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Addio a Curtis Hanson
di degoffro ultimo aggiornamento
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Addio a Curtis Hanson

Si è spento a 71 anni per cause naturali, nella sua casa, il regista Curtis Hanson, già da tempo peraltro malato di Alzheimer. Noto soprattutto per “L.A. Confidential” solido film tratto da un grande romanzo di James Ellroy, per cui vinse l’Oscar per la miglior sceneggiatura, scritta insieme a Brian Helgeland (ebbe anche la nomination per la regia e per il miglior film), Curtis Hanson debutta al cinema con “Sensualità morbosa”, thriller che da tempo cerco invano di recuperare con protagonista Tab Hunter, nei panni di un giovane affascinante ma impotente che uccide le ragazze che frequenta. Ed il genere thriller è quello in cui il regista dà il meglio di sé. Dopo un paio di prodotti giovanili (l’innocuo e banale “Un week-end da leoni” con un giovanissimo Tom Cruise e il curioso “I ragazzi di Times Square”, Hanson firma l’intrigante ma irrisolto “La finestra della camera da letto” con protagonista Isabelle Huppert, seguito dall’ottimo “Cattive compagnie” con un mefistofelico Rob Lowe. L’accattivante “La mano sulla culla” è il primo vero grande successo commerciale del regista, complice una pregevole tensione e le interpretazioni convinte di Annabella Sciorra e Rebecca De Mornay, seguito da “The river wild” con un’infaticabile e credibile Meryl Streep, in canoa tra le rapide di un fiume, perseguitata dal brutale Kevin Bacon. E’ del 2000 il suo titolo migliore “Wonder boys” tratto dal romanzo di Michael Chabon con uno splendido Michael Douglas. Seguono tre film piuttosto convenzionali come “8 mile”, “In her shoes” e “Le regole del gioco”. Hanson ritrova la grinta dei tempi migliori con il televisivo ed efficace “Too big to fail”. Chiude la carriera l'ingenuo eppur a tratti commovente film surfista “Chasing Mavericks” co-diretto con Michael Apted. Tra i titoli da lui solo sceneggiati meritano una menzione l’interessante giallo “L’amico sconosciuto”, il sottovalutato “Cane bianco” di Samuel Fuller e un Disney sui generis decisamente da recuperare come “Mai gridare al lupo”.

Playlist film

I ribelli della notte

  • Drammatico
  • USA
  • durata 95'

Titolo originale Children of Times Square

Regia di Curtis Hanson

Con Howard Rollins jr., Joanna Cassidy, David Ackroyd

I ribelli della notte

Dopo “Un week end da leoni”, ancora una fuga al centro del quarto titolo da regista di Curtis Hanson. Se nel film con protagonista un giovanissimo Tom Cruise, la pazza giornata di vacanza di quattro liceali si trasformava in una rocambolesca e goliardica avventura in Messico a base di sesso e droga con qualche contrattempo ed imprevisto, ma sempre in una prospettiva comico-demenziale non proprio nelle corde del regista, in questo televisivo (e l’aria da film dossier anni ottanta si sente tutta) “I ribelli della notte” (altro titolo con cui è conosciuto in Italia), sceneggiato dallo stesso Hanson, i toni si fanno più drammatici e cupi, puntando sulla descrizione senza sconti, credibile e spietata, della dura e dolorosa realtà nella quale si trovano catapultati molti adolescenti fuggiti di casa, alla ricerca di soldi facili ed in balia di adulti meschini ed approfittatori. Se il percorso di maturazione del giovane protagonista a contatto con una realtà viziata e corrotta riesce ad essere efficace, più scolastica e ripetitiva appare la parte relativa alle indagini della madre con una soluzione banale e frettolosa. E’ proprio l’immagine di questi ragazzi abbandonati a se stessi, a disagio nella loro casa, vittime di quelle stesse persone che dovrebbero costituire fondamentali punti di riferimento per la crescita, a rimanere impressa e ben sintetizzata da una desolata ed amara constatazione che Skater, il giovanissimo capo delle pantere, rivolge al protagonista Eric: “Se la mia famiglia mi fosse piaciuta ci sarei rimasto, no?” Un’affermazione che da sola è capace di mettere i brividi.Per atmosfere notturne, tematiche ed alcuni risvolti thriller, sembra la versione adolescenziale del successivo e più compiuto “Cattive compagnie”. Fotografia di Robert Elswit, poi premio Oscar per “Il petroliere”.

