Si conclude oggi la Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, 72ma edizione, e ne è passata di acqua nei canali. Io, EightAndHalf, sono qui al Lido dal primo settembre, e ho potuto gustarmi con piacere e anche con un po' di fatica negli ultimi giorni, nei quali la stanchezza si è accumulata, quanto più possibile della selezione di questa nuova edizione del festival. Un'edizione che istintivamente verrebbe da dire poco soddisfacente, ma nei fatti ricchissima di opere delle più eterogenee e differenti. Quello del concorso ufficiale è stato un po' il festival del cinema medio, variabile anche dal punto di vista della tipologia e dei generi di film. Andiamo infatti dalle intenzioni intrattenitrici di film snobbati come Equals e L'hermine (dignitosissimi per conto loro, ma in effetti del tutto fuori contesto), dai toni hindie di Looking for Grace o The Endless River, alle pretese seriose di Marguerite e Remember, fino agli psichedelici onirismi di 11 Minut, Per amor vostro e Abluka (Frenzy). Tanto materiale per un cinefilo che è stato costretto a cambiare predisposizione d'animo non da un giorno all'altro, ma tra una visione e l'altra, considerando anche la (per forza di cose) semi-decerebrata disposizione delle proiezioni (11 Minut e Heart of a Dog uno dopo l'altro?).
Tutti eccetto tre o quattro i film riusciti a vedere fuori concorso, che è stato ricchissimo di perle (In Jackson Heights, De Palma) e altrettanto ricco di sgorbi (Black Mass, Go With Me, Mr. Six). I film fuori concorso sono gli unici tra i quali si annoverano pellicole cui ho consegnato una miserrima stelletta, proprio ai tre film citati qui sopra.
Il concorso Orizzonti, che non ricordavo fosse sempre così ricco di titoli, era disposto in orari impossibili per chi volesse seguire tutto concedendosi quel minimo di riposo necessario nei dopo-pranzi per riuscire ad affrontare le visioni serali. I pochi film visti in questa sezione, comunque, hanno lasciato sempre il segno, nel bene o nel male.
Pochi i film visti nel concorso delle Giornate degli Autori, e quei pochi hanno lasciato un ricordo davvero negativo (Underground Fragrance, Lolo, etc.). Diverso però il destino qualitativo delle proiezioni speciali, delle Giornate degli Autori, che vantano uno dei più bei capolavori qui visti, Innocence of Memories, e qualche visione fortunosa dell'ultimo minuto (The Daughter).
Della Settimana della Critica ho recuperato solo il film premiato, Tanna, e la proiezione speciale, Jia (The Family), di Liu Shumin, il capolavoro più grande di tutta la Mostra.
Mi sono invece concesso, uno dei giorni intermedi, una pausa dal cinema contemporaneo vedendo un classico, I ragazzi di Feng-Kuei di Hou Hsiao-hsien. Inutile dire che si tratta di un film immenso.
Notevole esperienza tanto e più dell'anno scorso, in cui seguii solo metà delle proiezioni in programma, tanto più se penso di essere arrivato all'inizio e di essere ora dopo 12 giorni in sala stampa a partecipare in diretta alla concessione dei premi con almeno un altro centinaio di giornalisti professionisti e non. La mia partecipazione al festival quest'anno mi ha dato occasione di lanciare un'occhiata da vicino al mondo del giornalismo cinematografico e della cinefilia più sfrenata. Pur nella meraviglia di 12 giorni di puro Cinema (per qualcuno follia), però, è lecito notificare alcuni comportamenti che mi hanno riconfermato la leggera superficialità che attraversa questo mondo. Biamisibili, per esempio, i fischi all'inizio di certe Conferenze Stampe, l'utilizzo continuo di etichette nel sentire i commenti a caldo di altri giornalisti, anche lo sparlarsi alle spalle (fatto che avviene sia nella realtà del web e di internet, sia nel reale), e la sottile frustrazione di sapere di ostilità fra persone che di Cinema ne sanno e ne capiscono tantissimo ma che hanno criteri di giudizio talmente diversi da non avere quasi alcun tipo di dialogo fra loro. Piccoli fatti forse poco importanti ma che vanno necessariamente a danneggiare - seppur di poco - queste due settimane potenzialmente di puro e spassionato divertimento cinefilo, e di confronto costruttivo con altri "colleghi" cinefili del settore.
