apprezzo anche l'opera di Barry Shear, un regista poco noto attivo tra gli anni '60 e gli anni '70. QUATTORDICI O GUERRA di Shear è in un certo senso un classico, ma io preferisco il suo poliziesco del 1972 RUBARE ALLA MAFIA È UN SUICIDIO, che fa un uso innovativo della cinepresa a mano, della variazione di velocità e contiene scene notturne eccezionali oltre che l'interpretazione memorabile di Anthony Quinn e Japhet Kotto. Amo molto anche l'ultimo film di Shear, LA ROSSA OMBRA DI RIATA, un western alla Peckinpah estremamente violento, basato su una storia di Sam Fuller." ~ Oliver Stone
Con Gene Tierney, Vincent Price, Walter Huston, Glenn Langan, Anne Revere, Spring Byington
consigliato da OLIVER STONE
"È un interessante melodramma realizzato da Mankiewicz prima che raggiungesse le vette di EVA CONTRO EVA. Lavorò con Gene Tierney, che è stata, credo, una delle più belle donne che abbia mai impreziosito lo schermo. Lei è una ragazza di umili origini che nel 1840 nello stato di New York viene data in sposa dai genitori puritani a un aristocratico locale. Interpretato indovinate da chi? Vincent Price, giovane e bello. Si basa su un romanzo, e nella storia lui si comporta in modo piuttosto strano. Ha un ufficio privato nell'attico di una grande villa dove si ritira per lunghi periodi di tempo. Lei si scopre sempre più affezionata a lui anche se sparisce continuamente. Durante il film realizza che i familiari di lui sono pazzi. Un giorno lo coglie di sorpresa e... credo che fosse oppio quello che si era fatto per anni ed anni. È un film fatto in maniera splendida, una storia d'amore triste." ~ Oliver Stone
Con Spencer Tracy, Ingrid Bergman, Lana Turner, Ian Hunter, Donald Crisp, Barton MacLane
consigliato da OLIVER STONE
"Ricordo di essere stato molto colpito da DOTTOR JEKYLL E MR. HYDE - con Spencer Tracy e Ingrid Bergman (1941). Cosa fa il dottor Jekyll? È una brava persona, amato dai suoi amici, ed ecco che stranamente si ritira nel suo laboratorio a giocare con la sua struttura genetica per il bene dell'umanità. È una storia che riguarda il cambiamento, ed è ovviamente estrema - uno dei racconti più popolari di sempre. Hyde fa cose orribili, e il modo in cui Spencer Tracy si trasforma è affascinante; non è tanto una questione di effetti visivi, è una trasformazione che viene da dentro. È lì che vedi che la droga funziona, e ti dispiace per lui. La versione precedente del film, quella con Frederic March, è sempre stata la più considerata perché ha vinto un Oscar. March è, come sempre, eccellente, ma Spencer Tracy ha qualcosa, è più interessante. È più interiore. Puoi interpretare l'azione della droga come se cambiassi faccia, guardandola da fuori. O può venire dall'inferno nella tua anima, ed è così che Tracy l'ha interpretata." ~ Oliver Stone
Fonti: Sight & Sound (1992); filmdoctor.co.uk; "Oliver Stone: Interviews" by Oliver Stone e Charles L. P. Silet; "Cult!" a cura di Bill Krohn; "Oliver Stone" ed. il Castoro; The Daily Beast; latimes.com; interviewmagazine.com; IMDb quotes;
"Dicono che non sono sottile. Ma Artaud ha detto: «Abbiamo soprattutto bisogno di un teatro che ci tenga svegli, mente e cuore». Io sono sempre sulla scena, bene in vista. Odio il solo concetto di costringere a forza lo spettatore a fare qualcosa. Tiro fuori la mia passione, i miei onesti sentimenti. Ciò che faccio è tutto qui. Ad alcuni piace, altri pensano che sia troppo forte. (...) In me c'è un po' del gangster, senza dubbio. Mi piace la grandiosità di stile. Amo l'eccesso. Il concetto di eccesso è presente in molti dei miei personaggi. In Gordon Gekko e Jim Morrison. Jim dice: «Credo nell'eccesso». Nel potere dell'eccesso. Perché con l'eccesso io parto, vivo una vita più grande. Gonfio la mia vita, e gonfiandola vivo di più; conosco di più il mondo. Ne sperimento di più. Muoio con più esperienza." ~ Oliver Stone
"Andavo spesso al cinema con mia madre e mio padre. Insieme abbiamo visto ORIZZONTI DI GLORIA. Penso che Kubrick fosse il mio regista preferito a quindici anni. E poi David Lean, LAWRENCE D'ARABIA. Mi ricordo di aver visto LA DOLCE VITA. Sembrava poter fare cose in bianco e nero che i film americani non facevano. Che si potesse prendere una persona comune, una vita comune, e riesaminare quella vita in termini mitici. (...) Ho conosciuto l'Estremo Oriente leggendo Conrad, «Lord Jim». Leggevo anche Kipling, e «Il segno rosso del coraggio», e Hemingway, e avevo pensieri molto romantici. Anche Norman Mailer era molto importante per me. Leggevo tutta la sua roba. Amavo «Un sogno americano», è un grande libro. Ricordo tutta la discussione che c'era sulla morte e il suicidio. Ero stato in guerra, come Mailer, come Hemingway. E mi sentivo come se dovessi andare là fuori e farcela. Se non ce la facevo, non aveva senso esistere." ~ Oliver Stone
Stone cita le sceneggiature di Paddy Chayefsky per ANCHE I DOTTORI CE L'HANNO e QUINTO POTERE come esempi di sceneggiatura che lo influenzano, oggi come anni fa. "A influenzarmi oggi sono i romanzi sociali. 'Sister Carrie' di Theodore Dreiser, e 'Una tragedia americana'. 'Dodsworth' e 'La via principale' di Sinclair Lewis. I romanzi di Zola e Hugo e Balzac e Upton Sinclair. Gli avvocati in 'Casa desolata' di Dickens sono personaggi che mi affascinano..." ~ Oliver Stone
"Ho frequentato scuole molto conservatrici. Sono andato alla Trinity School, e poi alla Hill School, che è un collegio, e poi a Yale. I miei genitori divorziarono in quel periodo, e io realizzai che non avevo più una vita. Ero figlio unico, perciò una famiglia di tre persone va in pezzi. Ho finito per essere molto conformista, molto spaventato, molto solo. Non riuscii a proseguire gli studi a Yale, proprio non ce la facevo. Avevo fatto troppo a lungo cose di quel genere. Non sapevo cosa volevo, ma sapevo cosa non volevo, che era andare a Wall Street (come il padre - ndt) e unirmi a quella gente. Non mi piacevano i miei compagni di classe. Renditi conto, Bush era nella mia stessa classe. (...) Fu dura per me quando andai in Vietnam. La prima volta ci andai come insegnante. E poi ci tornai come soldato perché pensavo di dover andare fino in fondo. (...) Avevo scritto un romanzo a 19 anni, dopo esser tornato dalla Marina Mercantile, ma prima di entrare nell'esercito. Così era stato scritto quasi completamente prima della guerra, ma aveva comunque alcune vivide sequenze di guerra. Alla fine come risultato ho scritto PLATOON. È una realtà differente PLATOON paragonata alla guerra nel romanzo. Quello era un giovane uomo romantico che si avventurava nel mondo. (...) A 19 anni volevo essere Norman Mailer, James Joyce. Ma fu chiaro dopo quel romanzo, che fu pesante da scrivere, che non mi piaceva neanche quel mondo. Non credevo fosse possibile guadagnarsi da vivere come scrittore. E per allora ero poi partito per la guerra in Vietnam, e la fotografia era l'unico mezzo di comunicazione. Questo portò alla scuola di cinema dopo la guerra. Mi è sempre piaciuto scrivere. Ma non ho più voluto scrivere un altro romanzo, mai più. Il cinema era un compromesso. Pensavo di avere un buon occhio, ma non facevo grandi film. Ho avuto diversi anni di rifiuti. Ho scritto sceneggiature ogni anno. Credevo nella sceneggiatura. Credevo fosse una forma sacra di scrittura. Ma ho scoperto, in seguito, che non è molto rispettata." ~ Oliver Stone
