From What Is Before
- Drammatico
- Filippine
- durata 338'
Titolo originale Mula sa kung ano ang noon
Regia di Lav Diaz
Con Perry Dizon, Roeder, Hazel Orencio, Karenina Haniel, Reynan Abcede, Mailes Kanapi
Le stelline, che lusso! Da quando il nuovo sito ci consente di raddoppiare la valutazione di ciò che un film ci ha regalato in termini di emozione e trasporto, attribuire un giudizio alle pellicole che visioniamo, diventa un gioco di sfumature che ci potrebbe consentire (o quasi) di limitarci a questa sintesi appassionante.
Poi però, sempre più spesso, ci accorgiamo che - al di là del valore tecnico, del miracolo della sintesi, della coerenza armoniosa che ci ha colpito, o invece dello stesso sentimento provato per tutto il contrario di quanto sopra - molti grandi autori riescono a trasmetterci - nel raccontarci per immagini una storia, una situazione, un avvenimento - soprattutto qualcosa di intimo ed impalpabile che ci rimane dentro, e che non riesce ad esprimersi coerentemente con una scala di valori sintetici: è l'emozione che una pellicola, magari anche imperfetta, è riuscita a regalarci, la scintilla che rende il film veramente indimenticabile: anche se magari esso non merita il pieno di voti (o stelline) che un altro invece,, magari formalmente impeccabile, non può “tecnicamente” evitare di aggiudicarsi, anche se in noi l'emozione magari latita.
Questi miei 10 emozionanti colpi di fulmine sono, almeno in parte, film di nicchia, qualcuno nemmeno mai uscito in sala, né in previsione di uscita per la nostra distribuzione, in qualunque formato o soluzione si possa pensare di renderlo disponibile.
Oppure tutto il contrario di film di nicchia, pensati invece per fare colpo e costruirsi un seguito, con uno strabiliante ed astuto colpo di marketing: penso a Nymphomaniac ovviamente, alla scaltrezza quasi irritante del suo autore, che tuttavia può permettersi il lusso di girare un film e riproporlo tre volte al suo stesso pubblico (parte 1, parte 2 e versione hard completa) confermandoci una volta di più la grandezza e genialità di ciò che ci racconta, e di come riesce a farlo, in un mix di stile e calcolo che rasenta la genialità.
Al di là della eterogeneità, della bizzarria, della delicatezza, della poetica, della differente necessità di rappresentare il mondo vissuto o contemporaneo, la violenza che lo anima e circonda, queste dieci gemme sono certamente prodotti, se non di nicchia, destinati ad un pubblico circoscritto: ma anche film che hanno girato il mondo, grazie ai festival internazionali più importanti che li hanno scelti, ospitati, mostrati con orgoglio; alcune di queste manifestazioni ho avuto anche quest'anno la possibilità e la fortuna di farle mie, a volte o quasi sempre ben accompagnato da amici cinefili ormai imprescindibili, conosciuti quasi sempre nel contesto di questo sito prezioso che ci ospita e ci segue con passione, permettendoci di esprimerci meglio di ogni altro, e consentendoci di dire la nostra su ciò che ci piace o non piace, cinematograficamente, ma non solo.
Il comune denominatore di ognuno dei 10 prescelti? La testimonianza coraggiosa ed orgogliosa che il cinema è vivo; è un'arte che sa emozionare e regalare momenti importanti a chi sa coglierli, magari rifuggendo il più possibile tutto ciò che viene creato per esserci imposto, per omologarci nei gusti come una massa informe e senza carattere che vuole solo divertirsi grossolanamente prima di far ritorno alla realtà ben poco cinematografica delle singole vite di tutti i giorni.
Ecco le mie scelte, frutto di valutazioni del tutto personali, soggettive, ma ferme e premeditate, pur se frutto di necessari compromessi interiori e scelte sofferte, vista la difficoltà (auto-imposta) di ricondurre a soli 10 titoli un anno cinefilo vissuto davvero intensamente.