Rilevanza: 2. Per te? No

La finestra della camera da letto

  • Thriller
  • USA
  • durata 111'

Titolo originale Bedroom Window

Regia di Curtis Hanson

Con Steve Guttenberg, Elizabeth McGovern, Isabelle Huppert, Paul Shenar, Carl Lumbly

La finestra della camera da letto

Un film di chiara ispirazione hitchcockiana, a partire dal soggetto, evidente rimando al celebre “La finestra sul cortile” (ma anche il classico tema dell’innocente accusato ingiustamente che tenta di dimostrare la propria estraneità ai crimini di cui è accusato). Profumo di Hitchcock ad ogni scena, insomma, ma la fragranza non è sempre di prima scelta. Buon ritmo e discreta tensione, specie nella prima parte (la più compiuta), ma il tutto procede in modo schematico e convenzionale per poi arrancare con fatica e risolversi sbrigativamente, con alcune ingenuità e goffaggini che Hitchcock non si sarebbe mai permesso ed un romanticismo sentimentale invero innocuo e superfluo. A ciò si aggiunga l’aggravante di un protagonista desolatamente insipido con cui non scatta mai l’identificazione: Steve Guttenberg, all’epoca sulla cresta dell’onda grazie ai successi di “Cocoon”, “Corto circuito” e “Scuola di polizia” appare inadeguato in un ruolo drammatico. Non molto meglio di lui la monocorde Elizabeth McGovern ed il piatto serial killer interpretato da Brad Greenquist che ha ben poco di inquietante. Quanto a Isabelle Huppert, in una delle sue rarissime escursioni oltre oceano, dopo “I cancelli del cielo” di Cimino, è certamente la migliore del gruppo alle prese con il personaggio meno scontato e più definito, cui conferisce tutto il suo fascino ambiguo ed enigmatico, evidenziandone sia la carica erotica sia la freddezza ed il cinismo, ma, per citare il Mereghetti, sempre attento a questi particolari “mostra le tette e appare spaesata”. Un omaggio sulla carta sincero e dalle buone intenzioni, ma inesorabilmente pallido e derivativo.

Rilevanza: 2. Per te? No

Cattive compagnie

  • Thriller
  • USA
  • durata 107'

Titolo originale Bad Influence

Regia di Curtis Hanson

Con Rob Lowe, Christian Clemenson, James Spader, Rosalyn Landor, Lisa Zane, Marcia Cross