Parto così alla rassegna dei 50 film che sono riuscito a vedere qui al Lido escludendo I ragazzi di Feng-Kuei di Hou Hsiao-hsien e i due cortometraggi De Djess e Le trois boutons rispettivamente di Alice Rohrwacher e Agnès Varda, realizzati per lo sponsor-partner Miu Miu delle Giornate degli Autori. Tengo a dire che la lista che viene a seguire è in ordine di apprezzamento, dal film più amato al film che ho più detestato. Una vera e propria classifica.
Il tempo e lo spazio come luoghi plasmabili, su cui costruire le proprie credenze e le proprie verità. 4 ore e 40 minuti, per molti insostenibili, ma invero magiche, come penetrare in un altro mondo, che è quello dell’Immagine spoglia e pura, e non farsi lasciare più. Forse il finale è di troppo, ma è coerente con il tutto, e arriva dopo che si è superata l’ipnosi, si è superata la catarsi, si è andati oltre. A volte ci sta pure, fare i trascendenti.
Il mio Leone d’Oro è il viaggio stroboscopico di Skolimowski nell’urlante contemporaneità frantumata, tutta riproduzione e pixel, senz’anima e senza cervello. Un fiume in piena di cinema, spettacolo, intrattenimento, disperazione. Strepitoso.
Un viaggio commovente e metafisico nello spazio che c’è fra le arti, azzarderei quasi sull’”origine filosofica degli affetti”. Un delicatissimo, emozionante, trip.
Il capolavoro italiano della Mostra è un viaggio onirico ossessivo-compulsivo nell’immaginazione di una donna insoddisfatta. Presupposto banale, percorso e destinazione stratosferici ed elettrizzanti. Cinema esteticamente logorroico.
Emin Alper ritrae l’ossessione, la fobia, la paura. Mettendo paura. Un vero horror “politico” che non può non portare alla follia (ed essere amato alla follia).
Il punto di rottura del Cinema di Sokurov, l’Arte che con la sua lungimiranza si ribella alla Storia. Un esperimento che porta il Cinema ai suoi confini estremi, e alle sue più torbide capacità divine. Volendo, la conseguenza più teorica di Faust. Il voto, ad altre visioni, penso possa solo aumentare.
La discesa negli Inferi di Zhao Liang, in cui ad essere condannata è l’Umanità tutta. Specchio delle nostre mostruosità, Behemoth è un film di ammaliante, perverso, fascino, che ci guarda dritto negli occhi, e genera una salutare indignazione, senza ricatti.
Il Leone d’Oro di Venezia 72, un film terribile di un ottimo esordiente. Un utilizzo eversivo dell’out of focus come rare volte si è visto altrove. Intimo e crudele.
È la pellicola di Guadagnino ad assumere il titolo di film più sottovalutato della Mostra. Un edificio cinematografico che parte dalla riflessione corporea della messa in scena, più che dalla verosimiglianza degli eventi, e rimette il Cinema “al suo posto”, come arte figurativa, grottesca e superiore alle mediocrità delle disgrazie umane. Kitsch, ipercinetico, sfrontato: grande Cinema, quello difficile e indigeribile.
Bellocchio lascia da parte il rigore formale – apparentemente - e ci prende in giro tutti. Un film dall’animo profondamente anarchico che riflette sull’assurdità dell’Eterno Ritorno, e sull’incapacità, più dell’impossibilità, dell’uomo di essere libero (per cattiva abitudine). Un film che è una rivolta.
La ricostruzione con i materiali di repertorio del colpo di Stato fallimentare che comportò comunque la cacciata di Gorbaciov e l’ingresso in capo di Elstin nella decadente Unione Sovietica. Più che una riflessione sulla Storia, una riflessione sulla capacità documentaria dell’immagine, e su quanto degli ideali degli esseri umani si possa capire da uno sguardo fisso in camera. A tratti inquietante, generalmente illuminante.
Laurie Anderson utilizza la morte del cane come sineddoche dell’evento Morte, immaginando il suo film come il viaggio nel Bardo, quello in cui l’anima dell'appena defunto, secondo i buddhisti, vagherebbe per 49 giorni. Un film che è un limbo, teoria sullo spazio Cinema e sui limiti dell’Arte come dei rapporti umani. Enigmatico, da vedere e rivedere. Di certo un’esperienza. Si evitino conclusioni affrettate.
