Forse è soltanto una questione di ricezione, vediamo i vecchi film col senno di poi e ci piace leggere qualcosa che era solo in potenza oppure nemmeno considerato nel mentre in cui furono realizzati. Non tutti gli ultimi film sono film-testamento: a volte la morte è stato un accidente subito all’improvviso oppure un lontano fantasma di cui si ha la consapevolezza. Eppure è evidente: ci sono film che vivono della loro coscienza della fine.
[avvertenza: Pasolini (Salò), Bunuel (Quell’oscuro oggetto del desiderio), Cukor (Ricche e famose), Fassbinder (Querelle de Brest), Tarkovskji (Sacrificio), Huston (The Dead), Fellini (La voce della luna), Kurosawa (Madadayo), Kubrick (Eyes Wide Shut), Bergman (Sarabanda), Altman (Radio America) sono scelte logiche ed obbligate ma ne ho operate di altre in una prospettiva più personale; se volete, aggiungeteli e parlatene in libertà)]
Con Michel Constantin, Jean Kennedy, Philippe Leroy, Raymond Meunier
JACQUES BECKER – L’idea stessa di libertà: un film pazzesco, di millimetrica precisione, percorso da una tensione incombente, tecnicamente privo di sbavature, sanamente voyeuristico in un senso quasi neorealistico (attori nati per essere in questo film o giovani promesse dalle facce nuove e vere). Regista dell’attimo che vale una vita (l’incontro fatale dei due innamorati in Casco d’oro, gli sguardi complici e non bisognosi di parole tra Edoardo e Carolina e i due amici in Grisbi), Becker sta addosso ai corpi, sia in quanto individualità che come gruppo, chiusi in uno spazio ostile con il pessimismo di chi non sa più credere alla solidarietà, alla comprensione, alla compassione. Eppure quello stesso spazio limitato diventa un’occasione registica per sviluppare le inesauribili possibilità in verticalità ed orizzontalità di un luogo che contiene un tempo ora rapido ora immobile (le clessidre per misurare i tempi dell’evasione, gli orari fissi della galera). Un film estremo, altissimo, straziante.
[Becker è morto nello stesso anno dell’uscita del film.]
Con Glenn Ford, Bette Davis, Ann-Margret, Peter Falk, Hope Lange, Arthur O'Connell
FRANK CAPRA – Il cinema classico è di lì per finire, la commedia può essere solo riproposta. Con più sfarzo, più soldi, più minuti, più colori ma comunque il gioco è già finito: Signora per un giorno funzionava a meraviglia, perché non rifarlo? La glaciale diva dei giorni perduti, Bette Davis, negli anni in cui metteva annunci sui giornali per trovare qualche parte all’altezza (e nello stesso anno del capitale Che fine ha fatto Baby Jane), è ora l’addomesticata interprete di un testo collaudato, attraversato dal gigionismo d’alta classe di un Glenn Ford vagamente in disarmo. Lo sontuosità della vecchia Hollywood trasmette il coefficiente di nostalgia necessario per intrattenere il pubblico con la deferenza del vecchio regista popolare. E allo stesso tempo l’impeccabile confezione, la leggerezza del tocco, l’eleganza dei movimenti, i buoni sentimenti, l’ordine ristabilito nel finale riconciliatorio rivelano la decadenza di uno squisito cinema fuori tempo massimo. E forse il pubblico a cui si rivolge il nuovo allestimento non ne sentiva l’impellente bisogno.
[Capra è morto trent’anni dopo l’uscita del film.]