Cattive compagnie

Curtis Hanson, 3 anni dopo “La finestra della camera da letto”, torna a corteggiare Hitchcock (qui il riferimento principale è “Delitto per delitto”) con un’opera ambigua, inquietante, sottile e decisamente più riuscita. Ottima la prima parte nella descrizione del rapporto stretto e confidenziale che si crea tra i due protagonisti (il regista non ha negato peraltro una possibile lettura gay) e con la puntuale ed efficace analisi del magnetismo carismatico che Alex esercita su Michael che così lascia da parte le sue reticenze e titubanze, così come convince il progressivo ed implacabile emergere del lato oscuro di Michael, sempre più attratto dalla trasgressione e dal proibito a ravvivare un’esistenza fino a quel momento monotona e di routine. Poi il film si incanala su binari più ovvi in un gioco al gatto con il topo dai ruoli improvvisamente invertiti e con un ritorno alla normalità che in parte tradisce la cattiveria tagliente delle intriganti premesse (il successivo “Nella società degli uomini” altro spietato ritratto dello yuppismo rampante avrà più coraggio nell’andare fino in fondo). Nel complesso però il risultato non delude e garantisce uno spettacolo avvincente e ben oliato. James Spader, all’epoca reduce dal successo di “Sesso, bugie e videotape” (ed anche qui i videotape hanno un certo peso nell’evoluzione del suo personaggio in un interessante discorso sul vedere e sul voyeurismo che in parte richiama l’esordio di Soderbergh) è bravo e convincente, nel momento migliore della sua troppo altalenante carriera (dello stesso anno il passionale “Calda Emozione” a fianco di una sensualissima Susan Sarandon, poi, in mezzo a tanta mediocrità, spicca solo la bella serie “Boston Legal”) ma a rubargli la scena in più occasioni è il misterioso, manipolatore e diabolico Rob Lowe (per prepararsi alla parte ha studiato ore di filmati sul celebre serial killer Ted Bundy), qui al suo ultimo vero ruolo cinematografico di spessore, nella versione italiana doppiato da Tonino Accolla (anche lui si sarebbe poi rifatto con tanta tv – “West wing” e “Brothers & Sisters” su tutto) ma forse bruciato troppo presto da un maledetto filmino porno con minorenne (tra l’altro nel film c’è un curioso parallelismo con la vicenda reale che proprio in quegli anni vide coinvolto l’attore) che ha azzoppato inesorabilmente una carriera che negli anni ottanta sembrava destinata a un futuro ben più luminoso. Sceneggiatura solida firmata da un giovane David Koepp alle prime armi e al suo secondo script dopo l’inedito “Apartment zero”: “Jurassic Park” e “Carlito’s way” sarebbero arrivati tre anni dopo. Incalzante la regia di Hanson, abile a costruire un luccicante ma terrificante incubo, apparentemente senza via di scampo, psicologicamente attendibile e dai risvolti cupi e sinistri, in un clima di edonismo vizioso e convulso tipicamente anni ottanta (sesso, lusso, denaro, carrierismo sfrenato, abiti firmati, auto costosissime, locali alla moda, feste notturne, appartamenti dall’arredamento minimale) seduttivo e tentatore ma dalle implicazioni insidiose, impreviste e pericolose. Vincitore del Mystfest di Cattolica.

Rilevanza: 2. Per te? No

La mano sulla culla

  • Thriller
  • USA
  • durata 113'

Titolo originale The Hand that Rocks the Cradle

Regia di Curtis Hanson

Con Annabella Sciorra, Rebecca De Mornay, Matt McCoy, Ernie Hudson, Julianne Moore