Titolo originale Mula sa kung ano ang noon
Regia di Lav Diaz
Con Perry Dizon, Roeder, Hazel Orencio, Karenina Haniel, Reynan Abcede, Mailes Kanapi
Titolo originale P'tit Quinquin
Con Bruno Dumont, Alane Delhaye, Lucy Caron, Bernard Pruvost, Philippe Jore
Tag Commedia, Storia corale, Adolescenza, Mistero, Francia, Anni duemiladieci
Dumont impegnato in una serie televisiva di quattro puntate? Dumont che cambia genere e punta alla commedia? la comicità secondo Dumont? Il thriller visto dal più ortodosso dei registi d'Olptralpe? Se ne sono sentite molte nel maggio scorso al Festival di Cannes a proposito della presenza dell'ultima opera di Bruno Dumont alla Quinzaine, che già lo ospitò praticamente esordiente ai tempi de La vie de Jesus.
Quinquin un giallo in piena regola? Tutt'altro, perché a Dumont, lo capiano dopo un'oretta, non interessa per nulla scoprire i responsabili di delitti così atroci e devastanti che stanno al centro delle indagini di un improbabile quanto buffissimo ispettore dai tic nervosi incontrollati: al fantastico originale regista piace indagare sui misteri della natura umana, sul comportamento animale ed istintivo dell'essere umano che non si fa condizionare dai dettami della società: da ciò si spiega l'attrazione del regista - caratteristica che scorgiamo sin dai suoi esordi - per i personaggi balordi, schizzati di mente, per le deformazioni e le tare mentali: disgrazie che in quel paese del Nord affacciato sulla Manica contraddistinguono famiglie intere, rendendole in un certo senso più genuine e “animali”, e dunque a loro modo più pure.
P'tit Quinquin è un film non facile e, per chi non conosce almeno un pò l'autore, e potrà risultare certamente indigesto e quasi offensivo verso le categorie altrove protette (ma qui messe a nudo senza veli o falsi moralismi): un film che ti si appiccica addosso come in un abbraccio che ti sembra freddo e distaccato, ma dal quale sadicamente non ti liberi più.
Titolo originale Nymfomanen
Regia di Lars von Trier
Con Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin, Shia LaBeouf, Jamie Bell
Nymphomaniac è un trattato dettagliatissimo, suddiviso in due volumi che contengono un totale di otto capitoli sulla vita scandagliata da emozioni e “prove” ereticamente (ed eroticamente) plasmanti e formative vissute dall’adolescenza ad oggi da parte della ninfomane problematica e autocritica Joe, ritrovata malconcia e priva di sensi da un timido passante sulla sessantina tra i vicoli di un centro cittadino, e da costui soccorsa ed accudita, e pazientemente ascoltata.
Un magnifico, seducente, perverso girotondo dei sensi alla scoperta dei sentimenti più intimi di una mente ed un corpo che non riescono a darsi pace o soddisfazione, se non con la "polifonia" di una sessualità senza freni o inibizioni a cui una donna dalla bellezza seduttiva e piccante come Stacy Martin, non puo' non indurre a terrena e giustificata irrefrenabile tentazione.
Il primo volume si esaurisce nei primi cinque capitoli, cui fanno seguito i restanti tre, più lunghi, impenetrabili, a volte difficili da seguire e vittime, così ci è apparso, di pesanti tagli sembra abbiano nuociuto maggiormente alla continuità e fluidità del discorso narrativo, rispetto a quanto accaduto al primo volume.
Tagli o non tagli, porno intravisto o invece pseudo-completo, scene di parto che sono un inno alla macellazione, più che alla vita, non ci sorprendiamo più di tanto né tantomeno riteniamo sia il caso di indignarsi davanti all'ultima intensa provocazione "calcolata" di Von Trier. Il film resta nel suo complesso un’opera notevole, unica, punteggiata di scene madri davvero uniche e sensazionali, blasfeme forse, ma di elevata capacità attrattiva e dunque piena di grandi momenti di cinema.
Titolo originale Miss Zombie
Regia di Hiroyuki Tanaka
Con Ayaka Komatsu, Makoto Togashi, Toru Tezuka, Tarô Suruga, Riku Ohnishi, Okito Serizawa
Una famiglia agiata e perbene un giorno si vede recapitare un pacco enorme che contiene una giovane donna zombie all'interno di una gabbia.