Su Stanley Kubrick: "L'aspetto più interessante di una scena è “l'incertezza controllata”. È quello che aveva Kubrick. Tutti gli altri giravano in maniera piuttosto convenzionale, ma quando vedevo i film di Godard o Kubrick, in quel periodo in cui studiavo i film con maggiore intensità, in Stanley Kubrick c'era imprevedibilità. Anche quando ero un ragazzino non sapevo cosa avrebbe fatto dopo. È il modo di Kubrick di osservare la realtà. La sua realtà è super-caricata." ~ Oliver Stone
"L'ULTIMO IMPERATORE è la più meravigliosa, sontuosa opera sulla decadenza!" ~ Oliver Stone
Con Halvard Hoff, Elith Pio, Carl Meyer, Olga Raphael-Linden, Betty Kirkeby
consigliato da JEAN-MARIE STRAUB
"Quel che ammiro particolarmente nei film di Dreyer che ho potuto vedere o rivedere negli ultimi anni è la ferocia nei confronti del mondo borghese: la nozione borghese di giustizia (PRÆSIDENTEN è una delle più stupefacenti costruzioni narrative che io conosca, e uno dei film più «Griffithiani», quindi uno dei più belli), la vanità del mondo borghese (i sentimenti e gli arredi di DESIDERIO DEL CUORE), la sua intolleranza (DIES IRAE, stupefacente per violenza e dialettica), la sua ipocrisia angelica («È morta...non è più qui...è in paradiso, » dice il padre in ORDET, e il figlio replica: «Sì, ma io amavo anche il suo corpo...»), e il suo puritanesimo (GERTRUD, per questo così ben accolto dai parigini sugli Champs-Elysées)." ~ Jean-Marie Straub
Titolo originale Vampyr, l'etrange aventure de David Gray
Regia di Carl Theodor Dreyer
Con Julian West, Henriette Gérard, Jan Hieronimko, Maurice Schutz
consigliato da JEAN-MARIE STRAUB
"...Per altri versi, VAMPYR («Non ci sono bambini qui e neanche cani») rimane per me, dal giorno che l'ho visto 13 anni fa in «rue d'Ulm», il più risonante di tutti i film." ~ Jean-Marie Straub
Con Jacques Tati, Pia Colombo, Karl Kossmayer, Les Vétérans, Les Gigolos
consigliato da JEAN-MARIE STRAUB
STRAUB: "I film di Tati sono un susseguirsi di difficoltà."
HUILLET: "Proprio così, la cosa più difficile da catturare nel cinema è quello che si vede continuamente per strada: gesti imbarazzati, gesti interrotti." (...)
STRAUB: "Amo molto l'ultimo film di Tati (PARADE). Rivette aveva assolutamente ragione quando disse che Tati era diventato un filmmaker politico. Quello che fa con il materiale video ingrandito, quel che ne ricava, è straordinario. Quel che è eccitante in PARADE è che è un film su tutti i livelli di flusso nervoso, a cominciare dal bambino che ancora non riesce a fare un gesto, che non riesce a coordinare mano e cervello, per arrivare fino agli acrobati più abili."
Con Maria Casarès, Paul Bernard, Elena Labourdette, Lucienne Bogaert, Jean Marchat
consigliato da JEAN-MARIE STRAUB
"Nutro grande ammirazione per PERFIDIA e per DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA, e Bresson ha certamente influenzato il nostro lavoro (di Straub e Huillet - ndt). Ma i suoi ultimi film non li amo per niente. LANCILLOTTO E GINEVRA, ad esempio, non lo trovo di alcun interesse. (...) Di Bresson ho visto quei primi film e sono sicuro che mi hanno molto influenzato, ma non sono in grado di dire come. Così lascerò paragoni del genere a chi sa tutto sull'opera di entrambi." ~ Jean-Marie Straub
Con Paul Richter, Margarete Schön, Rudolf Klein-Rogge, Gertrud Arnold
consigliato da JEAN-MARIE STRAUB
"Credo che le mie influenze più importanti in termini di film siano venute dai registi tedeschi. Quando penso ai film tedeschi di Fritz Lang, e anche ai suoi film americani, non vedo solo nei primi i problemi e le questioni riguardo al teatro espressionista tedesco degli anni '30, ma qualcosa di più, nei film fatti negli Stati Uniti il sovvertimento dei film americani, le sue riflessioni sul cinema americano. E come ha giustamente sottolineato Louiz Seguin c'è anche l'influenza di prima del 1933, l'influenza dei NIBELUNGHI di Lang, e anche di METROPOLIS, su MOSÈ E ARONNE. Poi ci sono un mucchio di film americani che ho visto e che mi hanno influenzato, anche se direi cento volte meno rispetto a quanto hanno influenzato Godard o Rivette, ad esempio. E siccome presto lasciai Parigi per la Germania, fu difficile vederli là. E in realtà è tutto qui. Avevo visto dei film di Lang e tre o quattro film di Mizoguchi, e alcuni film di Renoir che per altro mi hanno influenzato almeno quanto ha fatto Bresson, ed alcuni film di Eisenstein, ed è più o meno tutto. Ma è abbastanza. Non è importante cnoscerli tutti, quanto conoscerne bene alcuni. Non devi conoscere tutto il museo, ma solo alcuni dipinti." ~ Jean-Marie Straub
"Un cineasta non deve mai illustrare le descrizioni di un romanzo. Orson Wells l’ha fatto nel suo film sul Processo di Kafka, che infatti non è uno dei suoi film migliori. Quello che un cineasta deve prendere da un romanzo sono i dialoghi, i rapporti di forza tra i personaggi, i personaggi come individui. Non si devono mai mostrare luoghi che blocchino l’immaginazione al cinema, mai luoghi pittoreschi o illustrativi se no diventa decorativismo e non è più cinema. Ricordo che Böll rimase esterrefatto quando vide MACHORKA MUFF e si arrabbiò perché noi avevamo girato le scene a Bonn e la città si riconosceva benissimo. Nell’opera lui non dice mai Bonn, ma sempre la capitale, la capitale… e la capitale era Bonn così noi girammo a Bonn ma per Böll la capitale doveva essere un concetto astratto. Gli scrittori sono fatti così, se li prendi sul serio si arrabbiano perché si trovano nel concreto e questo a loro non piace." ~ Jean-Marie Straub
Su Ernst Lubitsch: "I suoi film sono diventati importanti per me come quelli di Lang e Murnau. GLI OCCHI DELLA MUMMIA è come ESCHNAPUR, e SANGUE GITANO è LA CARROZZA D'ORO. DER STOLZ DER FIRMA, così divertente e, in definitiva, così Brechtiano; lo stesso vale per MADAME DUBARRY, che si dimostra politicamente provocatorio con tre inquadrature, e IL VENTAGLIO DI LADY WINDERMERE, più bello e denso dei più meravigliosi film di Hitchcock." ~ Jean-Marie Straub
"Hölderlin è il più grande scrittore perché è l’unico del suo tempo che ha veramente sentito la minaccia della civiltà industriale. È l’unico poeta europeo, tutti gli altri, Goethe, Schiller pensavano che fosse pazzo, loro erano collaboratori della merda nascente. È questo che ci interessa nella letteratura, le emozioni. Nel mio film LA MORTE DI EMPEDOCLE, Hölderlin fa un discorso agli uomini del futuro e sviluppa un’enorme utopia che io chiamerei utopia comunista: siamo degli amputati a livello dei sentimenti per colpa della società. La società ci chiede sempre di rinunciare, ma per arrivare a cosa? Secondo me questa utopia sviluppata da Hölderlin sarebbe ancora attuabile e sarebbe l’unico modo per gli uomini di salvare se stessi." ~ Jean-Marie Straub
INTERVISTATORE: "Lei ha detto una volta che nei suoi film non cerca di adattare le teorie di Brecht al cinema, bensì sta effettuando una ricerca parallela a quella di Brecht per quanto riguarda il cinema. Quindi è giusto dire che questo tipo di recitazione vuole provocare un effetto di straniamento nello spettatore, come accadeva nel teatro di Brecht? Lei una volta ha detto anche che “ogni attore è coscienza-verbo incarnato”, quindi questo tipo di recitazione è da ricondurre al fatto che l’attore in realtà non è che un veicolo del linguaggio?"