La mano sulla culla

Produzione Disney (tramite l’affiliata adulta Hollywood Pictures) baciata da un notevole successo di pubblico (90 milioni di dollari di incasso a fronte di un budget di 11). Scritto con intelligenza da Amanda Silver (quattro anni dopo autrice della sceneggiatura di un altro curioso thriller al femminile – ma meno compatto - come “La prossima vittima” di John Schlesinger con una vendicativa Sally Field), “La mano sulla culla” è l’analisi, avvincente, lucida e senza sconti, su dove si possa spingere la perfidia calcolatrice di una donna. Hanson dipinge un tranquillo e sereno ménage familiare (emblematico l’incipit con la ripresa dei singoli, caldi e confortevoli, ambienti della bella villa con giardino in cui poi si svilupperà la vicenda) dove l’elemento esterno, destinato a portare scompiglio, dapprima si inserisce in modo amichevole, complice e affettuoso, salvo poi diffondere, in modo sottile e all’apparenza inoffensivo, un veleno sempre più potente e mortale che scardina basi che sembravano solidissime. Convince l’abilità manipolatoria, subdola e insinuante di Peyton (quasi il contraltare femminile di Alex/Rob Lowe di “Cattive compagnie”), capace di muoversi con scaltrezza e crudeltà, nascoste sapientemente dietro un atteggiamento di estrema dolcezza e disponibilità, per conquistare la fiducia da un lato (un orecchino di Claire inavvertitamente caduto per terra e messo nella culla di Joe fingendo di averlo tolto dalle mani del bimbo prima che lo ingoiasse) e seminare dubbi dall’altro (un paio di mutandine della piccola Emma nella cassetta degli attrezzi per far licenziare il ritardato tuttofare Solomon che l’ha vista allattare di nascosto Joe). In un ambiguo e vertiginoso scontro tra donne, fondamentale diventa il contributo delle attrici. Gran merito della riuscita del film va allora a una indifesa (soffre d’asma), dolce ma determinata e risoluta Annabella Sciorra (magnifica attrice che avrebbe meritato ben altra fortuna), disposta a tutto pur di riconquistare la sua famiglia (un’anticipazione più credibile del coraggioso personaggio di Meryl Streep nel successivo “The river wild”) contrapposta ad una diabolica, feroce e carica di odio Rebecca De Mornay (qui al suo unico ruolo di rilievo in una carriera avara di soddisfazioni), dietro un volto angelico ed innocente la rabbia insaziabile e senza controllo di una donna che ha perso tutto, convinta che “tutto quello che è fatto è reso.” e pronta a rifarsi una sua nuova famiglia a discapito della detestata rivale. Memorabile quando, sul finire, di fronte alla nuova crisi di asma di Claire le chiede sarcastica: “Qualche problema Claire?” Senza dimenticare poi l’apporto di una giovane e perspicace Julianne Moore, la prima, peraltro, a mettere in guardia Claire, sia pure in modo ironico, dopo aver visto l’avvenenza della baby sitter: “Non devi mai lasciare che una donna attraente prenda il sopravvento in casa tua.”. Hanson ci mette una costruzione impeccabile della suspense (ottima, nel suo implacabile crescendo di tensione, tutta la parte che porta al delitto nella serra, suggestiva la ripresa dall’alto a descrivere l’attacco d’asma di Claire dopo la visita ginecologica) ed un polso sicuro nella gestione di una storia che poteva sbandare facilmente e che invece percorre strade conosciute ma pur sempre apprezzabili. Meccanismo oliato con professionalità per un thriller familiare incalzante e appassionante, superiore alla media. Kevin Spacey era stato considerato per il ruolo di Michael (il marito della protagonista) mentre Cibyll Shepherd ha rifiutato il ruolo di Peyton.

Rilevanza: 3. Per te? No

The River Wild. Il fiume della paura

  • Avventura
  • USA
  • durata 113'

Titolo originale The River Wild

Regia di Curtis Hanson

Con Meryl Streep, Kevin Bacon, David Strathairn

The River Wild. Il fiume della paura

IN TV Twenty Seven

canale 27 altre VISIONI

Reduce dal buon successo de “La mano sulla culla” Hanson è nuovamente alle prese con un thriller in chiave femminile in cui un elemento esterno, pericoloso ed inquietante, ma dall’apparenza gentile e amichevole mette a repentaglio la sicurezza di una famiglia che già attraversa qualche difficoltà. Scritto con pigrizia e faciloneria da Denis O’Neill, “Il fiume della paura”, nonostante la sceneggiatura telefonata e sommaria (vero punto debole), regala comunque quasi due ore di sana e piacevole avventura. Come spesso capita per titoli del genere, il film qua e là si dilunga in episodi superflui, non è esente da improbabilità (il marito impacciato trasformatosi d’improvviso in eroe dalle mille risorse), non sfrutta alcune intuizioni (l’idea del linguaggio dei sordomuti è utilizzata poco e male), ed è elementare nei risvolti familiari (coniugi in crisi, perché lui è assorbito dal lavoro di architetto che però non gli dà le soddisfazioni sperate, trascura i figli e soffre per non essere all’altezza delle aspettative della moglie), oltre che goffamente prevedibile nelle conclusioni (a contatto con la paura la coppia ritrova se stessa, riscopre l’amore e la complicità, mentre il figlioletto può finalmente essere orgoglioso del padre tanto criticato e detestato in precedenza). Vale dunque soprattutto per la prova maiuscola della “regina delle acque” (questo il soprannome dato al suo personaggio) Meryl Streep (per l’occasione doppiata da Rossella Izzo), a suo agio anche in un ruolo muscoloso ed energico (l’attrice ha girato di persona gran parte delle sequenze di rafting, dopo un lungo ed estenuante allenamento), pronta a sfidare con risoluta determinazione il solito criminale spietato, inizialmente scambiato per un eterno adolescente che non vuole mai crescere (calmando in questo modo l’inattesa gelosia del marito, fin da subito sospettoso). Kevin Bacon, dopo “Legge criminale”, è ancora alle prese con “una gita pericolosa” (titolo di cui è stato protagonista nel 1987) e perfeziona con classe il suo lato sinistro e oscuro (“Io non sono cattivo, sono solo diverso dagli altri!” dice di sé, anche se la traduzione non rende l’originale “I am a nice guy. Just a different kind of nice guy.”) con un personaggio che, pur meno ambiguo e sottile, anzi, a tratti, tagliato con l’accetta, fa il paio con il Rob Lowe di “Cattive compagnie”. Per la Streep e Bacon nomination ai Golden Globes. Spettacolo ordinario e consueto ma scorrevole, onesto e innegabilmente coinvolgente, fatica però ad essere impetuoso, trascinante e sorprendente come le correnti del fiume percorse a tutta velocità in gommone dalla protagonista.