Il controcanto di Belluscone, la storia del dimenticato Franco Scaldati, e di come abbia sempre fatto Resistenza pur nel trasformarsi storico del contesto palermitano in cui visse.
Grandissimo film di Pablo Trapero, che vanta un montaggio davvero serrato e violento. Il finale è un indimenticabile esercizio di virtuosismo visivo. Però è di quei film che capisci subito che sono bellissimi, e ti lasciano poco su cui pensare. Una di quelle pellicole diplomatiche che mettono d’accordo tutti, e che dunque è già un grande classico.
Il problema qui è che ho visto questo film di Arturo Ripstein in un giorno in cui la stanchezza si era fatta particolarmente opprimente, e si tratta volenti o nolenti di una visione impegnata. Ma mai, come potrebbe invece succedere, mi sono addormentato (per nessun film). Da rivedere senza dubbio, insieme al resto della filmografia di questo interessantissimo regista; però da quello che, molto deconcentrato, ho visto, è che si tratta di un cinema quasi underground che gioca con i generi – dal noir al dramma tragico – creando atmosfere sopra le righe con un'ironia graffiante priva di eguali.
Il mio personale premio Orizzonti: un film indonesiano di Joko Anwar, imprevedibile, spiazzante, giusto con una rovinosa scena finale, ma in grado di gettare lo spettatore in una tensione inaspettata. Particolarissimo, un futuro film invisibile da recuperare per strade diverse da quelle del grande schermo.
Brian De Palma parla, parla, parla, e noi lo ascoltiamo a bocca aperta, anche perché è un uomo divertentissimo. Le cose più interessanti che dice però sono curiosità dell’ultimo minuto, mentre dell’estetica del suo cinema parla relativamente. Perché Baumbach, regista non da poco, non si è fatto valere di più?
Altro distrutto dalla critica, e questa volta è meno chiaro il motivo. Forse si è data per inutile la frantumata costruzione cronologica, ma è un gioco fatto apposta: è dichiaratamente inutile pensare di ricostruire il destino dell’uomo, perché il destino non esiste, e le cose avvengono senza senso. Una pellicola di corrosivo e coerente nonsense.
Vincitore del miglior film per la categoria Orizzonti, il lavoro di Jake Mahaffy è la sgradevole messa in scena del crollo di un’illusione, e dei pericoli della stessa. Problematico, narrativamente sgrammaticato, respingente nella costruzione ambigua dei personaggi, un film quasi devastante, di difficile presa. Un premio molto coraggioso.
Qui siamo dalle parti del guilty pleasure: un melodramma fortissimo ed esagerato, in cui però, geometricamente, tutti i personaggi vengono demoliti e nessuno può salvarsi. Mai tale da consolare lo spettatore con un bel pianto liberatorio, interrotto sul più bello: quasi un esercizio di sadismo, appassionante e coinvolgente, con un regista esordiente, Simon Stone, da tenere d’occhio.
Tutti i preti della pedofilia, per rifare con cattivo gusto il titolo del capolavoro “giornalistico” di Alan J. Pakula. Ritmo serrato, attori che fanno il loro mestiere e bene, tanto marcio che viene fuori dai mondi più insospettabili. Troppe, però, le conclusioni morali affrettate.
Tobias Lindholm prima sembra rifare American Sniper, poi parte con una seconda parte da thriller giuridico. Un film avvincente che fa venire più di un dubbio morale, e che è meno accomodante di quanto sembri, lasciando il finale apparentemente concluso in se stesso, in realtà coraggiosamente irrisolto.
Altro enormemente sottovalutato, perché come L’hermine decisamente fuori posto. Basta pensare che si tratta di uno young adult sentimentale in salsa fantascientifica, e che c’è Kristen Stewart, per far storcere il naso. Invece in realtà è un passo interessante, per il suo genere, nella rappresentazione cinematografica del sentimento: l’utilizzo della musica è il funzionale climax che descrive il crescere dell’emozione, e le tonalità cromatiche spesso esagerate descrivono lo stato di confusione mentale che vivono i protagonisti, e la paura della frustrazione robotica che dall'esterno impongono loro in un algido futuro distopico. Poi, gli si può dire tutto, ma certo non si intuisce mai come potrebbe andare a finire la vicenda dei protagonisti.
