Il caso Moro
- Drammatico
- Italia
- durata 114'
Regia di Giuseppe Ferrara
Con Gian Maria Volonté, Margarita Lozano, Sergio Rubini, Bruno Zanin, Consuelo Ferrara
Ci sono anni che sono uno spartiacque, per un uomo ma anche per una nazione. Quando l’evenienza cronologica coincide, risulterà perdonabile qualche concessione al ricordo personale, prima del necessario e fondamentale excursus storico.
(Il mio anno spartiacque è stato il 1978: prima c’erano soltanto fotografie indistinte di un’epoca senza coscienza. I frammenti non gioiosi di una infezione dell’infanzia e la consapevolezza sinestetica di un dolore, preciso e incancellabile: l’ago che trasferiva nel mio fragile corpo l’unguento della penicillina; la memoria dei primi film visti, con trame ancora sfuggenti e inafferabili; i Natali vissuti nell’attesa dei regali e dei colori. Poi, i mondiali di calcio in Argentina: il bambino che mai aveva voluto accompagnare allo stadio suo padre folgorato sulla via di Damasco di un gol segnato, dalla Francia contro l’Italia, dopo soli dieci secondi. Un incidente della ordinaria cronologia delle cose – se quella rete fosse stata segnata anche dopo un solo quarto d’ora, quel bambino sarebbe tornato dai soldatini, vinto dalla noia – che apriva un mondo e faceva fiorire, quasi inattesa, la coscienza di sé quale essere umano. Da allora, le domeniche avrebbero scandito il tempo interiore ed esteriore, il calcio come specchio della società e della intera vita, porto in cui gettare ed investire le prime idee, ponte levatoio verso un mondo di letture, film finalmente comprensibili, musica e telegiornali ancora in un bianco e nero triste e metallico, specchio dei tempi, di un tempo difficile, plumbeo, angoscioso)
Anche l’Italia, in quel 1978, era una idea di nazione e di Repubblica relativamente giovane. Ma in quell’anno la giovinezza che pareva invincibile (la muscolatura potente della DC e l’altrettanto ligneo zoccolo duro degli uomini di sinistra, trascinati dalle idee sussurate di un politico che, a considerarlo ora, pare una sorta di Gandhi senza tempo, un Che Guevara privo di armi, un santino laico che tutti ritengono opportuno, e funzionale, portare nel taschino) subì un contraccolpo durissimo. E il Paese si risvegliò con i capelli bianchi (icasticamente raffigurati dall’improvviso e palese invecchiamento del Ministro degli Interni: un Francesco Cossiga all’epoca più cardinale che picconatore), dopo un incubo, e un sonno della ragione, durato 55 giorni. 16 marzo/9 maggio 1978. Sequestro ed uccisione di un padre della patria, di un politico dalla intransigente linea morbida, fautore e facitore lessicale di una formula che è diventata comune modo di dire: il compromesso storico.
(Ricordo che quel giovedì di marzo ci fecero uscire prima da scuola. Ricordo la faccia turbata della maestra e quel nome – Aldo Moro – che diceva poco o nulla e che pure potevi sentire da ogni radio gracchiante, in ogni discorso dei grandi, nella telecronaca concitata di un giornalista alle prese con il sangue degli uomini della scorta, i primi morti di quel lasso temporale, tra i tanti di un decennio para-rivoluzionario e sostanzialmente inutile. Ricordo i giorni successivi: ogni notizia, ogni smorfia, ogni attesa catalizzata intorno a quel nome. Ricordo il 9 maggio, la Renault rossa, quel corpo rannicchiato. Ricordo, ci crediate o no: fu in quel martedì che mia nonna inoculò in me l’ultima dose di penicillina. Ero guarito: intorno a me, però, un senso di morte)
Avvenimenti come questo si prestano alle ricostruzioni più varie, alle dietrologie, ai sensi di colpa, a quei misteri di cui l’ormai vegliarda Repubblica Italiana è perenne tedofora. Ma anche ad esternazioni artistiche, rielaborazioni intellettuali, tentativi di razionalizzazione. Il caso Moro, ferita aperta e impossibile da rimarginare, portato intangibile ed espressione vociante della politica e dei suoi guasti, dei suoi improbabili aggiustamenti, delle sue leggi di comodo mai scritte ma perfettamente tramandate, è stato oggetto di film, opere teatrali e letterarie.