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

L.A. Confidential

  • Noir
  • USA
  • durata 137'

Titolo originale L.A. Confidential

Regia di Curtis Hanson

Con Kevin Spacey, Kim Basinger, Russell Crowe, Guy Pearce, Danny DeVito, James Cromwell

L.A. Confidential

In streaming su Disney Plus

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Dall’omonimo romanzo di James Ellroy (terza parte di una monumentale ed epica tetralogia composta anche da “Dalia nera”, “Il grande nulla” e “White jazz”) un sontuoso, appassionante e solido poliziesco. Curtis Hanson sfodera una grinta e un’energia inaspettate e offre un ritratto estremamente sfaccettato, violento e convincente della perversa e sporca città degli angeli in cui non c’è spazio per anime candide ed innocenti. Semplificando inevitabilmente il denso materiale di partenza (per le differenze tra romanzo e film un buon aiuto lo si può trovare sulla pagina wikipedia dedicata all’opera cinematografica) ma rispettandone lo spirito, la pregevole e dinamica sceneggiatura ci immerge con estrema disinvoltura in quei luoghi oscuri cantati da Ellroy, vale a dire un ambiente corrotto, viziato, sordido e marcio in cui polizia e malavita spesso camminano fianco a fianco (“Reciprocità è la chiave di ogni relazione.” viene non a caso detto dal capitano Dudley Smith) e dove la giustizia deve essere “rapida e spietata”. Nonostante la complessità della vicenda, Hanson rinuncia saggiamente a fare un calco accademico e sterile di celebri polizieschi del passato e opta per un racconto moderno, arrembante e stratificato, riesce a costruire una tensione sopraffina e incalzante non solo attraverso magistrali sequenze d’azione (meglio il silenzioso arrivo al Nite Owl o la brutale irruzione a casa dei sospetti di colore che non la sparatoria conclusiva, certo elettrizzante ma a tratti a rischio baraonda, forse l’elemento più debole ed affrettato dell’intera opera che comunque ha una chiusa non all’altezza) ma anche per mezzo di serrati confronti dialettici (su tutti l’incontro tra James Cromwell e Kevin Spacey, o i furibondi scontri tra Guy Pearce e Russell Crowe o ancora l’interrogatorio aggressivo, a testa in giù fuori da una finestra, ai danni del procuratore Ellis Loew). Il regista crea inoltre una smagliante atmosfera d’epoca (lode alla calda fotografia di Dante Spinotti), inserisce abbondanti dosi di violenza, offre uno spaccato disincantato e amaro di una città allo sfascio dove è facile perdersi e cadere (“Questa è la citta degli angeli e tu non hai ali.”), senza rinunciare a un sapiente tocco di ironia (l’episodio con protagonisti Lana Turner e Johnny Stompanato su tutti) e ad un pizzico di romanticismo (“Mi chiedevo quando avresti bussato di nuovo alla mia porta, agente White” domanda la prostituta Lynn Bracken, sosia di Veronica Lake, la donna pronta a dividere i due colleghi rivali, come spesso in Ellroy) ed affidandosi ad un cast maschile in grande spolvero (tutti bravissimi, ma il rude Russell Crowe si impone per magnetica e fisica irruenza). Da non dimenticare infine la presenza femminile, indispensabile nel genere, affidata alla preziosa partecipazione di una seducente ed esemplare Kim Basinger, già pupa del gangster nella commedia Disney “Bella, bionda … e dice sempre sì”, premiata con l’Oscar per l’interpretazione. A lei spetta una delle battute migliori del film “Alcuni uomini ottengono il mondo, altri ottengono una ex prostituta e un viaggio in Arizona.” Non è un capolavoro ma un pregevolissimo e robusto prodotto di intrattenimento che rende un ottimo servizio a Ellroy (il che non era né facile né scontato) e fa il suo mestiere con classe ed onestà. Rispetto al successivo e bistrattato “The black dahlia” è più compatto a livello narrativo, ma molto più convenzionale nella messa in scena (Hanson, va da sé, non è De Palma). In concorso al Festival di Cannes. 9 nomination all’Oscar nell’anno di “Titanic”. Buon successo al box office americano (oltre 60 milioni di dollari), praticamente invisibile nelle sale italiane. Piccola comparsa per Simon Baker, futuro protagonista della serie tv “The mentalist”. Dal medesimo romanzo è stato realizzato nel 2003 anche un film tv (doveva essere il pilot di una nuova serie che poi non è stata più realizzata) con protagonista Kiefer Sutherland. La serie tv di cui si parla nel film in realtà è “Dragnet”.