STRAUB: "Un attore non deve fingere che le battute che sta dicendo siano sue, escano dal suo cuore. Quel testo l’ha scritto qualcun altro quindi l’attore cita. Il testo citato deve rimanere tale, anche se dall’attore traspare dell’emozione però non deve dare l’impressione che il testo sia suo. Se no allora facciamo inventare i testi agli attori. Nel film NON RICONCILIATI quello che ci interessava dal punto di vista degli attori era il ventaglio di stile di recitazione che c’è tra Robert, che risulta molto naturale e vero e la vecchia Johanna che, tutto al contrario, sembra recitare una litania. Quello che più ci interessava era che nel film non ci fosse un’unità di stile nella recitazione. Possiamo infatti anche dire che NON RICONCILIATI è una macchina da guerra contro quest’assurdità dell’unità di stile nella recitazione. Colui che aveva meglio capito il cinema si chiama Jean Renoir e anche lui non accettò mai l’unità di stile della recitazione, oggi imperante al cinema."
INTERVISTATORE: "Lei ha detto una volta che la principale difficoltà nel fare dei film è evitare che la narrazione divori le immagini, questo significa che in un film secondo lei sono soprattutto le immagini a dover raccontare? Cioè che è l’immagine a dover suscitare una reazione nello spettatore piuttosto che le parole?"
STRAUB: "Io volevo dire che se l’immagine diventa narrativa non la si può più interpretare. Ogni immagine deve essere una radura che lascia libera la mente dello spettatore di andare nella direzione che più preferisce. Non si deve mai dare la soluzione."
«Pavese è il Brecht italiano. Almeno, è questo l’aspetto di Pavese che proponiamo nel film (DALLA NUBE ALLA RESISTENZA - ndt). In certi punti, è andato oltre Brecht. Intanto, Pavese, malgrado tutto, non era un ragazzo di città. E poi ha un senso del destino che Brecht non aveva. C’è anche un Pavese che è rimasto al di qua di Brecht; sono due aspetti che abbiamo voluto mettere insieme nel film e studiare l’uno in funzione dell’altro. Vedere nel Pavese interessato al mito un ritorno alle “forze oscure”, all’irrazionalità, come dicono Calvino e altri, è sbagliato. Pavese vede il mito come memoria collettiva di un pezzo di storia rimossa e lontana. Proprio dove sembra più antibrechtiano è simile a Marx e Engels che, alla fine della loro vita, andavano a studiare i rapporti di produzione sempre più lontano, fino agli Assiri. E poi ci sono episodi dei Dialoghi con Leucò che hanno una dialettica proprio brechtiana, come quando il vecchio pastore fa un falò per chiamare la pioggia e dice al figlio: “uno storpio o un cattivo non fanno niente di bene, era giusto bruciarli, sacrificarli agli dei, perché gli dei ne avevano bisogno per godere” E il figlio si alza e dice: “non voglio, fanno bene gli dei a guardarci patire, fanno bene i padroni a mangiarci il midollo se siamo stati così ingiusti tra noialtri”. E anche la riflessione di Pavese sugli dei, che sono un’invenzione degli uomini e diventano presto una nuova forma di oppressione perché apportano una legge che non esisteva. C’è da dire che Pavese vede anche il lato progressista di questa invenzione. Infatti, Eracle dice che gli dei “hanno cacciato nella grotta tutti quelli come Litierse”, che “spargevano il sangue per nutrire la terra”. Comunque il film è il più ateista che ci sia; e siccome gli dei sono anche i padroni, penso che abbiamo tirato fuori non solo il Pavese sinceramente comunista, ma anche il Pavese profondamente anarchico, nel senso storico della parola. […] I "Dialoghi con Leucò" e "La luna e i falò", a livello di scrittura, sembrano opposti; ma noi, insieme agli attori, ci abbiamo lavorato con lo stesso metodo. […] Tra la prima e la seconda parte ci sono molte corrispondenze. Il vecchio contadino, per esempio, dice: “Quante case di padroni bisogna incendiare, quanti ammazzarne per le strade e per le piazze prima che il mondo torni giusto e noi si possa dire la nostra”. Nella seconda parte c’è Nuto che dice: “E se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all'oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante, bisognerebbe fucilarlo in piazza”. […] Noi non abbiamo fatto un film sui contadini ma per i contadini; né un film sulle comparse. È un film sulla civiltà contadina, fatto con la collaborazione di contadini, i quali non interpretano se stessi, non vengono sfruttati come comparse; interpretano dei testi di un certo Cesare Pavese, dove si parla della loro storia, Qualcuno non aveva neanche sentito nominare Pavese; lo hanno scoperto con il lavoro sui blocchi di battute, non un Pavese generico. Non abbiamo chiesto loro di illustrare delle figure, ma di fare un lavoro che consiste nello strutturare, spezzare, ristrutturare, sovvertire e recitare un testo preciso. Non dico di più. Ciò che viene da loro in più e fa irruzione nel film è come la grazia di Dio: viene da sé, però bisogna lavorarci» (J.-M. Straub, “Paese Sera”, 7.5.1979).
Su Rossellini: "C'è stato un momento in cui mi sono piaciuti i suoi film, per esempio VIAGGIO IN ITALIA. Ma tutto considerato lo trovo disgustoso. Detesto Rossellini. Anche i cosiddetti film storici, come LA PRESA DEL POTERE DI LUIGI XIV e SOCRATE. Con la pretesa di parlare di storia mostra solo la pompa e il meccanismo della corte. Si esce dal film a mani vuote. Il film su LUIGI XIV fugge dal suo soggetto alla fine. Perciò quello che fa è disgustoso perché è solo decorativo. Non insegna nulla. Questi film dicono qualcosa sulla televisione italiana e sulla Democrazia Cristiana, e questo è tutto. Anche se Rossellini nega di essere un cristiano democratico, quello è certamente il soggetto del film." ~ Jean-Marie Straub
INTERVISTATORE: "Quali sono i suoi miti cinematografici? Da loro copia?"
SUZUKI: "Sicuramente quelli della mia generazione da Ford a Hitchcock, ma a loro non credo di aver mai rubato nulla. Anche il cinema italiano è molto bello e ricco di grandi registi. Il film che più mi è rimasto impresso è MORTE A VENEZIA di Visconti."