Tra le ultime, al netto delle fantasiose infiorescenze metaforiche e degli incessanti, forse anche fondati, apologhi complottistici, è d’uopo ricordare almeno “L’affaire Moro” di Leonardo Sciascia. Scrittore ed hombre vertical di ispida e mai conciliante intelligenza, l’autore siciliano tentò, nel suo pamphlet di maggior successo e suggestione, una rilettura delle carte (in particolare delle lettere di Moro dal carcere) dotata del gusto della introspezione, mai disgiunta dalla cultura, e della giusta capacità di provocazione, sì da smuovere le acque stagnanti di una politica e di una società che avrebbero preferito dimenticare e rimuovere, piuttosto che fermarsi a riflettere e comprendere. Impagabile il passo dedicato al famoso gerundio (eseguendo la sentenza) con il quale le B.R., nella penultima telefonata, annunciavano la prossima, o forse già avvenuta, esecuzione dello statista. Quella forma verbale che, per alcuni ambienti dotati di consistente prosciutto sugli occhi del discernimento, lasciava, nella sua ontologia diluita, flebile una speranza in realtà già inderogabilmente cassata dai tentennamenti e dagli opportunismi. *
(Si può provare nostalgia per un’epoca del genere? Si può, purtroppo. E’ la nostalgia degli anni della formazione, è il dolore per una capacità di cogliere le cose che aumentava giorno dopo giorno e che, ora, con la universale inversione ad U tipica degli esseri umani, inizia a scemare. Ridatemi/ci il bianco e nero e il cielo di piombo, Umberto Tozzi e i Bee Gees, Il Vicenza di Paolo Rossi e la squadra della mia città che si apprestava a salire per la prima volta in serie B)
*"Eseguendo": gerundio presente del verbo eseguire. Un presente dilatabile. E si preferisce dilatarlo verso il futuro, verso la speranza. "Tutta la nostra attenzione" dichiara il direttore del giornale democristiano "Il Popolo" "è concentrata sul gerundio". C'è da dubitare che una concentrazione sul gerundio sia mai valsa e possa mai valere a salvare una vita: ma ormai siamo nel surreale. Pieno di speranza, il gerundio sale come un palloncino all'idrogeno: fluttua tra le direzioni dei partiti, le redazioni dei giornali, la radio, la televisione, i discorsi della gente. Non il gerundio presente del verbo eseguire, ma la parola gerundio. Un buon terzo della popolazione italiana si chiede che cosa è questo gerundio cui ci si affida per salvare la vita di Moro. Sarà sinonimo di intermediario? Sarà un ente di autorità morale superiore a quella del papa? Sarà un corpo di polizia speciale, particolarmente addestrato ed attrezzato per azioni di estremo rischio e di estrema precisione? Sarà il nome di una persona che ha un qualche potere sulle Brigate rosse?La vita e la morte di Aldo Moro - la vita o la morte - perdono di realtà: sono presenti soltanto in un gerundio, sono soltanto un gerundio presente.
Regia di Giuseppe Ferrara
Con Gian Maria Volonté, Margarita Lozano, Sergio Rubini, Bruno Zanin, Consuelo Ferrara
Regia di Renzo Martinelli
Con Donald Sutherland, Giancarlo Giannini, Stefania Rocca, Aisha Cerami
Regia di Marco Bellocchio
Con Luigi Lo Cascio, Maya Sansa, Roberto Herlitzka, Giovanni Calcagno
Regia di Michele Placido
Con Kim Rossi Stuart, Stefano Accorsi, Anna Mouglalis, Pierfrancesco Favino
La banda della Magliana che, espressamente incaricata, comunica l'indirizzo del covo br dov'è recluso Moro ai Servizi Segreti che glissano causa "sopravvenuto cambio priorità" o qualcosa di simile, è evento romanzato (forse nemmeno poi molto...) ma fa venire i brividi lo stesso...
Regia di Giuseppe Ferrara
Con Gianmarco Tognazzi, Massimo Ghini, Giulio Buccolieri, Elvira Giannini, Anna Galiena
Regia di Elio Petri
Con Gian Maria Volonté, Franco Citti, Marcello Mastroianni, Mariangela Melato
Il personaggio del Presidente è dichiaramente (e anche "visivamente") ispirato alla figura di Aldo Moro e penso dunque che ci stia bene (anche se non del tutto pertinente visto che comunque è un film di finzione) anche perchè a suo modo è un'inquietante anticipazione quasi profettica
Regia di Marco Tullio Giordana
Con Pierfrancesco Favino, Laura Chiatti, Luigi Lo Cascio, Valerio Mastandrea
Il film di Marco Tullio Giordana si concentra su un altro evento tragico degli anni di piombo, la strage di Piazza Fontana e gli avvenimenti conseguenti con le tragiche morti dell'anarchico Giuseppe Pinelli e del Commissario Luigi Calabresi. Aldo Moro viene nel film interpretato dal bravo Fabrizio Gifuni
Regia di Marco Tullio Giordana
Con Luigi Lo Cascio, Maya Sansa, Sonia Bergamasco, Jasmine Trinca, Alessio Boni
Bellissima pellicola, a mio avviso una tra le migliori degli ultimi vent'anni di cinema italiano. Non si parla direttamente di Aldo Moro ma si parla, eccome, anche di terrorismo ed eversione. Attraverso le vicende di due fratelli, Nicola (Luigi Lo Cascio) e Matteo (Alessio Boni), vengono ripercorsi circa quarant'anni di storia italiana, dalle spensieratezze pre-sessantottine fino al principio del XXI secolo. Tra le varie storie che si dipanano parallele quella di Giulia, moglie di Nicola, attratta dalle idee di rivoluzione al punto da ripudiare figlia e marito ed entrare in clandestinità. Una rappresentazione acuta della follia che ottenebrò le menti di una parte di quella che si riteneva "la meglio gioventù"
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