Rilevanza: 5. Per te? No

Wonder Boys

  • Commedia
  • USA, Gran Bretagna, Giappone, Germania
  • durata 111'

Titolo originale Wonder Boys

Regia di Curtis Hanson

Con Michael Douglas, Tobey Maguire, Frances McDormand, Robert Downey jr.

Wonder Boys

Ecco una commedia intelligente e matura, come a Hollywood se ne fanno sempre meno. Un vero peccato che al box office sia stato un autentico flop. Tratto dall’omonimo romanzo, dalle forti implicazioni autobiografiche, di Michael Chabon (in Italia pubblicato da Rizzoli), costruito sulla splendida, sfaccettata ed articolata sceneggiatura di Steven Kloves che ritrova l’ispirazione e la classe del suo film più noto e riuscito (“I favolosi Baker”), “Wonder boys” riesce a raccontare con toni leggeri, scanzonati, brillanti, a tratti da screwball comedy (il cane nel bagagliaio), a tratti quasi surreali (la vicenda che coinvolge il nero Vernon, l’“ammacca cofani” che reclama la proprietà dell’auto di Grady) il weekend del Wordfest (fiera universitaria annuale per scrittori e aspiranti), in cui l’indaffarato ed incasinato protagonista si trova alle prese con una serie di situazioni sempre più complicate, bizzarre, imprevedibili e folli tra le quali fatica a districarsi e organizzarsi, perdendo in più occasioni la bussola. La pregevole e non scontata abilità di Hanson e di Kloves è riuscire a mantenersi, con straordinario equilibrio e misura, su un registro che in più occasioni corteggia il grottesco e l’assurdo, giocando tra realtà e letteratura, verità e menzogna, con personaggi ai limiti della caricatura e situazioni quasi paradossali, senza però mai perdere di vista l’umanità e la credibilità di una storia certo strampalata, improvvisata come il fine settimana del protagonista (“Improvvisa” suggerisce alla fine Grady al suo editore in merito al destino di James), stravagante, originale, quasi perennemente “fumata e fatta” come Grady Tripp, eppure coinvolgente e preziosa. Ne esce un duplice racconto di formazione (per James, ma anche e soprattutto per Grady) sincero e, a tratti, persino commovente, ironico e beffardo, comico, acuto, profondo (molto bello il rapporto quasi paterno che si delinea progressivamente tra Grady e il suo studente) e sorprendente. Grande merito va anche ad un ritrovato e magnifico Michael Douglas (forse nella sua interpretazione più sfaccettata e compiuta), indimenticabile in vestaglia rosa, occhiali spessi e cappello nero, ma anche il resto del cast contribuisce all’ottimo risultato finale. Da un delizioso e carismatico Robert Downey jr ad un perfetto ed enigmatico Tobey Maguire (Iron Man che va a letto con Spiderman) fino alla solita inappuntabile ed incisiva Frances McDormand. Fotografia sublime di Dante Spinotti e colonna sonora doc con diversi pezzi di Bob Dylan, premiato con l’Oscar per l’inedita “Things have changed”. Un film che, per le atmosfere crepuscolari venate di malinconia, i toni agrodolci ed intimisti del racconto, la descrizione dettagliata, complice e mai banale di caratteri sempre sull’orlo della sconfitta e ad un passo dal fallimento, la capacità di trattare temi complessi con invidiabile finezza e con gustosi tocchi di humor, anche nero, lontano da vuoti ed intellettuali accademismi, sembra quasi fuori dal tempo ed infatti ricorda molto alcune commedie degli anni settanta firmate Hal Ashby, nonostante il lieto fine forse un po’ accomodante ma non così stonato e sentimentale come è apparso ai più. Con una constatazione amara e dolorosa, affidata alle parole di Grady: “I libri ormai non contano più niente.” Ma anche con una bella morale conclusiva: “Non puoi insegnare ad uno scrittore. Puoi dire solo quel che sai. Dire loro di trovare la propria voce. E a chi non ce l’ha di insistere. E’ così che arriveranno dove stanno andando. Naturalmente aiuta sapere dove vuoi andare. E così sarà per Grady, finalmente capace di fare una scelta consapevole e matura, perché “a volte le persone hanno bisogno di essere salvate e basta.” Nomination all’Oscar anche per montaggio e sceneggiatura non originale (in entrambe le categoria vinse “Traffic”).