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IL CONGRESSO SI DIVERTE (Erik Charell, 1931, Germania) Siamo nel 1814. Costretto in esilio Napoleone, a Vienna si negozia il destino d'Europa con i vincitori riuniti tutti in congresso. Incidentalmente Christel, una graziosa guantaia, si trova ad accentrare su di sè l'attenzione del Congresso. Accusata ingiustamente di essere un'assassina, viene scagionata ma di lei si innamora lo zar di Russia, Alessandro. Christel illustra al suo corteggiatore la vita della città, portandolo in giro in carrozza. Nel frattempo il principe Metternich cerca di mettere a frutto l'assenza di Alessandro intessendo le sue trame politiche. Il ritorno improvviso di Napoleone, fuggito dall'Elba, rimette tutto in discussione. E la fiaba di Christel arriva al suo capolinea. ~ (Wikipedia)
"È il primo film in cui è stata usata la tecnica del playback. Le conversazioni, questo è interessante, sono in forma di operetta e c'è grande abilità nel legare le scene in modo fluido. Un capolavoro. Quest'opera mi ricorda sempre che i vecchi film ancora ci offrono moltissime cose da imparare." ~ Akira Kurosawa
DAIBOSATSU TÔGE / THE GREAT BODHISATTVA PASS (Hiroshi Inagaki, 1936, Giappone) Film forse perso per sempre. Ne rimangono solo alcuni frammenti. La vicenda ruota attorno al personaggio di Ryunosuke Tsukue (Daijiro Okochi), un assassino seriale psicopatico negli ultimi decenni dell'era Edo. All'origine c'è un romanzo uscito in appendice su un quotidiano a partire dal 1913; la pubblicazione continuò per altri tre decenni: in tutto 41 volumi prima che la morte del suo autore Kaizan Nakazato (1885–1944) lo lasciasse incompleto. Mentre il romanzo stava ancora uscendo a puntate, già si producevano adattamenti teatrali dei primi episodi, seguiti poi da una versione cinematografica in due parti nel 1935 (versione che comprende il film di Inagaki). Dopo la guerra fu rifatto ripetutamente, in tre parti da Kunio Watanabe nel 1953, in tre parti da Tomu Uchida nel 1957-'59, in tre parti da Kenji Misumi e Kazuo (a.k.a. Issei) Mori nel 1960–'61, e infine nella versione del 1966 di Kihachi Okamoto: THE SWORD OF DOOM. La storia è intesa come un'espressione del Buddhismo Mahayana, con le azioni terrestri dei suoi personaggi, e in particolare del demoniaco samurai Ryunosuke Tsukue, come diretta conseguenza della legge karmica. Lo scenario politico - gli sforzi di diverse oscure fazioni per difendere il potere dello shogunato o per restaurare il dominio diretto dell'imperatore - è in sè solo un primo strato nella visione cosmica di Nakazato, in cui il percorso apparentemente malvagio dell'eroe è dettato da forze aldilà del suo controllo. In ogni caso Ryunosuke è uno di quei personaggi che sembra essere sfuggito alla presa del suo autore e aver preso vita per conto proprio - è un'icona della cultura popolare e incarna una fascinazione del male che gli dona il suo apparentemente paradossale carisma. Ryunosuke è l'archetipo dell'angelo caduto del primo Giappone moderno, una figura che genera empatica identificazione per l'inflessibile intensità con cui segue la sua strada, anche se sembra condurlo dentro l'oscurità. ~ (criterion.com)
INTERVISTATORE: "Se una Major hollywoodiana le offrisse una buona sceneggiatura, lei accetterebbe di dirigere il film?"
SUZUKI: "Il mio stile, ma anche il senso del mio cinema sono troppo differenti dalla cultura hollywoodiana, quindi sarei costretto a rinunciare."
INTERVISTATORE: "E' diventato un regista cult per molti giovani. Ma è anche diventato un regista cult per i nuovi registi cult come Tarantino, Besson, Jarmush e John Woo. Che effetto le fa?"
SUZUKI: "E' una cosa che si è instaurata in maniera artificiale, un po' strana. E' stato un processo stupido, come un film stupido. Comunque è stata una scelta loro, divertente, ma certamente non mia."
"Cosa penso dei miei film? Questa è difficile, perché la ragione per cui ho cominciato a lavorare per gli Studio Nikkatsu era che dovevo mantenermi. Ho imparato come fare cinema dai colleghi alla Nikkatsu. Perché fare film per me era un modo per fare soldi. Non ero un filmmaker per passione, non particolarmente. Sono un artista o un artigiano? Ho cominciato come regista di «program pictures» e i program pictures sono esclusivamente intrattenimento. Perciò gli script che ricevevo dallo studio inizialmente non erano artistici. Non c'era speranza di fare un film artistico da quegli script. L'unica cosa che potevo sperare di fare erano film divertenti e d'intrattenimento. Così provavo un mucchio di idee e stili differenti per ottenere questo risultato." ~ Suzuki Seijun
INTERVISTATORE: "Gli elementi visivi nei suoi film sono spesso descritti come, o paragonati alla, pop-art. Lei sente qualche tipo di legame con la pop-art o con qualche altro movimento artistico o estetico?"
SUZUKI: "Quando giro un film spesso osservo immagini, disegni e dipinti. Non solo pop-art, ma anche arte giapponese. La ragione è perché voglio vedere la forma di queste immagini, specialmente nel ritrarre le donne. Non capisco veramente perché viene chiamata pop-art nel mio caso. Forse il risultato di questo modo di lavorare finisce per essere pop-art, ma non è intenzionale. È solo che finisce per somigliare alla pop-art. Per essere onesto, nella scelta dei colori e in cose del genere non c'è molto significato. In generale un film è composto di molti elementi che fanno una grossa impressione sullo spettatore. Io li chiamo trucchi. Credo che il colore sia uno di quei trucchi."
"Uso la musica nei momenti in cui il pubblico potrebbe annoiarsi. In queste situazioni se il pubblico sente molta varietà nella musica, piuttosto che un solo tipo, forse per loro è più divertente e non così noioso. È per questo che faccio in questo modo." ~ Suzuki Seijun
"Nelle salette off berlinesi presi contatto con il cinema francese degli anni sessanta: mi colpirono molto tutti i film di Cocteau e l'Orfeo di Camus. Jean Renoir, Marcel Camus e Jean Cocteau mi hanno influenzato molto, mentre tra gli autori americani l'unico che mi interessa è Lubitsch, forse per la sua origine tedesca. Ho imparato molto da Ejzenštejn, Dovženko e da tutti i classici della cinematografia sovietica quando ero a Rostock, ma se devo indicare gli autori fondamentali per la mia formazione cinematografica è presto detto: Lang, Murnau e Wiene." ~ Hans Jürgen Syberberg
LA PRIGIONIERA DEL DESTINO / OPFERGANG (Veit Harlan, 1944, Germania) Liberamente tratto dall’omonima novella di Rudolf G. Binding, Opfergang narra del giramondo Albrecht (Raddatz) che torna ad Amburgo in seno alla famiglia e accetta – senza entusiasmo – di sposare la cugina Octavia (von Meyendorff), tanto bella quanto frigida. Nel frattempo si prende una discreta scuffia per la ricca vicina di casa, Aels Flodéen (Söderbaum), con la quale condivide lunghe cavalcate. L’uomo prende l’abitudine di salutare l’amica dal cancello della magione, in groppa al proprio destriero. Aels ha un segreto, anzi due. Soffre di una malattia incurabile e ha una figlia piccola che vive in un quartiere popolare. Quando nella città anseatica scoppia un’epidemia di tifo, Albrecht corre a salvare la bimba e si ammala. Aels ha ormai le ore contate, e a omaggiarla per l’ultima volta da lontano sarà Octavia a cavallo travestita da Albrecht: in tal modo, la donna dimostra di aver compreso l’importanza del flirt platonico tra i due. È questo il “grande sacrificio” del titolo. Aels muore in un delirio di dissolvenze incrociate e colori dorati, tra cancelli, cavalli e distese marine… e l’ultima immagine vede Albrecht, guarito, cavalcare via lungo la battigia insieme alla moglie. – Girato in uno sgargiante Agfacolor curato da Bruno Mondi, Opfergang fu uno dei primi film a colori tedeschi. Seppur meno pioneristico di Die Goldene Stadt, sempre di Harlan, Opfergang è un’esperienza audiovisiva difficile da dimenticare per la tavolozza accecante, per la recitazione sopra le righe, per la trama da feuilleton al cubo e per il contrappunto musicale di Hans-Otto Borgmann, onnipresente e, come suolsi dire, senza vergogna. Tant’è che, anche prima di arrivare ai cori angelici che accompagnano la morte di Aels, la pellicola riuscirebbe a intrattenere anche a schermo spento. (...) Opfergang resta l’opera più libera e intensa di Veit Harlan, un melodramma allo stato puro che precorre l’attrazione fassbinderiana per i destini tragici. Visto oggi, il segmento del carnevale, col suo portato di ambiguità e la sua carica sessuale, riporta alla memoria le segrete stanze in cui si muove il dottor Harford in Eyes Wide Shut. E un nesso c’è. Christiane Kubrick e Jan Harlan, rispettivamente moglie e produttore (da Arancia meccanica in poi) di Stanley, sono i figli di Fritz Moritz Harlan e i nipoti di Veit. Dopo il matrimonio con Christiane nel 1958, il regista americano entrò a far parte della grande famiglia Harlan e s’interessò al lavoro di Veit e al clima produttivo dell’UFA dominata dalla presenza di Goebbels. In termini filmici, non se ne fece nulla. O quasi. ~ (www.rapportoconfidenziale.org)