Un horror scarno e in bianco e nero (come l'ottimo vampiresco The addiction di Ferrara) il cui fulcro ed oggetto di interessi e desideri sempre piu malsani e irrinunciabili ricorda pure l'ossessione pasoliniana di Teorema.
Un film che accumula tensione e suspence con gran classe e potere seduttivo non comune, in un gioco sadico di perversioni e ossessione verso un contagio ineluttabile e a suo modo pure salvifico, che trova un suo epilogo ad incastro con le vite e le esperienze passate della vittima e dei loro carnefici, e che si fa forte di un sacrificio finale che odora di blasfema santità, in grado di riportare tuttavia colore (anche alla pellicola e dunque al film) e dunque una speranza di vita dopo tanto grigiore e odore di morte e di sangue.
Insomma un piccolo grande film, pressoché invisibile, di un autore giapponese notevolissimo, Hiroyuky Tanaka SABU, quasi sconosciuto da noi, da riconsiderare in tutto il suo già notevole percorso cinefilo, che potrò scoprire grazie al prezioso intervento di un amico (vero Neve che vola?).
Titolo originale The Raid 2: Berandal
Regia di Gareth Evans
Con Iko Uwais, Yayan Ruhian, Arifin Putra, Oka Antara, Tio Pakusodewo, Alex Abbad
Un film che è un delitto, una follia insensata che abbia disertato una volta ancora il grande schermo: proprio questa volta che Evans si apre a inquadrature di ampissimo respiro, quasi a rivendicare la fine di una claustrofobia da primo episodio che ormai gli sta decisamente stretta.
Quadri meravigliosi in cui tra un cielo plumbeo e un campo di cereali, da lontano si riesce anche a scorgere una fossa sinistra che nulla di buono presagisce: poco distante, anzi quasi sull'orlo, giace inginocchiata la imminente vittima, destinata a prendere possesso di questo suo definitivo freddo giaciglio dopo una fine la più violenta e truce che si possa immaginare.
Ma tutto questo è solo l'inizio: di un calvario da parte del nostro eroe, poliziotto che, uscito da un incubo circoscritto tra le sbarre di una galera fatiscente ma inespugnabile, viene proiettato, anzi catapultato, in uno scenario inizialmente circoscritto nuovamente ad una prigione (ove è detenuto il figlio di un boss che la polizia cerca di incastrare da tempo), ma dove l'infiltrato deve gettare le basi per una amicizia di comodo che lo porti, attraverso il giovane rampollo viziato, su fino alle alte sfere della disonestà e del malaffare, per poterle incastrare tra le maglie di una giustizia che finora pare solo soccombere alla criminalità organizzata.
Magia e ritmo di un corpo che danza al ritmo di un combattimento senza fine e quasi senza precedenti, nonostante l'ampia gamma di film appartenenti allo stesso e spesso mediocre genere.
Titolo originale Gare du Nord
Regia di Claire Simon
Con Nicole Garcia, Reda Kateb, François Damiens, Monia Chokri, Sophie Bredier
Un crocevia di persone, un formichiere di direzioni contrarie o compatibili, un fiume di anime dirette ognuno per la sua meta. In questo caotico ma organizzato contesto, che il laureando immigrato Ismael ( il bravissimo Reda Kateb, che recentemente ho visto ed apprezzato in Ippocrate) considera un “villaggio globale”, il giovane intende portare avanti una serie di interviste per concludere una tesi di carattere antropologico a cui tiene e lavora da molto.
E' così che il giovane incontra e si affeziona a Mathilde, una affascinante sessantenne colta (è un ex professoressa universitaria) che percorre quella strada ogni giorno per effettuare le delicate cure inerenti la sua grave malattia. Tra i due, inizialmente un po' diffidenti, nascerà una storia d'amore platonica e romantica che si manifesterà con un complicità ed una intesa totale ed unica per ognuno di essi.
Gare du Nord è un grande film innovativo, sperimentale, che disegna quattro personaggi stupendi, poetici, nostalgici e anche magici.