L’ultimo Caligari riprende i temi cari al suo cinema, è abbastanza sgraziato e respingente nella prima metà, con espedienti visivi che non osa usare nessuno nel Cinema italiano, ma poi subisce un rallentamento nella seconda parte, fino ad assumere toni fin troppo classici e accomodanti. Comunque fa letteralmente appassionare ai personaggi, e non è poco.
Il più massacrato dalla critica, inspiegabilmente. Si tratta sicuramente di un film particolare e coraggioso, che non cede a compromessi, non vuole banalmente intrattenere, e si costruisce sul silenzio, e sulla tensione impalpabile che va intessendosi fra i due protagonisti. Che poi certe immagini si sostituiscano ad evitabili spiegoni, quello certo rovina alquanto il film. Ma non c’è davvero motivo di accanirsi così tanto.
Un mockumentary che fa ridere a ritmo alternato, un po’ meno cattivo di quanto si creda però a tratti molto arguto ed efficace. Una pausa dalle visioni impegnate, più che altro.
Philip Kaufman si è ammorbidito. Fosse stato un film non d’animazione, non l’avrebbe notato nessuno. Lo si guarda ridendo solo al pensiero di una frase letta nel catalogo, “il primo film d’animazione vietato ai minori che riceverà un Oscar”. La stampa estera lo ha adorato, in Italia siamo stati più dubbiosi e circostanziati. Più che l’animazione, mi ha colpito la disposizione cronologica degli eventi, in particolare l’attenzione per le piccole cose nella sequenza centrale – che comprende, per intenderci, la sequenza erotica che comporterà il divieto nelle sale. Merita solo una visione, perché poi propone una metafora abbastanza scontata.
Altro film che mi ha messo più di un dubbio. Dopo la visione, la sensazione era di aver caricato sulle spalle un peso di tante tonnellate per due ore e mezza: mi è sembrato uno pseudo-documentario, strutturato con una curiosa costruzione finzionale, che andasse alla ricerca di una tesi, e si prolungasse su fatti secondari sorvolando su quelli più interessanti, e che avrebbero avuto più esplicitamente da dire sul rapporto Cinema-Storia-Cronaca (la responsabilità dello sguardo, evocata dal cameraman dell’assassinio di Rabin che non può riprendere il leader che scende dalle scale). Molto viene anche ripetuto tante volte, apparentemente senza motivo. Però in mia difesa ammetto di non aver visto altro di Amos Gitai, quindi il mio giudizio va preso con le pinze.
Giusto perché From Afar non ci bastava per parlare di pedofili. Apparte gli scherzi, un film che è in grado oggi, con tutto il cinema pazzo che vediamo, di impressionare e mettere così tanto a disagio lo spettatore, può avere tutti i difetti che vuole, merita comunque rispetto. E in più attimi di fronte a Why Hast Thou Forsaken Me? viene davvero da coprirsi gli occhi.
Film ad alto rischio “effetto alla National Geographic”, Tanna, che ha vinto il concorso della Settimana della Critica, è un dramma classico che marcia fin troppo sul carattere esotico delle sue vicende, pur riuscendo ad appassionare con poco o nulla. Più che dignitoso, anche se, pur non avendo visto altri film della Sic, probabilmente non era tanto difficile batterlo in qualità. Da ricordare le sequenze vicino al cratere del vulcano.
Il lavoro di Christian Vincent è la tipica commedia francese, con un sottotesto drammatico vagamente interessante (l’umanità è fatta da un branco di uomini soli, e solo pochi, i più insospettabili, sapranno combattere questo destino), ma che lascia il tempo che trova. Luchini bravo, ma addirittura da premio..?
Netflix si accaparra la distribuzione di un documentario che concede troppo alla spettacolarità e all'opera a tesi, ma che ha i suoi importanti motivi di interesse.
Un film destinato ad essere chiaccheratissimo tanto quanto la serie True Detective realizzata dal regista Fukunaga. E' un film avvincente che riesce a lavorare con le funzioni primarie del senso spettatoriale; ma più ci si ripensa più assume le fattezze di una furbissima paraculata, piaciona nonostante l'ostentata violenza della regia e delle sequenze. Considerando le pretese che ha, è un film nel complesso riuscito a metà, in cui veramente dobbiamo credere che ci basti la superficie, la "TV dell'immaginazione" dell'incipit. E la regia è come quella di True Detective, senza stile, ma con qualche idea molto affascinante sparsa qua e là. Intrattenimento spacciato per autorialità: se lo rivedessi, potrebbe darmi fastidio.