LISTA COMPLETA di SYBERBERG
- Ecco l'impero dei sensi (Oshima)
- L'angelo del male (Renoir)
- Aurora (Murnau)
- Rapsodia in agosto (Kurosawa)
- Albergo Nord (Carné)
- La donna che visse due volte (Hitchcock)
- Amanti perduti (Carné)
- La bella e la bestia (Cocteau)
- Odette, l'agente S-23 (Wilcox)
- La prigioniera del destino / Opfergang (Harlan)
- Orfeo negro (Camus)
Fonti: Sight and sound (1992); "Syberberg" ed. Il Castoro cinema;
"Ho discusso a lungo una volta con Stanley Kubrick sul suo modo e sul mio di intendere Wagner. Credo che siamo abbastanza vicini, anche se lui, avendo avuto come padre un grande musicista, ha un rapporto meno mediato del mio con la musica classica tedesca. I miei film certo non hanno nulla a che fare con l'istrionismo tzigano-sloveno di Herzog, o con Bob Dylan e il rock and roll citati e amati da Wim Wenders. La mia storia personale di uomo di frontiera proveniente dalla Germania Est mi ha forse aiutato nel rimeditare meglio su tutto ciò che è tedesco, da Schlegel a Kant. Tutto è espresso molto bene dal film di Kluge ANITA G.: LA RAGAZZA SENZA STORIA. Ma anche i Beatles amati da Wim Wenders, e che io ho fotografato a Monaco come reporter quando non erano ancora famosi, esprimono concetti analoghi nel loro brano del 1965 intitolato appunto «Nowhere man»." ~ Hans Jürgen Syberberg
"Noi tedeschi siamo un popolo curioso: del mio film si respinge quell'irrazionalità che è stata invece accettata e condivisa dal nazismo. Quel che manda in bestia la gente, ciò che ha spinto la stampa a tacere sul mio film dalla sua presentazione a Cannes nel maggio 1978, è che io ritengo superato, inutile, facile, tentare ancora di uccidere Hitler - come del resto non si riesce mai - con la sua follia, ferocia, megalomania. Io voglio ucciderlo con le sue stesse armi: con Wagner, con il fantastico, con la realtà di un paese che lo ha voluto e amato. Irrazionalità contro irrazionalità. Mito contro mito. Hitler è stato il più grande cineasta tedesco, la più grande star dello spettacolo. Contro di lui la battaglia da combattere oggi è quella che ha le armi del cinema e dello spettacolo. (...) E ancora: io parlo dell'antisemitismo che non è un'invenzione nazista, ma è dentro la cultura tedesca, che ha sempre visto gli ebrei come simbolo di assenza di identità, eppure capaci di essere ciò che i tedeschi vogliono essere, una nazione. E poi: io sono convinto che Hitler è riuscito a realizzare i suoi fantasmi, a creare con l'aiuto di un popolo un'intera società secondo la sua immaginazione. È stato il tedesco che ha concretizzato i sogni di grandezza e di unità di tutti i tedeschi. I tedeschi, milioni di tedeschi, hanno avallato molti suoi delitti. Ora vivono da anni con il complesso di colpa. (...) La soluzione più giusta, a mio avviso, è cercare di farli meditare sulle ragioni che allora li hanno indotti al consenso, tutti, non soltanto, come si dice spesso, i capitalisti, i militari, ma anche gli altri, i borghesi, gli operai, quelli che riempivano le strade di «Sieg Heil». Se meditano, se riflettono, si liberano da questo trauma profondo e arrivano alla catarsi: pronti per la democrazia e, soprattutto, per la sua difesa." ~ Hans Jürgen Syberberg
"Il cinema attuale è per me la forma del drammaturgia aristotelica ridottasi alla trivialità da boulevard, incapace da 50 anni di offrire innovazioni politiche, estetiche o spirituali. Una forma reazionaria della cultura in mano a commercianti e funzionari. Qualche piacevole eccezione c'è stata, ma non è stata rinnovatrice, e il cosiddetto cinema underground non ha avuto, nei suoi esercizi privati, alcuna rilevanza storica. Underground, appunto. Le grandi invenzioni del teatro moderno, con il suo interesse per le tradizioni della drammaturgia epica nel corso della storia, non hanno coinvolto nè trasformato il cinema. L'arte cinematografica degli ultimi 50 anni non ha saputo raccogliere le eredità spirituali delle tradizioni di Eschilo e Sofocle, dei misteri medievali e di Shakespeare, del teatro romantico tedesco, dello Sturm und Drang, delle rivoluzioni del periodo classico tedesco, e di Brecht, Omero, Dante e Bach. Non si è mai avvicinata alle forme dell'opera d'arte totale nel senso datogli da Wagner. È a questa tradizione che avremmo potuto e dovuto riallacciarci in Germania, all'esperienza del cinema espressionista, come già si era tentato nei saggi estetico-cinematografici degli anni '20 e '30. Questa linea del teatro antiaristotelico, che Brecht chiamava epico, si basa su una enorme ricchezza di elementi utili al cinema, quali la struttura a stazioni, vale a dire la suddivisione in capitoli, lo straniamento, il carattere dimostrativo, la «distanza», il flashback «atettonico», il superamento del l'illusione, la rinuncia al colore, la possibilità di un inizio e di un finale aperti, il narratore al posto dell'eroe, e così via. Questo sistema offrì, tuttavia, anche la possibilità di prendere sul serio l'origine della tragedia e di sfruttarla nella struttura musicale. Noi che facciamo cinema siamo gli eredi della civiltà occidentale. Non a caso si è detto che Wagner e Schiller, oggi, avrebbero fatto del cinema." ~ Hans Jurgen Syberberg
"Herzog riesce a sopravvivere, come alibi artistico e artista dell'alibi, in quanto fa ancora uso di un'estetica corrente. Wenders, che sembra avere inventato tutto lui, è amato da quando adora Hollywood, la grande puttana dello show business, e Fassbinder, come Baal, è amato e sfruttato allo stesso tempo, nonché, spesso e volentieri, citato come curiosità pittoresca. Ma si pensi a cosa saremmo noi, l'attuale generazione di registi, i rappresentanti del cinema tedesco d'autore, senza le più disparate forme dell'irrazionalismo. Benché si sia messa decisamente in luce a Oberhausen, dando voce a esigenze di impegno sociale e critico, questa generazione ha assunto connotati interessanti e internazionalmente validi solo in quanto gruppo a sè, accomunato e contraddistinto da una componente irrazionalistica; una componente per noi vitale (anche se i miei colleghi la ignorano o la rimuovono), ben visibile nella fiction delle loro storie e in quell'elemento surreale dove «non c'è spazio per il riso e per l'amore», come ebbe a scrivere Canby sul New York Times. Nessuno di loro è un razionalista: nè Kluge, nè Shroeter, nè Herzog, nè Wenders. Eppure quasi tutti continuano a guardare avidamente all'America, alla loro Mecca, senza rendersi conto che essa significherebbe la loro fine; è una generazione che perderà sempre il treno per Hollywood, una generazione, insomma, condizionata dalla storia tedesca e dal nostro carattere, una Movie Generation con la voglia dell'America, ma priva di concetti estetici, una generazione alla ricerca della sua identità, e caratterizzata da una casualità che è, allo stesso tempo, un bene prezioso ma anche pericoloso, così come lo sono le sue molteplici identità."~ Hans Jurgen Syberberg
