Primo anno che seguo le nuove uscite cinematografiche in maniera più o meno “seria”, di conseguenza primo anno che pubblico una classifica più o meno “seria” (per quanto possa esserlo una classifica). Non essendo un frequentatore di festival ho deciso di includere solo film usciti in sala in Italia nel 2016 (escludendo però titoli che pur essendo usciti da noi solo quest’anno risalivano a più di un anno fa - come il gelido ‘1981 Indagine a New York’ di J. C. Chandor o come quel sottilissimo thriller gay che era “Tom à la ferme” di Xavier Dolan, entrambi usciti all’estero per la prima volta nel 2014). Qualche visione è saltata (i documentari di Herzog e Dominik, gli italiani “La pazza gioia”, “Veloce come il vento” o “Fiore”, il giallo dei Dardenne, l’argentino “Il clan”, l’ultimo film dello stesso Dolan e soprattutto il chiaccheratissimo “Paterson”), ma pazienza. Per i primi dieci ho anche inserito una breve descrizione; gli altri invece sono film bellissimi, belli o semplicemente meritevoli di visione che non sono entrati in top ten.
A metà tra un numero di Vanity Fair (per cui Refn ha davvero realizzato un servizio!) e Suspiria di Dario Argento, il regista danese realizza un'opera perturbante nelle immagini e nei suoni che può anche essere letta come una metafora del suo arrivo ad Hollywood. Non un horror, non un thriller, ma un vero e proprio oggetto a sè nel panorama cinematografico attuale, cerebrale eppure al tempo stesso incredibilmente sentito. Può respingere, ma non chiamatelo cinema vuoto.
Come sempre nei film di Larrain, il racconto di una singola vita diventa il pretesto per parlare di un qualcosa di più grande, sempre legato alla sua terra, il Cile. Qui il grande Pablo decide di raccontare uno degli uomini più illustri della storia del suo Paese, Neruda e lo fa ponendo l'accento più sul suo vissuto politico che sulla sua arte poetica. Il colpo di genio però è contrapporlo all'ispettore che gli dà la caccia, Peluchonneau: un uomo con molto meno fascino e che acquisterà valore solo grazie alla sua ossessione per lo scrittore comunista. Il montaggio alternato tra le scene di fuga di Neruda e quelle di caccia di Peluchonneau rende il film un vero e proprio thriller dell'anima. Gli ultimi trenta minuti sulla neve toccano sublimi livelli di visionaria poesia.
Probabilmente il film meno capito di Tarantino dai tempi di "Jackie Brown", l'ultima pellicola (è proprio il caso di dirlo) del regista di Knoxville è in realtà un western molto più riuscito di "Django Unchained", di sicuro molto più studiato e calibrato. Tarantino mostra di aver pienamente appreso la lezione sulla suspense di hitchcockiana memoria, realizzando un thriller da 'camera' in cui i dialoghi sono il mezzo inevitabile per realizzare un riuscitissimo climax e dove il genere e la riflessione sul tema del razzismo si fondono senza mai prevalere l'uno sull'altro.
Altro melodramma, altro grande film. "I miei giorni più belli" si dipana in due momenti: il passato e il presente di Paul Dedalus, interpretato magistralmente da Mathieu Amalric. Dedalus è un antropologo che viene fermato al rientro nel suo Paese dopo anni passati in Tagikistan dai servizi segreti francesi che sostengono l'esistenza di un altro Paul Dedalus: l'interrogatorio diverrà l'occasione per il protagonista di ripercorrere la sua giovinezza, una sua netta scelta etico-politica e soprattutto l'amore mai del tutto sopito per Esther. Con la sapienza narrativa tipica dei grandi maestri francesi, Desplechin mostra come non chiudere definitivamente una questione possa poi a portare a ritrovarsela davanti in futuro, magari in una versione anche più problematica.
Secondo melò a sfondo omosessuale per Todd Haynes, secondo centro. Il film forse non è bello come quel capolavoro che era "Lontano dal paradiso", ma la grazia, la delicatezza e la classe con cui il regista racconta questa storia d'amore e di classi sociali sono rimaste immutate. Bravissime le due interpreti Cate Blanchett e Rooney Mara, caldissima e davvero avvolgente la fotografia di Edward Lachman. Un film prezioso anche perchè di melodrammi del genere che rimandano al glorioso Douglas Sirk si è persa quasi totalmente la traccia nel fracassone cinema di oggi.
La Disney, che sia nella sua veste più tradizionale o in quella più sperimentale della Pixar, riesce sempre a tirar fuori qualcosa di interessante ogni anno. Questo "Zootropolis" in particolare crea un micro-cosmo popolato da animali che svolgono a tutti gli effetti i lavori degli esseri umani, e organizzato anch'esso in metropoli all'avanguardia e campagne un po' arretrate. La storia che coinvolge i protagonisti Judy (una coniglietta aspirante poliziotta) e Nick (una volpe truffatrice) ha il sapore del vero mistero, quasi fosse un film giallo per adulti: ma il ritmo irresistibile, i colori come sempre stupefacenti e la solita trattazione dei valori morali targata Disney ne fanno un film adattissimo anche ai bambini. Particolarmente intelligenti i riferimenti alle tecnologie del nuovo millennio (il logo della Apple che diventa una carota è semplice ma geniale), è da ricordare soprattutto la scena dei bradipi, già candidata ad entrare nell'empireo dei momenti più belli della storia dell'animazione disneyiana.
Ambientato nel New England del '600, l'horror di Eggers sorprende per la sua capacità di essere scarno ed essenziale, per il suo ritmo posato, per la regia da manuale. Ma soprattutto lascia basiti perchè va alle radici della paura, la paura dei timorati di Dio. La paura di aver peccato, di non aver adempiuto ai propri doveri di credenti. Su questo l'esordiente regista americano costruisce la storia di una famiglia piena di invidie e personaggi scaricabarili, il luogo ideale dove il Male possa andare a sedimentarsi per crescere e dare vita ai propri seguaci. Il sabba finale è da brividi.
Il film dei Coen è probabilmente uno dei più bistrattati dell'anno, soprattutto se si tiene conto della levatura dei registi in questione. In realtà il diciassettesimo lavoro dei fratellini di Minneapolis può essere considerato un piccolo sunto del loro cinema, un'opera in cui riversano con la loro solita ironia tutte le loro ossessioni: le religioni, la contrapposizione (soprattutto ideologica) tra America e Russia e il Cinema. Sarebbe dunque riduttivo considerare "Ave, Cesare!" un mero divertissement con nel mezzo solo un elogio alla Settima Arte. Sin dagli esordi infatti i Coen dietro la patina di un cinema quasi sempre "per le masse" hanno sempre celato delle importanti riflessioni sul mondo circostante. Lo hanno fatto anche nei film meno riusciti, e lo hanno fatto anche qui, con un ritmo sorprendente e con dei personaggi tutti ben delineati. Ampiamente promosso.
Il regista taiwanese, specializzato in delicati affreschi umani che raccontano nel loro piccolo la Storia, torna alla regia dopo anni toccando per la prima volta il wuxia, il cinema d'azione cinese. Ma lo fa a suo modo: con un sapiente uso della macchina da presa e della fotografia (i paesaggi dove si svolge il racconto sono mozzafiato, e Hou li riprende come pochi) narra una storia ambientata nel IX secolo di intrighi e problemi familiari dove il silenzio o il non-detto sono fonte immensa di dolore e sofferenza. Un film d'altri tempi che solo un maestro come Hou Hsiao-Hsien poteva realizzare.
In un universo cinematografico pieno zeppo di classici biopic che raccontano pedissequamente gli eventi cardine delle vite di personaggi emblematici, il film di Boyle (e Sorkin, autore dell'incalzante sceneggiatura) si distingue per la radicalità mostrata nella scelta degli eventi da narrare, ovvero i momenti subito prima di tre presentazioni, ognuna a distanza di diversi anni - 1984, 1988, 1998 - in cui Jobs riceve le visite sempre dei soliti personaggi: la sua segretaria (una meravigliosa Kate Winslet), l'ingegnere che lavora per lui, il suo ex-socio, il CEO della Apple, ma soprattutto quella che ritiene di essere la madre di sua figlia Lisa, assieme a Lisa stessa. I dialoghi con questi soggetti permettono a Boyle di dare una visione ampia del Jobs persona e del Jobs genio senza affrontare passo dopo passo la sua vita. Una scelta non banale che rende "Steve Jobs" un film molto riuscito, adatto al pubblico mainstream ma pieno zeppo di intuizioni teoriche che lo rendono un vero esempio di come andrebbe realizzato un buon biopic.
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