Già presentato a Locarno, un documentario un po' freddo che mette in parallelo le illusioni del boom italiano - anni '60 - e i sogni progressisti del Kazakistan di oggi. Per quel poco che riesce a fare, funziona, ma quando vuole emozionare non ci siamo proprio.
Mentre lo vedi ti appassioni pure, con i dilemmi di coppia e il pensiero che sia l'amore a tirar fuori ciò che c'è di vero nelle persone. Però poi ci ripensi, e non ti togli dagli occhi quel leziosissimo foulard finale che vola nel paesaggio per farti piagnucolare. E il film ti cade dal cuore.
Voto: **1/2
P.S. Motivo per essere felici di andarsene dal Lido: non avere più il faccione di Eddie Redmayne truccato che ti ammicca nei cartelloni pubblicitari. Fosse stata Alicia Vikander, si sarebbe potuto rimanere di più.
Parte medio come commedia, prosegue medio basso quando le battute si ripetono e si propone la risibile ricostruzione storica, finisce melodrammone con l'amaro nella bocca dello spettatore, e non perché ti è dispiaciuto per ciò che succede, ma per le sorti del film.
Apertura bruttina per il festival. Ti senti vivere sul bordo, come direbbero gli Aerosmith, e per poco con ansia non cadi, ma se cadono i protagonisti non ci rimani troppo male. Ultima ora sulla carta ansiolitica, di fatto spettacolo visivo - 3D così così - fine a se stesso.
Io voglio bene a Julie Delpy, ma cercare la risata facilona e inutilmente volgare non fa per lei. L'aveva inaugurata con certe battute di Before Sunset, l'aveva confermata con 2 jours à Paris, ora ci siamo stufati. Eppure i francesi le vogliono bene anche per la sua ironia. Se anche si ridacchia - poco e malvolentieri - si esce con nulla.
Grottesco disonesto, quando si dice tanto rumore - di trama, di avvenimenti, di personaggi, di situazioni - per null'altro che carineria, con annessa giustificazione della realtà urbana periferica dissepolta e raccontata umilmente. Mah.
Lo si attendeva, lo dice anche il titolo, ma quando per tutto il film non sai cosa si attende, e dopo il film capisci che una cosa che davi per scontata era in realtà non ovvia e "si scopre" alla fine a mo' di twist, ti chiedi se gli sceneggiatori e il regista prendano gli spettatori per stupidi o cosa.
Non aveva ancora pensato nessuno a fare un documentario sulle Guardie Svizzere. Poteva interessare solo alla CTV - Centro Televisivo Vaticano. E infatti è venuta fuori una roba che magari non annoia ma che certo non illumina granché su questa particolare istituzione. Ci si chiede cosa avrebbe fatto Wiseman in questi casi..
E' stato presentato il primo settembre in un cinema fuori dal Lido, "sponsorizzato" dalle Giornate degli Autori e fuori dalla selezione ufficiale. Per fortuna. Bastava starsene a casa a vedere la prima fiction tv che si può beccare su Rai 1.
Una sorta di finta fiction in cui le persone interpretano se stesse per raccontare la storia di un padre e dei suoi figli che a momenti non gli vogliono più bene. E sti cazzi?
Un film che parte medio/insignificante, e finisce osceno/significantissimo. Una storia con troppi buchi di logica, e che ha la pretesa di essere più precisa e inattaccabile di quello che è. La regia, poi, non esiste. Eppure il regista è un nome, è Atom Egoyan.
Si è sentito dire che sia un accettabile film di genere. Forse non l'ho accettato io, forse perché vengo qui a Venezia per vedere grandi film e trovo un filmaccio piccolo piccolo come questo. Ma qui non si salva proprio nulla, due ore che paiono infinite, senza neppure la concessione del trash involontario, magari per divertirsi.
È l’ultimo. Infatti è il più brutto. Un film ufficialmente d'azione in cui l'azione non esiste, e si chiacchera e si scherza su fatti di poca importanza che vanno dal confronto generazionale al ricordo dei vecchi tempi. Il finale è la scena più trash involontario vista tra i film qui al festival (su 50 non è così difficile trovarne).
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