"Secondo l'opinione tradizionale cinema significa raccontare una storia, con molta azione e poche parole. Perfino i film di Herzog o di Wenders sono più facili da capire perché rientrano in questa tradizione: si possono seguire con una certa facilità perché ci sono poche parole o addirittura nessuna e ci sono anche molte scene dove non accade quasi nulla, basta solo guardarle. Nei miei film il pubblico deve fare molto di più. Naturalmente ci sono molte persone che amano pensare, ma chi va al cinema è abituato a non fare nulla. Anche persone di alto livello culturale, quando vanno al cinema è come se andassero in rosticceria: vogliono qualcosa di rapido e non impegnativo. È difficile convincerli a fare di più, non ci sono abituati. D'altra parte i miei film non sono di tipo politico o underground: verso questi la gente è già disposta a fare qualcos'altro, qualcosa di speciale. Se ci fossero molti film di questo genere, ci sarebbe una corrente all'interno della quale mi sarebbe più facile a muovermi, ma sono un po' solo e non faccio abbastanza film per insegnare un nuovo modo di vederli. Alcuni si capiscono facilmente, ad esempio quello sul cuoco di Ludwig è molto semplice. Se si vuole, si può vedere sempre di più oltre la prima impressione, ma questa è facile da recepire. È vero che in genere alla gente non piace andare al cinema a vedere una persona che parla per 90 minuti di seguito. Una volta hanno mostrato il film alla televisione, ma ne hanno tagliato mezz'ora perché temevano che la gente si annoiasse: io credo di no, perché molti mi hanno scritto per chiedermi di poter vedere il resto." ~ Hans Jurgen Syberberg
Con Claude Laydu, Joan Riveyre, Nicole Maurey, Adrien Borel, Rachel Bérendt
consigliato da ANDREJ TARKOVSKIJ
"Bresson è un genio. Qui posso affermarlo chiaramente - è un genio. Se lui occupa il primo posto, il regista successivo occupa il decimo. E questa distanza è molto deprimente." ~ Andrej Tarkovskij
"Ci sono molte ragioni per cui considero Bresson un fenomeno unico nel mondo del cinema. Infatti Bresson è uno degli artisti che ha dimostrato che il cinema è una disciplina artistica allo stesso livello delle discipline classiche come la poesia, la letteratura, la pittura e la musica. La seconda ragione per cui ammiro Bresson è personale. È il significato che il suo lavoro ha per me - la visione del mondo che esprime. Visione del mondo espressa in maniera ascetica, quasi laconica, direi lapidaria. Sono molto pochi gli artisti che sono riusciti in questo. Tutti gli artisti seri si sforzano di ottenere la semplicità, ma solo pochi ci riescono. Bresson è uno dei pochi. La terza ragione è l'inesauribilità della forma artistica di Bresson. Nel senso che si è forzati a valutare la sua forma artistica come fosse vita, come fosse la natura stessa. In questo senso lo trovo molto vicino al concetto orientale di arte Zen: profondità all'interno di limiti rigidamente definiti. Lavorando con queste forme, Bresson nei suoi film non tenta di essere simbolico, tenta di creare una forma inesauribile quanto la natura, quanto la vita stessa. Chiaramente questo non sempre funziona. Infatti, ci sono episodi nei suoi film che sono estremamente simbolici, e perciò limitati - simbolici e non poetici." ~ Andrej Tarkovskij
"Gli attori di Bresson non sembreranno mai datati, non più di quanto sembreranno datati i suoi film. Non c'è niente di calcolato o speciale nelle loro performances, solo la profonda verità dell'umana consapevolezza all'interno della situazione definita dal regista. Loro non interpretano dei personaggi ma vivono le proprie vite intime davanti ai nostri occhi." ~ Andrej Tarkovskij
"...Per esempio, quando Bergman usa il suono in maniera naturalistica – rumore sordo di passi in un corridoio vuoto, un orologio che batte le ore, il fruscio di un abito – l'effetto è in realtà quello di allargare i suoni, di isolarli, di enfatizzarli... Lui isola un suono ed esclude tutte le circostanze accidentali del mondo sonoro che esisterebbero nella vita reale. In LUCI D'INVERNO c'è il rumore dell'acqua del ruscello sulla cui sponda è stato trovato il corpo del suicida. Lungo l'intera sequenza, sia nei campi lunghi che in quelli medi, non è possibile udire nulla ad eccezione del suono ininterrotto dell'acqua – niente rumore di passi, nessun fruscio d'abiti, nessuna delle parole che si scambiano le persone sulla riva. Quello è il modo in cui il suono è reso espressivo in questa sequenza, è così che lui lo usa." ~ Andrej Tarkovskij
"...Se ci volgiamo ora al lavoro di uno dei filmmakers a cui mi sento più vicino, Luis Bunuel, scopriamo che la forza portante dei suoi film è sempre l'anticonformismo. La sua protesta - furiosa, inflessibile e ruvida - è espressa soprattutto nel tessuto sensoriale dei suoi film, ed è emozionalmente contagiosa. La protesta non è calcolata, non cerebrale, non formulata intellettualmente. Bunuel ha troppo talento artistico per cadere vittima di un'ispirazione politica, che a mio modo di vedere è sempre spuria quando è espressa apertamente in un'opera d'arte. Anche se la protesta politica e sociale espressa nei suoi film, in ogni caso, sarebbe sufficiente per diversi registi di minore statura. Bunuel è portatore, prima di ogni altra cosa, di consapevolezza poetica. Lui sa che la struttura estetica non ha bisogno di manifesti, che il potere dell'arte non risiede in quelli ma nella persuasione emozionale. L'opera di Bunuel è profondamente radicata nella cultura classica spagnola. Non lo si può immaginare senza il suo ispirato legame con Cervantes e El Greco, Lorca e Picasso, Salvador Dalì e Arrabal. Il loro lavoro, pieno di passione, rabbia e tenerezza, intenso e provocatorio, è nato da un lato dal profondo amore per il paese, e dall'altro dal fremente odio per le strutture senza vita, per il brutale, imperturbabile svuotamento dei cervelli. Il loro campo visivo, ristretto dal disprezzo, percepisce solo ciò che è brulicante di umana simpatia, di scintilla divina, di ordinaria sofferenza umana - di quelle cose che per secoli sono filtrate nell'incandescente, roccioso suolo spagnolo."~ Andrej Tarkovskij
Con Stepan Shkurat, Semen Svasenko, Julija Solnceva, Elena Maksimova, Nikolaj Nademskij
In streaming su Takflix
consigliato da ANDREJ TARKOVSKIJ
"Amo enormemente Bresson. Ma chi amo di più e Dovzhenko. Ho l'impressione che se avesse vissuto più a lungo avrebbe potuto fare ancora molte cose interessanti. Amo molti registi, ma il loro posto cambia a seconda dei momenti: Dovzhenko, Bunuel, Kurosawa, Antonioni, Bergman, ecco tutto. E, beninteso, Vigo, perché è il padre del cinema francese contemporaneo." ~ Andrej Tarkovskij
"Se mi si deve paragonare a qualcuno, dovrebbe essere Dovzhenko. Lui è stato il primo regista per cui il problema dell'atmosfera sia stato particolarmente importante." ~ Andrej Tarkovskij
"Alla vigilia di ogni nuovo lavoro si dice che Tarkovsky riguardasse TERRA di Alexander Dovzhenko. Durante le riprese de LO SPECCHIO andò oltre, seminando un campo di grano saraceno in pre-produzione nel tentativo di ricreare sia le sue memorie d'infanzia della bianca pianta ondeggiante sia gli ipnotici panorami di Dovzhenko. Il risultato è una delle scene più celebrate del film, una perfetta amalgama di memoria e sogno: un dottore si alza dal terreno e una miracolosa folata di vento corre attraverso il campo verso la cinepresa." ~ (www.bfi.org.uk)
"Le sue qualità principali sono i personaggi moderni, i problemi moderni, è il metodo moderno di studiare la vita. È evidente. Kurosawa non si pone mai l'obiettivo di copiare la vita dei samurai di un certo periodo storico. Non si avverte alcun esotismo nel suo Medioevo. È un artista così profondo...mostra una tale comprensione psicologica, un tale sviluppo dei personaggi e delle vicende, una tale visione del mondo, che la sua narrazione del Medioevo ti riporta continuamente al giorno d'oggi. Hai l'impressione in qualche modo di conoscere già quel che vedi. È il principio dell'identificazione. Che secondo Aristotele è la più importante qualità dell'arte. Quando riconosci qualcosa di personale in un'opera, qualcosa di sacro, allora provi gioia." ~ Andrej Tarkovskij