CHARLES C. CHAPLIN – La ricezione del film ha sempre scontato lo status di “ultimo film” di un genio: come approcciarsi all’opera “normale” dell’autore forse più importante di tutti i tempi? È davvero lo stesso regista non dico di Luci della città ma almeno del precedente Un re a New York? Cos’è questa commedia romantica con due protagonisti stonati e mal assortiti (Loren pimpante e voluttuosa, Brando disinteressato e goffo), ambientata in uno scenario demodé ed elitaria (una nave che viaggia dall’Oriente agli States), con i crismi del fotoromanzo un po’ esotico? Chaplin, anziano ma non sprovveduto, è perfettamente cosciente di cosa la sua cinepresa danzante sta catturando: è il crepuscolo di un mondo perduto in cui le parole sono degli accidenti di cui si farebbe volentieri a meno, è il cinema classico che sta scomparendo per cause fisiologiche e industriali, è l’ultimo film possibile di un signore cosciente del tramonto di un’epoca. E naturalmente fu flop.
[Chaplin è morto dieci anni dopo l’uscita del film.]
Con Elizabeth Taylor, Warren Beatty, Charles Braswell, Hank Henry
GEORGE STEVENS – Il cinema classico è finito, i tempi sono cambiati, la giovinezza al potere. Lei è Elizabeth Taylor, dimostra più dei suoi trentotto anni non tanto per gli infiniti occhi d’innocenza alcolica ma per tutto il cinema che si porta addosso. Lui è Warren Beatty, più giovane, il più complesso tra i divi della nuova ondata, bello e impegnato, versatile ammiratore del cinema che fu. Dietro la macchina da presa, colui che dopo aver scoperto l’orrore dei lager nazisti ha annullato la commedia in un cinema votato al melodramma. Il più attento a mettere in scena il processo dell’innamoramento, Stevens racconta la storia di due disperati che cercano di capitalizzare le loro solitudini in qualcosa di travolgente. Un flop commerciale che chiuse la carriera del grande regista e non aiutò quella della diva con cui aveva condiviso i grandiosi Un posto al sole e Il gigante.
[Stevens è morto sei anni dopo l’uscita del film.]
Con Jacques Perrin, Vittorio Gassman, Philippe Noiret, Francisco Rabal
VALERIO ZURLINI – No, forse Zurlini non immaginava che sarebbe stato il suo ultimo lavoro. Tra i più sottovalutati registi nazionali, facilmente etichettabile con aggettivi quali raffinato e decadente, Zurlini, anche in virtù del buon esito del Deserto dei Tartari, sperava di realizzare qualche altro film (famosi i suoi vani tentativi di trasporre Lo scialo di Pratolini). Ciò che già affiorava nel capodopera La prima notte di quiete (ma anche l’amore impossibile di Estate violenta e il requiem di Cronaca familiare) trionfa qui in una prospettiva meno melodrammatica e più rarefatta: l’attesa dell’arrivo dei mitologici Tartari è un tempo che non esiste, è la morte che seduce Drogo conquistandolo infine, quando il motivo di cotanta attesa sta per presentarsi al cospetto di chi vi ha vissuto in funzione. Nella sua dimensione così poco italiana, è uno dei tre congedi di quell’anno, tutti a loro modo tesi al tema della morte: la perversa allegoria politica e funerea del Salò di Pasolini (congedo non previsto) e l’apologo dannunziano sul superuomo suicida de L’innocente di Visconti (congedo consapevole).
[Zurlini è morto cinque anni dopo l’uscita del film.]
Con Ingrid Bergman, Liza Minnelli, Spiros Andros, Tina Aumont
VINCENTE MINNELLI – Il cinema classico è risorto come oggetto di studio cinefilo, la New Hollywood ha preso il sopravvento nella celebrazione perpetua dei grandi maestri del passato. In quel momento, Minnelli è essenzialmente Liza, la diva di Cabaret, l’artista completa che stava per straziarci con New York, New York. Ma non esisterebbe Liza senza Vincente (né, naturalmente, senza il dolore di Judy Garland) e questo è il malinconico commiato del babbo. Nella coscienza dell’impossibile ritorno al cinema classico, tanto vale mettere in scena tutto ciò che può rievocarne i fasti irripetibili (lussureggiante décor alla Gigi, musiche avvolgenti come nelle commedie degli anni cinquanta, momenti musical diretti da uno dei re del genere, Boyer e Nazzari divi riesumati): non a caso Ingrid Bergman, invecchiata con un trucco sopra le righe, perde la memoria ma non la capacità di trasmettere la grandeur perduta alla giovane apprendista. Zoppicante, incompiuto, tagliato senza pietà dalla produzione, disconosciuto dall’autore, la bellezza malata di tutti i film non riusciti.
