Presenti 19 film. Magnifici.

La summa della mia idea di cinema e della sua capacità di suggestione. La trama è confusa e ibrida, fra visioni del futuro e residui di un passato oscurantista. Il finale dei più improbabili, a essere gentili. Ma le immagini sono quanto di più avvincente la settima arte abbia mai prodotto. Il che spiega perché ancora ci ossessionano, e forse sempre di più. La colonna sonora di Moroder ha compiuto il miracolo di migliorare un capolavoro.

Il cinema si guarda in uno specchio scuro con amore e cinismo, l'eccentricità della fabbrica dei sogni degrada verso l'orrore e la follia. Il tutto racchiuso negli sguardi esagitati di Gloria Swanson, nel crudele masochismo di von Stroheim e nella voce di un io narrante già morto all'inizio del film. Non si direbbe da queste premesse, ma se esiste un film stilisticamente perfetto, è questo.

Un uomo sceglie consapevolmente una vecchiaia solitaria pur di rispettare le convenzioni sociali e assicurare alla figlia un futuro da donna sposata. Una trama banale, come in quasi tutti i film di Ozu, ma banale come solo può essere la vita degli uomini. E Ozu la vita la conosce, altrimenti perché questo film ci commuoverebbe tanto?

L'incessante, incomprensibile furia degli elementi contrappunta i tormenti fisici e psicologici dei personaggi. L'interpretazione di Lillian Gish, carica di orrore inespresso, rende questo uno dei film più inquietanti e straordinari del periodo muto.

Una delle più affascinanti riflessioni sul ruolo dello spettatore di fronte al grande schermo. Per Buster, guardare lo schermo è come guardarsi allo specchio in un'infinita mise en abîme: la vita è cinema, il cinema è vita. Impareggiabile.

Il più grande di tutti i capolavori dell'angoscia. Le ombre del male celate nell'apparente serenità di un mondo innocente prefigurano l'inquietudine delle tragedie del '900. L'orrore assoluto è incarnato da un non-attore il cui nome è tutto un programma (Max Schreck, alla letteraTerrore Assoluto - chi era mai costui?...).

La miseria del quotidiano e l'ineluttabilità della condizione umana, con i suoi pochi splendori e le tante miserie, nell'apologo semplice semplice di una coppia d'anziani che va a trovare i figli nella lontana Tokyo.

Insieme al precedente La palla n° 13, la sintesi della riflessione di Keaton sul cinema, colta da due prospettive speculari: quella del cineoperatore nel primo film, dello spettatore nel secondo. La macchina da presa di Keaton non si limita a riprodurre la realtà, ma - cosa ben più significativa e inquietante -, per certi versi la crea dal nulla.

Un film che trasuda perfidia, nella migliore tradizione di Hollywood in seduta psicanalitica, ma anche un'apologo sulla labilità della condizione umana e delle sue motivazioni. I dialoghi probabilmente più perfetti della storia del cinema.

Gli uccelli arrivano dal nulla, come le più ancestrali paure umane, fanno incursione nelle nostre vite e partono senza un perché, lasciando squarci indelebili. Il capolavoro maturo di Hitchcock, molto liberamente tratto dal racconto di Daphne Du Maurier (da leggere per cogliere le differenze rispetto al film), è un tuffo nell'irrazionale nascosto dietro le presunte certezze del positivismo.

Il melodramma più classico e, in definitiva, una delle possibili risposte alla domanda: perché si va al cinema? Ovvio, per veder scorrere davanti ai nostri occhi delle favole. O meglio degli archetipi, come la storia del brutto anatroccolo che si trasforma in cigno. E se l'anatroccolo ha i tratti e le doti recitative di Bette Davis, il film diventa indimenticabile.

Nessuno ha saputo rappresentare l'angoscia come Robert Siodmak. Le ombre espressioniste avvolgono e turbano, riportandoci a paure ancestrali e traumi infantili. Il male esiste, è reale e si cela in un contesto di finta serenità.

Divertimento allo stato puro, dai titoli di testa con musica di Hermann al rassicurante finale. Ma attenzione a non sopravvalutarlo: in filigrana si annida un sofisticato meccanismo a orologeria, l'opera stilisticamente più compiuta del Maestro.

Assunta Spina non è un precursore del neorealismo. Troppo diversi i contesti storici, troppo diverse le motivazioni. Ma è certo che inaugura una corrente cinematografica veristica alternativa a quella salottiero-decadente nel cinema italiano degli anni '10. Da rivedere e rivalutare.

Uno dei rari casi di titolo italiano migliore dell'originale. Le ombre, vere protagoniste del film, si insinuano nei fotogrammi - tra le stecche di una persiana, nel buio di un giardino tropicale -, rigando il volto dei protagonisti e suggerendone così il lato oscuro al di là dell'apparente urbanità. Come se non bastasse, l'incipit più bello mai visto sul grande schermo.

Un piccolo Hitchcock dalla trama un po' bislacca (e se Miss Froy si fosse limitata a inviare un telegramma?), ma in equilibrio miracoloso tra commedia e mistero. Il classico mistero della camera chiusa si trasferisce a bordo di un treno, la suspense è alle stelle.

Il capostipite del cinema moderno. L'incapacità di comunicare si allarga fino a descrivere il male di vivere e il clima di sospetto che regnano negli esseri umani, precludendo loro ogni via di fuga verso la felicità.

Gli stereotipi del machismo americano fatti a pezzi in un colpo. Semplicemente geniale!

Più passano il tempo e le mode, più si rafforza la consapevolezza della centralità di questo film e del genio del suo autore. Profondo rosso è un film-cerniera nella storia del cinema, non solo italiano: prima, con buona pace di Freda e Bava, non si era mai visto niente di lontanamente simile; dopo, i tentativi di imitazione abbonderanno che manco la Settimana Enigmistica...