"Tarkovskij commentò il film di James Cameron TERMINATOR (1984) dicendo che «la sua visione del futuro e della relazione tra l'uomo e il suo destino spostano le frontiere del cinema come arte.» Anche se rimase critico rispetto alla «brutalità del film e alle scarse capacità recitative».” ~ (bfi.org.uk)
CLASSIFICA DEI FILM PREFERITI da TARKOVSKIJ
1 - Diario di un curato di campagna (Bresson)
2 - Luci d'inverno (Bergman)
3 - Nazarín (Buñuel)
4 - Il posto delle fragole (Bergman)
5 - Luci della città (Chaplin)
6 - I racconti della luna pallida d'agosto (Mizoguchi)
7 - I Sette Samurai (Kurosawa)
8 - Persona (Bergman)
9 - Mouchette (Bresson)
10 - La donna di sabbia (Teshigahara)
ALTRI FILM AMATI da TARKOVSKIJ
- Terra (Dovzhenko)
- L'Atalante (Vigo)
- L'Avventura (Antonioni)
- C'era una volta un merlo canterino (Ioseliani)
- Terminator (Cameron)
Fonti: "Andrej Tarkovskij" ed. il Castoro cinema; "Scolpire il tempo" di A. Tarkovskij; www.openculture.com; www.bfi.org.uk; rateyourmusic.com;
"Quando parlo di poesia non la penso come un genere. La poesia è una consapevolezza del mondo, un modo particolare di relazionarsi alla realtà. Perciò la poesia diventa una filosofia che guida l'uomo attraverso la vita. Pensate al destino e al carattere di un artista come Alexander Grin, che quando stava morendo di fame andò su una montagna con arco e frecce fatti da lui per prendere della cacciagione. Mettete in relazione quell'incidente ai tempi in cui viveva - nel 1930 - e la correlazione vi rivelerà la tragica figura di un sognatore. O il destino di Van Gogh. Pensate a Mandelstam, pensate a Pasternak, Chaplin, Dovzhenko, Mizoguchi e vi renderete conto di quale tremendo potere emozionale portino queste figure eccelse che si librano sulla terra, dove l'artista appare non solo come un esploratore della vita, ma come qualcuno che crea grandi tesori spirituali e quella speciale bellezza che è argomento esclusivo dalla poesia. Un artista del genere può distinguere le linee del disegno poetico dell'essere. È capace di andare oltre i limiti della logica coerente, e di trasmettere la profonda complessità e la verità dei legami impalpabili e dei fenomeni nascosti della vita." ~ Andrej Tarkovskij
"Mi è difficile spiegarlo. Ho usato l'acqua perché è una sostanza molto viva, che cambia forma continuamente, che si muove. È un elemento molto cinematografico. E tramite essa ho cercato di esprimere l'idea del passare del tempo. Del movimento del tempo. L'acqua, i ruscelli, i fiumiciattoli, mi piacciono molto, è un'acqua che mi racconta molte cose. Il mare, invece, lo sento estraneo al mio mondo interiore perché è uno spazio troppo vasto per me. Non mi fa paura, è semplicemente una superficie troppo monotona. A me, per il mio carattere, sono più care le cose piccole, il microcosmo, piuttosto che il macrocosmo. Le enormi distese mi dicono meno di quelle limitate. Forse per questo amo molto l'atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura. Cercano di concentrarsi su uno spazio ristretto e di vedervi il riflesso dell'infinito." ~ Andrej Tarkovskij
"Non sono in grado di girare film per il grande pubblico, come fa per esempio Spielberg; mi terrorizzerebbe, anzi, scoprire di esserne capace. Considero il cinema un'arte e un'opera d'arte non può essere compresa da tutti... Mi è assolutamente incomprensibile il problema della cosiddetta «libertà» o «non libertà» dell'artista. L'artista non è mai libero, non vi è un'altra categoria di persone che sia meno libera degli artisti. Essi sono incatenati al proprio dono, alla propria predestinazione, che è quella di servire il proprio dono e, con ciò stesso, gli uomini... L'autore non può contare su una percezione univoca, coincidente con la sua, della propria opera. L'artista tenta soltanto di rappresentare la propria immagine del mondo affinché gli uomini guardino il mondo con i suoi occhi... Le vuote disquisizioni, invece, sulla comprensibilità o l'incomprensibilità di una certa opera per le cosiddette «grandi masse», per una mitica maggioranza, non servono ad altro che a confondere il quadro dei rapporti reciproci tra l'artista e il suo pubblico, ossia col suo tempo... L'artista non ha il diritto morale di abbassarsi a un certo livello medio esistente in astratto, in nome di una malintesa maggiore comprensibilità... Il materialista Marx affermava: «Se vuoi trovare diletto nell'arte devi essere una persona artisticamente colta». Quanto all'artista, egli non può proporsi lo scopo specifico di essere compreso, così come sarebbe assurdo immaginare che si ponesse lo scopo opposto, cioè di non essere compreso.” ~ Andrej Tarkovskij
Leonid Kozlov (critico): "Ricordo quel freddo e grigio giorno dell’aprile del 1972. Eravamo seduti davanti a una finestra aperta e parlavamo di varie cose quando la conversazione finì sul film C’ERA UNA VOLTA UN MERLO CANTERINO di Otar Iosseliani. Tarkovskij definì il film «molto buono». È a questo punto che gli chiesi di redigere la lista dei suoi film preferiti. Prese la mia richiesta molto seriamente e per alcuni minuti restò assorto nei suoi pensieri con la testa piegata su un pezzo di carta. Poi ha iniziato a scrivere una lista di registi, Buñuel, Mizoguchi, Bergman, Bresson, Kurosawa, Antonioni, Vigo. Dopo una breve pausa aggiunse anche Dreyer. Poi ha fatto una lista di film e li ha messi in ordine. La lista era pronta, ma all’improvviso e inaspettatamente, aggiunse un altro titolo, LUCI DELLA CITTÀ."
"Esistono due fondamentali categorie di registi cinematografici. Ad una appartengono quelli che cercano di imitare il mondo in cui vivono, all'altra coloro che cercano di creare il loro mondo. La seconda categoria contiene i poeti del cinema, Bresson, Dovzhenko, Mizoguchi, Bergman, Bunuel e Kurosawa, i nomi più importanti del cinema. I lavori di questi filmmakers sono difficili da distribuire: riflettono le loro intime aspirazioni, e questo va sempre contro il gusto del pubblico. Questo non significa che questi filmmakers non vogliono essere compresi dagli spettatori. Ma piuttosto significa che loro stessi cercano di captare e comprendere gli intimi sentimenti del pubblico." ~ Andrej Tarkovskij
"La vera immagine del cinema è fondata sulla distruzione del genere, sul conflitto con esso. E gli ideali che l'artista sembra cercare di esprimere ovviamente non si prestano ad essere confinati all'interno dei parametri di un genere. Qual è il genere di Bresson? Non ne ha uno. Bresson è Bresson. È un genere a sè. Antonioni, Fellini, Bergman, Kurosawa, Dovzhenko, Vigo, Mizoguchi, Bunuel - ognuno si identifica con sè stesso. Lo stesso concetto di genere è freddo come una tomba. E Chaplin...è commedia? No: Chaplin è Chaplin, puro e semplice; un fenomeno unico, irripetibile. È una genuina iperbole; ma prima di tutto lui ci sbalordisce in ogni momento della sua esistenza filmica con la sincerità del comportamento del suo eroe. Nelle situazioni più assurde Chaplin è completamente naturale; ed è per questo che è divertente. Il suo eroe sembra non far caso al mondo in cui vive, nè alla sua assurda logica." ~ Andrej Tarkovskij
INTERVISTATORE: "Come si rapporta alla storia del cinema ungherese? Sente di provenire da qualche tipo di tradizione?"
BELA TARR: "Forse Miklos Jancso. Da giovane vidi alcuni dei suoi primi film e allora mi piacquero molto. Ma penso che quello che fa lui sia assolutamente diverso da quel che facciamo noi. Ma è vero, ci piacciono molto i suoi film e lui è una persona piacevole. Ma non credo ci sia un legame diretto tra i nostri film."
Con Anatolij Solonicyn, Ivan Lapikov, Nikolaj Grinko, Nikolay Sergeev, Irina Tarkovskaya
In streaming su CG Collection Amazon channel
consigliato da BELA TARR
INTERVISTATORE: "Lei è stato descritto come «un cinico mistico». È d'accordo con questa definizione?"