[Minnelli è morto dieci anni dopo l’uscita del film.]
Con Robert De Niro, Jeanne Moreau, Robert Mitchum, Ingrid Boulting, Jack Nicholson
ELIA KAZAN – Lo sappiamo dall’inizio: al centro della scena c’è un personaggio morto, il produttore Monroe Stahr, trentenne rampante e pressoché infallibile ma, a quanto pare, non immortale. Ad essere morto è anche il mondo che viene raccontato, quello della Hollywood classica degli anni trenta, fotografato con curiosità e pertinenza con la cognizione di causa di chi sa cosa accade dietro le quinte. Kazan trovò sicuramente molto interessante chiudere la carriera con un film che destrutturava il mito hollywoodiano servendosi degli strumenti del cinema classico ma nell’epoca della New Hollywood. Questo romanzo per immagini porta con sé il fantasma dell’incompiutezza e la maledizione del protagonista, è l’archetipo del film crepuscolare, dilatatissimo nella rappresentazione di una storia d’amore impossibile e smarrita tra le pieghe del tempo e piacevole nelle sequenze sul cinema e sui suoi meccanismi. Kazan sa fare ancora il cinema; ma sa che non potrà più fare il suo cinema.
[Kazan è morto ventisette anni dopo l’uscita del film.]
SERGIO LEONE – Uscito nel 1984, ebbe una gestazione di almeno tre lustri. Si potrebbe dire che, mentre si dedicava a produzioni altrui (fece esordire Verdone), nel periodo che lo separa da Giù la testa, Leone non ha fatto altro che pensare a C’era una volta in America. La coscienza della fine è il tema stesso di questo fluviale, dilatato, ricco, indimenticabile romanzo sull’amicizia (tradita), sull’amore (annientato), sulla morte (evocata, sedotta, vissuta). È un film pieno di morte: dall’uccisione iniziale della donna di Noodles a tutti i nemici della banda periti sotto le armi, dagli amici arsi nel camion alla la tomba magniloquente che li conserva, dall’inquietante goliardata del tuffo in acqua con la macchina al disegnino sulla sabbia del sacrario eterno, il presagio di Noodles che urla nel fiume convinto che Max sia affogato e poi Max che risorge da dentro la barca. Se Deborah non può invecchiare come la Cleopatra di Shakespeare, chi è più morto tra i due fantasmi: l’amico tradito coi sensi di colpa o l’amico colpevole che ha tradito? Forse Leone sapeva che non avrebbe mai realizzato Leningrado.
Con Wallace Shawn, George Gaynes, Julianne Moore, Brooke Smith
LOUIS MALLE – Sbalorditivo anticipatore della Nouvelle vague con Ascensore per il patibolo, centravanti della nazionale francese (il disperato Fuoco fatuo), maestro dei sentimenti meno banali con ispiratissimi afflati autobiografici (i bellissimi Soffio al cuore, Cognome e nome: Lacombe Lucién, Arrivederci ragazzi), cosmopolita europeista in terra straniera (Pretty Baby, Atlanti City USA), Malle sente la fine quando torna a Cechov andando dentro Cechov. Il gruppo di attori che prova Zio Vanya sa che la commedia sarà l’ultima allestita in un teatro prossimo alla demolizione, è cosciente della sorridente angoscia con cui il commediografo russo comunicava la fine del suo mondo, sa di vivere la probabile esperienza ultima di una di loro (l’attrice anziana). Ed è inevitabile leggere in nuce, in questo apparente “film per caso” sulle prove di un lavoro mosso dalla passione per Cechov, la consapevolezza del suo autore: la realtà ha sempre bisogno della finzione per essere compresa.