Rilevanza: 4. Per te? No

8 Mile

  • Drammatico
  • USA
  • durata 111'

Titolo originale 8 mile

Regia di Curtis Hanson

Con Eminem, Kim Basinger, Brittany Murphy, Mekhi Phifer

8 Mile

In streaming su Netflix

vedi tutti

Biografia autorizzata e romanzata di Marshall Bruce Mathers III, in arte Eminem. Il regista Curtis Hanson e lo sceneggiatore Scott Silver (nel 2011 nomination all’Oscar per lo script di “The fighter”) non si prendono rischi ed optano per un approccio semplicistico e risaputo, tra il classico film sportivo “ad integrazione ribaltata” (qui è un bianco che deve affermarsi in un ambiente tradizionalmente nero) e il più tradizionale racconto di formazione: “manca la chiusura trionfalistica ma il modesto racconto è fermo al sogno americano di Rocky” (Paolo Mereghetti). Poco spazio al grigio ed industriale contesto della Detroit anni novanta (un accenno attraverso una rapida corsa in pullman tra le vie e i quartieri della città), mentre pare quasi inevitabile la concentrazione sulla parabola a tappe obbligate del protagonista, a discapito, purtroppo, di tutto il resto. Così se da un lato non si può che constatare ed apprezzare la presenza carismatica di un convincente e notevole Eminem (perfetto anche perché nel suo habitat naturale) dall’altro si devono rimarcare difetti ed ingenuità piuttosto evidenti e fastidiosi. Dal rapporto con una madre sfatta e alcolizzata (una stanca Kim Basinger, la cui principale preoccupazione si può sintetizzare nell’imbarazzante confessione al figlio per cui “Greg non vuole fare sesso orale con me.”), perennemente in bolletta, sommersa dai debiti, costretta a vivere in una roulotte da cui sta per essere sfrattata e impegnata in una burrascosa relazione amorosa con il ben più giovane Greg (il quasi esordiente Michael Shannon) al sentimento di sincero affetto e trasporto quasi paterno del protagonista nei confronti della sorellina a cui canta ogni tanto la ninna nanna per farla addormentare cercando di comunicarle quel calore familiare troppe volte spezzato dalle furiose liti in casa (il sentimentalismo quasi patetico dei loro sguardi d’intesa e dei pochi momenti di complicità viene però annichilito dalla violenza a cui la bimba è costretta ad assistere, anche ai danni del fratello). Superflua la parentesi romantica culminante però in un’accesa e realistica sequenza di sesso in fabbrica quasi a voler dare una giustificazione al soprannome del protagonista (“Perché ti chiamano Rabbit?” “E’ svelto e gli piace scopare un sacco!”) così come non va al di là di facili e approssimativi stereotipi il ritratto degli spiantati amici del protagonista. Le gare di freestyle allo Shelter sono il vero punto di forza del film e hanno un innegabile fascino sia per i ritmi serrati sia per l’improvvisazione spesso geniale dei testi ma ciò che manca è una credibile costruzione drammaturgica che dia loro autentica e trascinante energia, e non si limiti a una descrizione sommaria e poco incisiva dell’universo hip hop. Un’opera costruita a misura e lode del suo protagonista dunque, dalla morale spicciola (“Se qualcosa deve succedere, bisogna che succeda ora!” sostiene Rabbit), incapace di andare al di là di un banale santino confezionato ad hoc per l’occasione. Ottimo successo di pubblico (anche in Italia) e Oscar per la miglior canzone. Da vedere necessariamente in lingua originale. In Italia distribuito con il divieto ai minori di 14 anni.