TARR: "Stronzate, non mi corrisponde. Non sono cinico e decisamente non sono un mistico."
INTERVISTATORE: "Una delle sue ispirazioni è stato Andrej Rublev di Tarkovsky..."
TARR: "Mi piace ANDREJ RUBLEV, ma Tarkovsky era un tipo religioso e io non lo sono."
INTERVISTATORE: "È un regista secolare?"
TARR: "Sono un semplice ateo. Non credo in Dio. È semplice."
INTERVISTATORE: "Ha menzionato Breughel come un'influenza."
TARR: "Ci piace molto. Abbiamo visto quasi tutti i suoi dipinti. Quando ne abbiamo la possibilità andiamo sempre a vederli."
INTERVISTATORE: "E ci sono altri pittori che credete vi abbiano influenzato?"
TARR: "Pittori? No. Breughel è una grande influenza e anche alcuni dei primi lavori di Bosch sono stati un'influenza piuttosto grande. Ma ammiriamo molto anche alcuni artisti regionali, anche se non sono molto bravo con i nomi."
INTERVISTATORE: "Tarkovsky cita spesso Breughel. Ne LO SPECCHIO ricrea uno dei suoi dipinti. Da lui crede di essere stato influenzato?"
TARR: "Non c'è un collegamento diretto. Alcuni film di Tarkovsky mi piacciono molto. Ma non tutti. Non mi piacciono quelli che ha fatto fuori dalla Russia. Per noi RUBLEV è il migliore. Uno dei migliori. Insieme a STALKER."
Con Eva Kotamanidou, Vangelis Kazan, Aliki Georgouli
consigliato da BELA TARR
INTERVISTATORE: "Cosa ne pensa di Angelopoulos, a cui lei è stato spesso accostato dai critici?"
TARR: "È strano. Abbiamo visto il nostro primo film di Angelopoulos circa cinque anni fa [l'intervista è del 2000]. Non so perché. Semplicemente ci siamo fatti sfuggire l'opportunità di vederli. Sapevamo della loro esistenza e conoscevamo il suo nome ma non avevamo visto niente!"
INTERVISTATORE: "Quello che lei dice dei suoi metodi di lavoro mi ricorda quel che ho letto di come lavora lui."
TARR: "Non ho idea di come lavori. Abbiamo visto solo due o tre dei suoi film. E mi piace molto quel film su quel gruppo teatrale. LA RECITA. Mi piace molto perché c'è questo movimento di camera molto semplice da là a là (gesticola) sempre di novanta gradi. Penso sia un film molto bello. Ma abbiamo visto solo un paio dei suoi film. Non credo che abbiamo il diritto di parlare di lui."
(Sul perché parla al plurale discutendo del suo lavoro) "Devi sapere che Bela Tarr è un marchio, non si tratta solo di me. Prima di tutto, è costituito da Ágnes Hranitzky, László Krasznahorkai, Mihály Vig e da me. Queste 4 persone hanno lavorato insieme per trent'anni a fare quel che abbiamo fatto. Ecco perché preferisco rispondere al plurale. Non ho mai detto che uno di quei film è mio perché non è vero. (...) Ogni volta la decisione finale spettava a me, ma loro hanno sensibilità molto forti e in qualche modo, quando parlavamo della vita, di varie situazioni o di qualsiasi cosa, avevamo lo stesso punto di vista. Certo, Mihály è un musicista e Lázló è uno scrittore. Ma anche se usiamo linguaggi differenti, in qualche modo riflettiamo insieme sulla vita, non su un film." ~ Béla Tarr
INTERVISTATORE: "Ho letto che Cassavetes ha avuto molta influenza sui suoi primi film."
TARR: "Sì, non c'era un collegamento diretto ma mi piace molto. (...) Sai, quando ho fatto il mio primo film, quello che si vedeva al cinema era merda, roba piena di menzogne. E per questo abbiamo deciso «Ok, filmeremo in 16mm, in bianco e nero e con attori non-professionisti, gente vera, veri proletari, senza dialoghi, solo un po' d'improvvisazione. Saremmo andati avanti e avremmo mostrato cosa succede nelle strade.» Dopodiché ho visto alcuni film di Cassavetes ed è stato magnifico. Sì, mi piace molto quello che ha fatto. Ma non ho mai pensato ai suoi lavori mentre facevamo i nostri passi successivi. Però penso che per noi sia stato uno dei più importanti filmmakers americani..."
INTERVISTATORE: "Le fa piacere quando i critici descrivono il suo lavoro come metafisico?"
TARR: "No, no, no. Non penso mai a cose teoriche quando lavoriamo."
INTERVISTATORE: "Ma nei suoi film ci sono temi cosmici, e le si attribuisce una frase in cui dice che «cerca di guardare le cose da una dimensione cosmica»"
TARR: "Sa come succede, quando abbiamo iniziato avevamo una grande responsabilità sociale, che credo esista ancora. E allora pensavo «Ok, abbiamo alcuni problemi sociali in questo sistema politico – forse ci occuperemo solo della questione sociale.» E dopo, quando abbiamo fatto un secondo film e un terzo sapevamo bene che non ci sono solo i problemi sociali. Abbiamo anche alcuni problemi ontologici e ora credo che un bell'ammasso di merda sia in arrivo dal cosmo. E poi c'è la ragione. Nel senso che ci apriamo passo dopo passo, film dopo film. È molto difficile parlare di cose come la metafisica. No. Si tratta sempre solo di ascoltare la vita. E noi riflettiamo su quel che ci succede attorno."
INTERVISTATORE: "Cosa crede che sia questa merda che viene dal cosmo?"
TARR: "Penso solo alla qualità della vita umana e quando dico merda credo di andarci molto vicino."
INTERVISTATORE: "Il suo lavoro è caratterizzato da un ritmo molto lento..."
TARR: "Negli ultimi vent'anni, quel che ho fatto è stato solo distruggere le storie e cercare di coinvolgere altri elementi come il tempo, perché le nostre vite si svolgono nel tempo, e come lo spazio, gli elementi naturali – pioggia, vento – gli animali – cani randagi, gatti, cavalli – e un mucchio di cose che fanno parte delle nostre vite. E quando vado al cinema a vedere dei film, quello che vedo sono cose molto semplici. Seguono il filo della trama – informazione / taglio / informazione / taglio /informazione, o azione / taglio /azione / taglio / azione. Ma cos'è che chiamiamo informazione? Cosa chiamiamo azione? Forse morire è ugualmente un'informazione. Forse un pezzo di muro, o quando semplicemente guardi il panorama e fuori piove, sono cose che fanno ugualmente parte del tempo – come fan parte delle nostre vite e tu non puoi separarle. E quando diamo solo informazioni, che non fanno altro che collegare azioni umane, facciamo un errore. Volevo guardare alle cose e dire «anche questa è un'informazione», e se c'è qualcuno che ascolta anche quella è un'informazione. E se guardo gli occhi di qualcuno, anche quella è un'informazione, e non tutto deve collegarsi all'intreccio originario perché, in ogni caso, le storie ormai non sono più interessanti. Se leggi l'Antico Testamento, c'è già tutto: com'è iniziato, Caino e Abele, e poi qualcuno si scopa la loro madre, e poi c'è l'olocausto e gli omicidi di massa, c'è tutto. Non si possono creare storie nuove, non è il nostro lavoro creare storie nuove. Il nostro lavoro è molto semplice, cercare di capire come realizzare la solita vecchia storia; perché stiamo ripetendo sempre la stessa vecchia storia ma ovviamente ognuno è diverso ed ognuno ha un certo potere di influenzare la propria vita, e questo può essere interessante – perché le differenze sono sempre interessanti."
[Sul perché ha smesso di fare film] "Fare il filmmaker è un bel lavoro borghese. Ma in realtà io non voglio farlo. Non sono un vero filmmaker. Sono sempre stato in quest'ambiente per la gente e volevo solo dire qualcosa delle loro vite. Durante questi 34 anni di regia, ho detto tutto quello che voglio dire. Posso ripeterlo, posso fare un centinaio di cose, ma ci tengo a non annoiarvi. Non voglio assolutamente copiare i miei film. Tutto qua." ~ Béla Tarr
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