Il 2 giugno esce finalmente al cinema, per Lucky Red, dopo una serie di vicissitudini distributive (inizialmente era nel listino Moviemax, poi fallita), “Fury” di David Ayer. E furioso è un aggettivo che ben si addice all’opera complessiva di Ayer, non a caso tra gli sceneggiatori di “Fast & Furious” primo capitolo di una saga che ancora oggi ottiene riscontri di pubblico strepitosi, forse ben al di là dei suoi effettivi meriti, in ogni caso impensabili alle origini. David Ayer ama un cinema aggressivo, gridato, molto carico, sopra le righe, spesso fuori misura e fuori registro, ben sintetizzato dal personaggio del detective Alonzo di “Training day” (da Ayer solo sceneggiato) che ha portato a Denzel Washington un secondo Oscar, per taluni fin troppo generoso. Cresciuto in un quartiere periferico di Los Angeles, Ayer nelle sue sceneggiature sa cogliere molto bene certe atmosfere rabbiose, confuse, surriscaldate di quartieri popolari, agitati, di frequente, da sommosse e regolamenti di conti. I momenti più riusciti di un’altra sua sceneggiatura, “Indagini sporche – Dark Blue”, sono, non a caso, quelli relativi alla rivolta che mise sotto sopra la città di Los Angeles (il film è ambientato nell’aprile del 1992 con l’assoluzione di quattro agenti bianchi, accusati del pestaggio dell’automobilista nero Rodney King), capaci quasi di riportare alla memoria le pagine più incandescenti di “Le strade dell’innocenza” di James Ellory, prima avventura letteraria del suo eroe Lloyd Hopkins e incentrato sugli analoghi tumulti della popolazione di colore nel quartiere Watts di Los Angeles nel 1965. E James Ellroy è un nome che ritorna nella filmografia del nostro: da una sua storia originale, intitolata "The plague season", nasce il sopra citato “Indagini sporche”, ha inoltre collaborato alla sceneggiatura di “La notte non aspetta”, secondo film da regista di Ayer, infelice poliziesco di maniera, esagitato e plateale che, oltre a scimmiottare i più triti stereotipi da Ellroy, conferma i vistosi difetti già presenti nell’esordio alla regia di Ayer, “Harsh times”, basato su esperienze autobiografiche ed incentrato su un veterano della guerra del Golfo che, ritornato negli Stati Uniti, desidera entrare in polizia. Un Christian Bale al suo peggio e del tutto incontrollato affossa un film irritante e pretenzioso. Va meglio con la terza opera “End of watch”, con cui Ayer prosegue il suo personale percorso all’interno del poliziesco moderno. E’ del 2014 il suo film più discutibile ed indifendibile, “Sabotage”, un action becero, scriteriato e buzzurro che fa rimpiangere i peggiori Schwarzenegger degli anni ottanta, giustamente ignorato dal pubblico che ne ha decretato l’insuccesso commerciale (in Italia è uscito direttamente in dvd). Di fronte ad un disastro così eclatante e rovinoso, un vero e proprio suicidio artistico, le aspettative per “Fury” erano ai minimi storici. Invece il film con protagonista un roccioso e ruvido Brad Pitt (di nuovo in guerra dopo “Bastardi senza gloria” di Tarantino), pur confermando la tendenza di Ayer a voler sempre sovrabbondare, nella sua messa in scena quasi tradizionale e nella sua onestà di fondo, a suo modo convince. In attesa di “Suicide squad” attualmente in lavorazione e forte di un ricco cast, non ultimo il premio Oscar Jared Leto, pronto a fornire la sua personale rivisitazione (l'ennesima, aggiungerei) di un’icona come Joker.