Su tutti i personaggi, non molti ma tutti ben centrati, spicca la figura esile ma per nulla arrendevole di Mathilde, cappottino verde perenne e parrucca bionda a nascondere lo scempio di una cura con la quale si tenta di non arrendersi all'ineluttabile. Nicole Garcia, attrice preziosa e sempre più rara avendo intrapreso da oltre un ventennio e con successo il mestiere di regista, disegna un personaggio fantastico che, non penso di esagerare, è un ritratto di donna tra i più belli fino ad ora visti da inizio secolo.
Gare du Nord dell'ottima Claire Simon, è un film per il nostro paese ancora invisibile, ma che consiglio a tutti di riuscire a recuperare.
Regia di Ermanno Olmi
Con Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria
La guerra è una pianta maligna che attecchisce ovunque. Ermanno Olmi la fa rivivere e la rivisita in un suo episodio o ipotetico frammento, costruito sui ricordi di quello che suo padre gli raccontò in proposito da bambino.
Uno dei più grandi cineasti viventi italiani (per me senza esitare il più grande) affronta finalmente dopo tanti rimandi un tema che gli è sempre stato a cuore; episodi indelebili nella memoria di chi ha vissuto nell'Altopiano (di Asiago) nei primi decenni del '900. Anziché adattare un romanzo dell'amico Mario Rigoni Stern (da anni si parlava della tentata o desiderata trasposizione cinematografica de "Il sergente della neve" - altra guerra, ma medesima situazione per i vinti o i deboli costretti a stare al fronte - da parte del noto cineasta bergamasco, trapiantato in quel di Asiago, nelle zone natie dello scrittore), Olmi rielabora un singolo episodio lungo tutta una nottata di luna piena e nebbie a fondo valle.
Il risultato è straordinario per la capacità, innata nel regista, di dar voce ai dialetti e al linguaggio semplice della vita contadina e montana; per la capacità, ora esemplare, di abbandonare orpelli narrativi e suppellettili registiche per abbandonarsi all'essenziale, alla scarna essenza della rappresentazione di una tragedia immane; di un genocidio di innocenti mandati allo sbaraglio a morire di freddo, stenti e pallottole nemiche.
Titolo originale Mommy
Regia di Xavier Dolan
Con Anne Dorval, Antoine Olivier Pilon, Suzanne Clément, Patrick Huard, Alexandre Goyette
“Cest le moment Dolan” scrive la rivista di cinema Premiere nel suo ultimo numero uscito pochi giorni fa in concomitanza con l'arrivo nelle sale francesi dell'ultima premiata fatica del giovane impetuoso e brillante cineasta canadese. E ancora, traducendo in italiano: “E' l'era di Dolan, colui attorno al quale tutto gira, colui nei riguardi del quale tutto il mondo si inginocchia (al ralenti per favore, io adoro questa tecnica)”.
Enfasi ed ironia a parte, il ritorno puntuale, come ogni anno negli ultimi cinque, del tenace, nervoso e caratteriale Xavier Dolan, rappresenta, anche stavolta, un gran momento di cinema: lo si potrà definire ripetitivo (ma che male c'è a tornare sui passi accidentati ed isterici di “J'ai tué ma mere”, soprattutto dopo aver completamente cambiato genere e situazioni nel riuscitissimo e piuttosto masochistico “Tom à la ferme” dell'anno scorso?), vezzoso, con l'uso smodato e svergognato dei ralenti, appunto, o dei primissimi piani sfocati ed invadenti; un po' ruffiano, si potrà obiettare, per la musica facile ma irresistibile che ci trascina nei pensieri spesso folli dei suoi tormentati protagonisti. Ma l'animosità, la tenacia, la febbre di vitalità che brucia dentro e fuoriesce, sono momenti troppo autentici per non poter venire apprezzati...almeno dal mio punto di vista, opinabile come sempre.
In ogni caso Mommy è un film irresistibile, una montagna russa spericolata di alti e bassi che sono quelli, qui solo un po' inevitabilmente edulcorati e ben serviti, che la vita ci presenta quotidianamente.