Rilevanza: -1. Per te? No

Le regole del gioco

  • Commedia
  • USA, Germania, Australia
  • durata 124'

Titolo originale Lucky You

Regia di Curtis Hanson

Con Eric Bana, Drew Barrymore, Robert Duvall, Debra Messing, Robert Downey jr.

Le regole del gioco

In streaming su Amazon Video

vedi tutti

“Amore al tavolo da gioco” potrebbe essere il sottotitolo di un film che, purtroppo, conferma l’appannamento di Curtis Hanson, alla ricerca di uno stile sempre più classico ma qui inevitabilmente già datato, ingrigito e del tutto anonimo. Ad essere onesti le partite a poker sono la parte più interessante e curiosa di un’opera che per il resto è pigra e svogliata nella descrizione del consueto rapporto conflittuale padre/figlio (entrambi abili giocatori), vuota e monotona nella telefonata e superflua parentesi sentimentale tra Huck e Billie. Hanson, a differenza del suo protagonista Huck, non sceglie mai l’azzardo, non vuole o non sa bluffare e va sul sicuro (per citare una frase di Huck, si limita a “nuotare dove si tocca”), optando per una condotta prudente e di rimessa. Di conseguenza dà l’impressione di girare con il pilota automatico, si prende tempi troppo lunghi con la scusa di studiare meglio i caratteri, senza far nulla per ravvivare un racconto stiracchiato che procede con stanchezza e fatica verso una direzione obbligata. Anche il ritratto dell’ambiente degli accaniti e compulsivi giocatori di poker non va al di là di un approccio superficiale e approssimativo. Ed è un peccato non saper sfruttare adeguatamente un personaggio carismatico, ambizioso e dalle molteplici potenzialità come quello di Huck (“10 in seduzione, 0 in serietà!” secondo Suzanne, sorella di Billie), schiacciato dalla personalità ingombrante del padre. Tra gli attori brilla il solo Robert Duvall, mentre Eric Bana e Drew Barrymore lavorano al minimo sindacale. La vera delusione viene però dalla sceneggiatura a quattro mani del regista e di Eric Roth, quest’ultimo, già premio Oscar per “Forrest Gump”, autore anche del soggetto. Peccato perché il simpatico e divertente incipit con il protagonista impegnato a trattare ad un banco dei pegni la vendita di una macchina fotografica digitale usata, al fine di recuperare 300 dollari da giocare al tavolo verde, faceva presagire un prodotto più ironico, brillante, originale e scanzonato. Cameo fugace e amichevole di Robert Downey Jr. già complice di Hanson nel notevole “Wonder boys”. Terribile flop al botteghino americano (solo 6 milioni di dollari incassati per un budget stimato di 55 milioni), in Italia rapidissima apparizione nella sale nel giugno 2007. Versione italiana da evitare come la peste con il doppiaggio di Fabio Caressa e Stefano De Grandis.

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No
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