SIDNEY LUMET – Ad ottantatre anni, a distanza di quasi cinquant’anni dall’esordio che gli valse la prima vana candidatura all’Oscar, dopo alcune prove non esattamente memorabili, Lumet ricorda a tutti di essere l’autore di saggi sulla crudeltà (Il gruppo, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Quinto potere) e dà scacco matto ai colleghi più giovani con un film che sin dal titolo non fa sconti a nessuno. “Prima che il diavolo sappia che sei morto” ci sono molte cose da fare: ambire bramosamente al denaro dei genitori, tradire un fratello portandosi a letto la moglie, farsi pur di non affrontare con senno i problemi, rapine, pere, scopate, delitti. Una straordinaria trenodia sulla famiglia, l’antologia dei peccati più deplorevoli, una magistrale dimostrazione di come si gira un film (il taglio delle inquadrature, il minutaggio perfetto, il controllo della messinscena). Questo sì che, a posteriori, è un film-testamento per la compiutezza del lavoro, il pessimismo senza moralismo, il rispetto per il pubblico: d’altronde, La parola ai giurati non era un film sulla speranza?
[Lumet è morto quattro anni dopo l’uscita del film.]
Fu l'ultimo film di Robert Bresson. "In un mondo che non ci vuole più", avrebbe detto Lucio, che guarda caso non farà più canzoni proprio nello stesso tempo. Eppure, il maestro del chiaroscuro francese sarebbe morto solo tredici anni dopo. Ed ecco la resa: Yvon (Christian Patey) si consegna alla polizia, metafora della fine di un tempo. Gli anni '80 incombono. Ma Tolstoj è ancora lì. Ed a ricordarcelo lui, il francese meno compreso ma tanto studiato. Film-testamento, presago di una fine e simbolo del Nuovo Cinema. Quello che vedrà affermarsi Tornatore e Salvatores: quanta differenza, Robert! Ma stiamo tranquilli: oggi non c'è cineasta che non ti deve il suo cinema.
L'ultimo capolavoro di R.W. Fassbinder coincide con la sua morte avvenuta nello stesso anno dell'uscita del film, dedicato all'amico El Hedi ben Salem m᾽Barek Mohammed Mustafa, protagonista del suo "Angst essen Seele auf" (La paura mangia l'anima, 1974), del cui suicidio apprese durante la lavorazione di "Querelle".
In...attesa (?) di Dreaming Machine, è 'difficile' trovare un film più ricco di vita di questo: pullula, trasuda, si espande, sogna, s'insinua tra le crepe del reale e sfonda, dirompe, esplode...
Le storie d'amore sono quelle più semplici. Più complesso è creare un mood struggente tanto che spesso la ricetta precisa sfugge. La colonna sonora è determinante.
Più che del protagonista, si tratta della vicenda testamentaria dell'attore Clint Eastwood, il quale "si fa fuori" dall'universo attoriale facendosi sparare. E' la melodia della carriera
Dopo i ripetuti tète a tète con una morte vestita di un bianco virginale e semi-tranquillizzante, è finalmente il momento di abbandonare il mondo dei vivi e sperare che in questo universo ultraterreno l'ironia non manchi, anzi sia persino maggiore.
Non ci sono nick associati al tuo profilo Facebook, ma c'è un nick con lo stesso indirizzo email: abbiamo mandato un memo con i dati per fare login. Puoi collegare il tuo nick FilmTv.it col profilo Facebook dalla tua home page personale.
Non ci sono nick associati al tuo profilo Facebook? Vuoi registrarti ora? Ci vorranno pochi istanti. Ok
Commento (opzionale)