Un finale sospeso e splendido che volge al drammatico senza esplicitarlo, non a caso viene opportunamente accompagnato dalle note “agonizzanti” ma ugualmente seducenti di Lana Del Rey nel suo inequivocabile ed appropriato “Born to die”.
Titolo originale Dohee-ya
Regia di July Jung
Con Bae Doo-Na, Kim Sae-Ron, Song Sae-Byeok, Moon Sung-Geun, Jang Hee-Jin
Raramente assistiamo ad esordi così illuminanti, perfetti, dirompenti ed appassionanti.
Il fatto che succeda con un film coreano, mi risulta un caso piuttosto coerente, per non dire scontato, che sarebbe esagerato ed improprio, non fosse attribuibile ad una cinematografia che non perde colpi da anni e non smette di sorprendere. La circostanza che si tratti dell'opera prima di una donna, July Jung, mi rallegra ancora di più.
Storie di donne, soggiogate, apparentemente deboli, ma alla fine solidali e coscienti che la reciproca determinazione potrà da una parte salvarle da una vita di violenze e soprusi, dall'altra da un'accusa ingiusta ed infamante.
Una storia che si dipana come un mistery, che attanaglia il cuore e la mente per la stupidità umana sempre pronta a giudicare armata di preconcetti e pregiudizi vergognosi, il film della Jung ha svolte gialle che aiutano a sostenere una vicenda che ti incolla allo schermo ed è impossibile non seguire con concitata attenzione fino ad una finale teso che tuttavia è in grado di fornire la giusta ricompensa allo stato d'animo turbato del fortunato spettatore che ha avuto modo di goderselo, tribolando e soffrendo per la incorreggibile, universale cattiveria ed ignoranza della specie umana, dall'inizio alla fine. Inoltre il film ha la capacità e l'acutezza di non separare mai nettamente il bene dal male: ogni comportamento racchiude atti di bontà e atti istintivi che nascono dalle personali attitudini e caratterialità: la legge a volte non può giudicare o pretendere di discernere il bene dal male: il film lo dimostra pienamente e questa sua riuscita è la vera ragione che fa divenire eccezionale questo illuminante esordio registico.
Titolo originale Simindis kundzuli
Regia di George Ovashvili
Con Tamer Levent, Mariam Buturishvili, Ylias Salman
Gran film, piccolo gioiello georgiano in lizza per lo stato dell'Est ai prossimi Oscar, è CORN ISLAND, conosciuto e distribuito in Francia col titolo appropriato “La terre ephémère”. Ben quattro anni di riprese per consentire al bravissimo regista George Ovashvili di riprendere la stagionalità che permette, lungo le acque del fiume Inguri, che scorre alle pendici della catena del Caucaso fino al Mar Morto, la formazione di isole di terraferma fertilissima ove alcun contadini locali si insediano per seminarvi il grano, farlo crescere, maturare in tempo per raccogliere il frutto prima che l'isola venga inghiottita nuovamente dalle acque pr formarsi da un'altra parte, magari nelle vicinanze, sempre diversa ma sempre della stessa terra di riporto.
Seguiamo il lavoro concitato di un anziano coltivatore, coadiuvato dalla preziosa presenza della giovane nipote quattordicenne, mentre sul fiume passano continuamente truppe armate delle due fazioni in guerra tra loro, e mentre un disertore in fuga e ferito chiede loro asilo e soccorso, nella piccola baracca al entro dell'isolotto.
Una accorta e suadente regia segue il lavoro dei campi, sorvola e circumnaviga l'isolotto, microcosmo di vita e fertilità, luogo di riparo e di sopravvivenza, almeno finché la natura, l'unica veramente potente ed eterna, decide di riprendersi inesorabilmente tutto ciò che le appartiene, in una scena finale incredibile per efficacia e resa scenica, in cui dall'alto vediamo sfaldarsi letteralmente l'isolotto, che si scioglie velocemente come uno zuccherino un un bicchiere d'acqua bollente.
Un film di sapore neorealista unico, sensazionale, da premiare davvero con l'Oscar.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta