Nella leva attoriale della generazione nata poco prima della seconda guerra mondiale – quella, per intenderci, che ha il capofila ideale nel personaggio di James Dean in Gioventù bruciata (che in originale era, è il caso di ricordarlo per capirci, Rebel without a cause) – la figura di Warren Beatty è probabilmente la più complessa e per certi versi perfino meno studiata. Fuori dal territorio americano, non è mai davvero entrato nel cosiddetto immaginario collettivo se non per la marea di donne che si è portato a letto (qualcuno ha calcolato tredicimila conquiste; la sorella Shirley MacLaine disse che è stato solo il legame familiare ad evitare il flirt). Come attore, la sua fama è stata superata dal sempreverde compagno di merende Jack Nicholson e dal costante common man Dustin Hoffman; nel doppio ruolo di regista, Robert Redford ha trovato un maggiore equilibrio che gli ha permesso una certa prolificità, così come Clint Eastwood, sorta di contraltare anche politico.
A setacciarne la carriera, ci si accorge che, in fondo, Beatty ha partecipato a pochi film: in quasi sessant’anni di lavoro (l’esordio televisivo risale al 1957), il suo nome è comparso venticinque volte sui titoli di testa, quattro delle quali anche nelle vesti di regista, sei come sceneggiatore e undici come produttore. Personaggio assai interessante, da valutare al di là della sua immagine pubblica e per i suoi risultati professionali, dopo un silenzio cinematografico di quindici anni, sta per riaffacciarsi sui nostri schermi con L’eccezione alla regola, in cui interpreta Howard Hughes. Questa decina di film intende tracciare un profilo di un uomo di cinema totale che ha seminato più di quanto si creda.
Al suo esordio sul grande schermo, Beatty interpreta il rampollo di un petroliere che s’innamora, ricambiato, della più umile quanto stupenda Natalie Wood. La lotta di classe non è nemmeno presa in considerazione e gli ultimi (inconsapevoli) fuochi dei padroni si scontrano con l’educazione puritana della povera gente sullo sfondo di un’America profonda, un momento prima della crisi del ‘29. Servendosi di una seducente ma significante confezione (la calda fotografia di Boris Kaufman), Kazan condensa tutto il dolore di cui è capace la gioventù in questo straordinario, feroce, furente melodramma sulla repressione e sulla colpa: il dissesto finanziario e l’esaurimento nervoso sono le pene da pagare per aver ambito al desiderio (il sesso). Beatty romantico.
Con Vivien Leigh, Warren Beatty, Coral Browne, Lotte Lenya
Nello stesso anno in cui si struggeva d’amore per la Wood, Beatty diventa un gigolò italiano (!) d’alto bordo che la contessa magnaccia Lotte Lenya procura alla neovedova americana Vivien Leigh, attrice sfiorita. Innamoratasi dell’aitante opportunista, la malinconica signora si fa usare, cosciente del declino e della fine forse imminente («possibile che tu debba amarmi solo facendomi soffrire?»). Dolce vita per turisti di lusso nella patinata cornice della capitale decadente e modaiola, l’Italia vista da un attico su Piazza di Spagna è un crocevia di corruzione, dissoluzione, mestizie. Se Vivien procede contromano a bordo del tram chiamato desiderio sul viale del tramonto, Beatty, fulgido e fiero nell’arroganza della sua splendente giovinezza, è un perturbante oggetto del desiderio. Beatty (s)oggetto.
Dopo alcuni ruoli d’infimo interesse, il trentenne Beatty trova il proprio posto nel mondo. All’alba della New Hollywood, questa parabola criminale è un’impossibile storia d’amore tra due ragazzi giovani e bellissimi, due dei negativi cresciuti troppo in fretta a causa della grande depressione (laddove finisce Splendore nell’erba), inesperti alla vita e per questo dirompenti nelle scelte e nei modi di agire: ma come Bonnie segue Clyde perché attratta fisicamente da lui, così Clyde ha più di un problema nel rapportarsi con lei (educazione sessuale). Sì, ci sono il sangue, la violenza, le crivellate di proiettili, i morti per le strade: ma c’è essenzialmente un disperato, inappagato, impraticabile bisogno di normalità, il desiderio di essere come tutti e allo stesso tempo di essere come nessuno prima. Una mitologia del male in cui Beatty e Dunaway costruiscono un nuovo divismo. Beatty criminale.
Robert Altman e un’altra mitologia da destrutturare: il ripensamento nostalgico del western, la cerimonia funebre di un genere, un mondo, che ha svelato la propria natura di finzione. Al sole caldo cede il passo l’inverno innevato, alla frontiera il capitale, all’eroe il fanfarone. Che è proprio Beatty, un millantatore senza gloria che crede alle menzogne da lui stesso raccontate, che s’innamora inevitabilmente di Julie Christie, meravigliosa puttana stoicamente votata al mestiere: è una storia d’amore straziante («tu mi geli lo spirito» è una dichiarazione da infarto) puntellata dalle struggenti canzoni di Leonard Cohen, pitturata dalla magnifica fotografia di Vilmos Zsigmond (le candele e i fuochi degli interni), eternata da un finale indimenticabile. Beatty crepuscolare.