Solo sceneggiato. Un “Point Break” dei poveri costruito su belle ragazze, giovani palestrati, motori rombanti, auto fiammeggianti, corse clandestine spericolate, inseguimenti mozzafiato, colonna sonora martellante. Alla regia non c’è un Peter Yates o un Richard C. Sarafian, gloriosi artigiani della Hollywood dei tempi d’oro, ma un modesto mestierante come Rob Cohen (non un titolo degno di nota nella sua filmografia, questo è il migliore ed è tutto dire). Cohen si limita ad accostare meccanicamente i diversi elementi a sua disposizione per confezionare quello che lui definisce un “western moderno”, in realtà, a conti fatti, uno spettacolare film d’intrattenimento allo stato puro, veloce, secco ed indolore ma anche tremendamente superfluo. Un giocattolone senza troppe pretese, analogamente all’innocuo ma godibile “S.W.A.T.”, dalla celebre serie tv, e di cui Ayer ha curato la sceneggiatura. Il titolo è lo stesso di un film del 1955 prodotto da Roger Corman. Per Giona A. Nazzaro un capolavoro. Ha dato il via ad una serie che, di film in film, incrementa i suoi consensi.
Dopo il successo del similare “Training day”, Ayer sceneggia un poliziesco amaro e per nulla consolatorio, (tranne nel grossolano e retorico finale con il protagonista che, dopo avere toccato il fondo, ha un barlume di etica e di dignità e denuncia tutti i mali, i ricatti e le macchinazioni del dipartimento), dal ritmo ineccepibile e serrato e dalla costruzione narrativa solida ma, come il film con Denzel Washington, non molto originale negli spunti e troppo insistito e ridondante, ai limiti del manicheismo, nei suoi, pur lodevoli, intenti di denuncia. Incisivo Kurt Russell, mentre Brendan Gleeson sbrigativo e ambizioso capo della polizia, che fa dell'abuso di potere il suo marchio di fabbrica, con un sogno molto chiaro in mente (“Io mi vedo in grandi barche con grandi motori in grandi laghi con acque limpide.”) capace delle azioni criminali più squallide e riprovevoli, sfiora il luogo comune e rischia di assomigliare più che ad un personaggio reale ad un cattivo da cartoon. Bella e commovente partecipazione di Lolita Davidovich, compagna nella vita del regista Ron Shleton. La battuta migliore? Davanti ad un cadavere trovato in un frigorifero il personaggio di Kurt Russell esclama: "Questo l'hanno freddato sul serio!". Distribuito prima in Italia (dalla CDI di Giovanni di Clemente) che negli States. Vincitore al Noir Film Festival di Courmayeur del 2002. Ellroy ha dichiarato di non avere avuto niente a che fare con la pellicola, di cui, a suo dire, Ayer ha mantenuto solo il nome di qualche carattere: anzi, dopo avere visto il film, ha persino chiesto invano che il suo nome non venisse usato per il lancio della pellicola.
Debutto alla regia. Dozzinale e ovvio nella definizione dei personaggi così come nella dinamica psicologica tra i due protagonisti (con tanto di scelta morale finale abbastanza goffa e forzata), ingenuo e ripetitivo negli sviluppi narrativi, di maniera nella rabbia infuocata e nella violenza che vorrebbe trasmettere, fasullo e sterile nel suo pessimismo di fondo, meccanico e risaputo nella rozza e superficiale descrizione ambientale. Rovinato del tutto da un Christian Bale indigeribile.
Poliziesco rozzo all’insegna di una violenza compiaciuta e gratuita, di un isterismo esagitato e della più assoluta improbabilità. La solita denuncia della corruzione all’interno della polizia si traduce in un’opera di routine: e così quello che vorrebbe essere un ritratto crudo e disperato di una polizia viziosa e immorale (nel film uno dei personaggi si domanda “E’ rimasto qualche poliziotto onesto o si fanno tutti i cazzi loro?”) risulta artefatto e velleitario. Gli attori non aiutano. Ad un Keanu Reeves anonimo si contrappone uno spento Hugh Laurie (“ambientare la prima scena di Hugh Laurie in un ospedale è uno degli esempi della fiera dello stereotipo girata da Ayer.” ha scrittoStefania Leo). Improponibile Forest Whitaker che già con la sua partecipazione concitata ed esasperata aveva malamente rovinato un’intera stagione (la quinta) di una serie cult come “The Shield”, sancendone, purtroppo, in qualche modo il suo declino.
Si apre come una favola (“C’era una volta a South Central…” si legge in sovrimpressione all’inizio del film) per poi svilupparsi come un finto documentario, spesso arrembante, concitato e molto chiacchierato, con numerose sequenze ambientate sull’auto di servizio, sul durissimo e pericoloso lavoro quotidiano di una giovane coppia di poliziotti di pattuglia a Newton, “il distretto più duro di Los Angeles”. Scritto in 6 giorni, girato in 22, a detta del regista, “End of watch” è una “miscela tra You Tube e Training day”. Se da un punto di vista narrativo il film, frammentario e episodico, non inventa nulla di nuovo e l’espediente del cinema verità sembra più che altro un vezzo ormai ricorrente in tanto cinema americano contemporaneo a forte rischio artificio (il film è girato con telecamere a mano, videocamere di sorveglianza o nascoste, e microcamere di vario tipo), il teso andamento cronachistico di “End of watch” riesce a garantire un buon coinvolgimento emotivo. Peccato però che Ayer nel finale si ricordi di essere un cineasta iperbolico e sbrodola nella solita eccessiva resa dei conti tra buoni e cattivi, questi ultimi più truci ed efferati che mai, con un colpo di scena posticcio che manda a farsi benedire i lodevoli intenti documentaristici fino a quel momento seguiti con tanto puntiglio.
A oggi il peggiore dei suoi lavori. Ayer si mette a totale servizio della sua star, schiaccia il pedale su una violenza esacerbata e disturbante, annulla l’ironia ma non il ridicolo, offre un ritratto della DEA da denuncia se il film non fosse così stupido, si autocita senza vergogna. La storia è un puro pretesto tanto la sceneggiatura è un colabrodo tra personaggi scritti con l’accetta e situazioni incomprensibili o campate per aria. Ayer non ha mai avuto la mano leggera né il dono dell’essenzialità ma mai è stato così grossolano. Sembrano dirette a lui le parole che rivolge a Schwarzenegger il suo superiore: “La credibilità è come la verginità: una volta persa, è persa per sempre!”.
Quasi un remake bellico di “End of watch”. “Fury”, come tutto il cinema di Ayer, non inventa nulla: non ha la forza drammatica dirompente del Fuller de “Il grande uno rosso”, né l’asciuttezza dura e spettacolare di Robert Aldrich (“Prima linea”, “Quella sporca dozzina” o “Non è più tempo di eroi”, poco cambia) o l’umorismo crudele e disincantato del Peckinpah di “La croce di ferro”. Ayer però riesce a confezionare un film bellico sporco e arrembante, robusto e selvaggio, capace di catapultarti nel fuoco incrociato di una guerra che non dà scampo (ottimo il lavoro sul sonoro). Peccato per l’inevitabile retorica connessa alla solita vicenda dello svezzamento della recluta alle prime armi (il pivello da 8 settimane nell’esercito, mandato allo sbaraglio a uccidere) che toglie respiro ed energia ad un film per certi versi molto cupo e violento, in gran parte ambientato su un carro armato (c’è chi vi ha visto riferimenti a “Lebanon”, Leone d’Oro a Venezia nel 2009, ma si può anche pensare al lontano “Belva di guerra” di Kevin Reynolds, senza dimenticare che Ayer aveva già scritto “U-571”, altro film di guerra quasi “al chiuso” e basato sulle sue esperienze in marina). Ayer non rinuncia a riflessioni ridondanti e un po’ ovvie (è un continuo sottolineare “E’ la fottuta sporca guerra!”), a infantili e telefonate scene madri (il primo omicidio “obbligato” della giovanissima e refrattaria recluta), a patetici risvolti alla “Attimo fuggente”, a frasi slogan che tappezzano ripetutamente i suoi lavori (“Le idee sono pacifiche. La storia è violenta.”), alla consueta rumorosa baraonda (la lunga e roboante battaglia finale al crocevia ad evidenziare il lato più reazionario e spicciolo del regista con i protagonisti a ripetere “Maledetti nazisti fanculo!” e con tanto di sorpresa conclusiva sembra una citazione/scopiazzatura della resa dei conti che chiudeva “End of watch”) ma per lo meno sa tenere il volante dritto e non deraglia, come gli è capitato in altre occasioni, regalando un discreto prodotto di intrattenimento che non entrerà nella storia del genere ma con una sua innegabile dignità.
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