Ma Beatty è anche un corpo comico (Due uomini e una dote), sa di dover raccogliere l’eredità romantica della commedia sofisticata (come la meteora Ryan O’Neil in tandem con sua eminenza Peter Bogdanovich), è cosciente delle potenzialità di un genere che può concedersi il privilegio di essere crudele e divertente, critico e leggero, polemico e brillante. Con il dimenticato Hal Ashby alla regia, il divo scrive e produce la storia di un parrucchiere di grido che, sullo sfondo della campagna presidenziale del ’68, cerca fondi per aprire un nuovo salone mentre va a letto con qualunque donna del cast. Grande scandalo per una fellatio sotto al tavolo ma ad oggi è il datato prodotto di un’epoca cinica e malinconica, votata al dio denaro e all’angosciante paranoia nixoniana. Beatty carnale.
Se la commedia Shampoo s’abbandonava al melodramma della solitudine molto seventies, qui, nonostante il tema della morte, il tocco è quello dei maestri del cinema classico. Remake de L’inafferrabile Jordan ma ammiccante al titolo di uno dei capolavori di Ernst Lubitsch, è un’ottima operazione anzitutto produttiva: lo spettatore cinefilo gioca a riconoscere allusioni, evocazioni, richiami; quello senza pretese si fa coccolare da una gustosa favola rosa sul tema della seconda possibilità. Per Beatty (in un ruolo pensato addirittura per Muhammad Alì), che, all’esordio registico in coppia con Buck Henry, l’ha scritto con la strepitosa Elaine May, questo film elegante, leggero, morbido è la definitiva consacrazione divisitica. Cary Grant avrebbe dovuto interpretare Dio. Beatty angelico.
Quattro anni dopo il trionfo commerciale, Beatty individua in John Reed, il giornalista americano che seguì la Rivoluzione d’Ottobre, il personaggio ideale per raccontare una storia, a lui molto congeniale, che contamini la dimensione pubblica (il socialismo) con quella privata (il tormentato love affair). Nascita della sinistra americana sospesa tra prime avvisaglie radical chic (la rivoluzione come ciarla esotica da salotto) e nostalgica passione civile (gli intellettuali in galera per ostilità ideologiche), reinventa il genere inserendo inaspettate ed asciutte testimonianze delle persone protagoniste delle vicende narrate. Apparentemente sulla scia dei kolossal di David Lean, è un denso, curato, coinvolgente melodramma epico e al contempo intimo, un filmone di massa e di masse. Beatty compagno.
Per ringraziare l’amica Elaine May che gli diede più di una mano per Reds (peraltro senza farsi accreditare), Beatty cercò un progetto per farsi dirigere da lei e lo trovò con un revival comico-spionistico dei film esotici con Bob Hope e Bing Crosby. Forte dell’ideuzza che Dustin Hoffman sia lo sciupafemmine anziché Beatty, girato in condizioni assurde, in un arido Marocco in cui la May (nota per aver fatto lievitare i budget dei suoi primi film) creava problemi a tutta la troupe (compreso Vittorio Storaro), non appoggiato dalla produzione che l’abbandonò volontariamente al destino sfortunato, è uno dei più clamorosi disastri del cinema americano, il primo vero flop di Beatty. Gli screzi sul set e in moviola decretarono la fine della lunga amicizia tra il divo e la regista: il primo tornò a lavorare tre anni dopo, la seconda non ha più diretto film da allora. Beatty mazziato.
Con Warren Beatty, Al Pacino, Madonna, Dustin Hoffman, Seymour Cassel, Glenne Headly
Nello stesso periodo in cui l’amico Jack Nicholson dava vita al geniale Joker nella versione di Batman by Tim Burton, Beatty va in scena nell’impermeabile giallo dell’investigatore. È un passaggio molto significativo: tornando al fumetto, questo cinema capisce di poter lavorare sull’apparato visivo di un mondo che non sa più lavorare sulla fantasia in una prospettiva che non sia infantile. Quello di Beatty non è solo uno dei primi e seminali cinecomics che si rivolge ad un pubblico adulto (c’è anche una componente sessuale), ma anche una celebrazione del genio tecnico di Storaro (una tavolozza di sette colori), dello sfolgorante décor debitore alla cultura espressionista, all’art déco e alla pubblicità, alla deformazione visiva degli attori. Un film-fumetto, un cartone dal vivo. Beatty creativo.
Qualcuno lo sognava Presidente degli Stati Uniti e in effetti Beatty è stato uno dei divi più organici al Partito democratico. Dopo aver impersonato il brillante gangster Bugsy, mentre l’ex amica May scriveva l’acidissima parafrasi del clintonismo I colori della vittoria, Beatty realizza il suo film forse più autobiografico e meno solido. Senatore un po’ in declino, che viene spesso scambiato per George Hamilton, accetta di farsi uccidere per permettere alla figlia d’intascare l’assicurazione (spunto noir), ma coglie la possibilità di poter finalmente dire ciò che vuole e diventa subito popolarissimo (diventa un rapper). Purtroppo c’è un eccesso di rabbia qualunquista nel raccontare un mondo corrotto ed ipocrita e il film non sa essere né una cupa metafora né un polemico apologo. Beatty disperato.
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