Venezia 71 è giunto a conclusione. Il Festival ha mostrato tutte le sue carte e nessun colpo di scena, in base alle previsioni e alle stellette della stampa italiana e internazionale, dovrebbe essere all'orizzonte. I premi verranno svelati stasera a partire dalle 19:00, con annessa diretta televisiva su Rai Movie. Un po' per gioco e un po' per noia, ecco il Leonometro per misurare il grado di possibilità che un'opera agguanti il riconoscimento maggiore.
I film sono elencati per autore e in rigoroso ordine alfabetico.
Fatih Akin si allontana dal suo cinema e diventa mainstream, offrendo un'epopea che a tratti risulta retorica e fin troppo conformista. Con dialoghi spesso al limite del banale, ha il pregio di riportare alla ribalta un tema storico poco esplorato come quello del genocidio armeno e di poter contare su un'ottima interpretazione di Tahar Ramin.
Roy Andersson non può certo essere definito un autore prolifico. Questo è il motivo per cui le sue opere sono considerate alla stregua di un evento. Pittorico e sagace, riflette sull'umanità in 39 capitoli ma presenta anche un filo conduttore a tratti debole e forzato.
Con Andrew Garfield, Michael Shannon, Laura Dern, Tim Guinee, Noah Lomax, Cullen Moss
Ramin Bahrani sta ancora cercando la consacrazione definitiva. Questa volta ha coinvolto in fase di scrittura Amir Naderi e, da iraniani attenti alla contemporaneità, hanno sfornato un dramma sul sistema di recupero crediti bancario, affidandosi a una delle cose più care dell'uomo: la casa. Forte di un cast divinamente in parte, il lungometraggio sembrerebbe essere uno dei prediletti dell'intera giuria.
Con Golab Adineh, Farhad Aslani, Mohammadreza Forootan, Mehdi Hashemi
Il cinema iraniano è diventato un'esigenza, un grido di protesta che spesso i registi vedono smorzato sul nascere a causa della censura e dei divieti imposti dal governo. Rischia dunque grosso Rakhshan Banietemad. Il coraggio, però, non la ripaga del tutto e l'opera sa di già visto.
I francesi sono arrivati in flotta a Venezia, cercando a tutti i costi di essere originali. Xavier Beavouis, belga di nascita ma francese di adozione cinematografica, punta su Chaplin e su un episodio realmente accaduto dopo la sua morte, lasciando gigioneggiare Benoit Poelvoorde. Il film è debole ma gli attori sono in parte, riuscendo a generare inconsapevole malinconia nello spettatore.
Saverio Costanzo offre uno dei titoli più coraggiosi del Festival. A prima vista, ardito e fin troppo espressionista, il suo film ha il merito di infrangere i tabù legati alla maternità, alle ossessioni e al conflitto genitoriale. Sorretto da due ottimi interpreti (entrambi in zona Coppa Volpi), potrebbe rimediare più di un riconoscimento.
Con Romain Paul, Clotilde Hesme, Candela Peña, Grégory Gadebois
La francese Alix Delaporte sceglie la carta dell'intimismo per una storia poco parlata e molto musicata. Il legame con il terzo colpo di martello della sesta sinfonia di Mahler potrebbe aver affascinato Alexandre Desplat, presidente di giuria, ma troppi i luoghi comuni su una malattia come il cancro. Occhio al giovane attore protagonista Romain Paul.
Era indubbiamente il titolo più atteso. Ferrara, invece, si dimostra più sommesso del previsto e confenziona una cronistoria perfetta dal punto di vista tecnico e argomentativo ma deboluccia nel far capire il genio di Pieruti, come in famiglia si chiamava Pasolini. Inutili le polemiche sulla lingua in cui il film è recitato, rindondanti le affermazioni su come poteva essere Porno Teo Kolossal.
Ogni festival ha bisogno di due o tre titoli inutili. Se non fosse per Al Pacino e la sua delicatezza recitativa anche nei panni del disadattato, nessuno ricorderebbe più il lavoro del troppo discontinuo David Gordon Green.
Gli americani sono tutti per Inarritu e la sua riflessione sul mestiere di attore. Nonostante un cast poco usato, la storia vince e convince, così come la sua ambientazione teatrale e il circolo d'arti che innesta. Michael Keaton in odor di riconoscimento.
Altro film francese in concorso, altra delusione. Nonostante l'eco di Truffaut si avverta in continuazione, i Tre cuori di Jacquot soffrono di una delle sceneggiature più banali e incongruenti viste quest'anno. Grande cast sprecato (ma la Gainsbourg ha sempre un suo perché).
Titolo originale Belye nochi pochtalona Alekseya Tryapitsyna
Regia di Andrej Konchalovskij
Con Aleksey Tryapitsyn, Irina Ermolova, Timur Bondarenko
Il lungometraggio di Konchalovskji arriva quasi a fine festival e rimescola le previsioni. Docufiction antropologica e sociologica, ha il suo punto di forza nel reparto attoriale (non professionista), nell'ambientazione esotica e nel tema centrale: l'eterno dilemma arcaicità/modernità. Minimalista, spesso ripetitivo e visivamente d'impatto.
La biografia di Leopardi arriva finalmente sul grande schermo. Martone prosegue la sua rilettura del passato italiano ma la campagna stampa per promuovere il film gli gioca un brutto scherzo: presentato come anticonformista, ribelle e lontano dal solito stereotipo, Leopardi si rivela essere invece molto didascalico e da manuale di letteratura italiana. Immenso Elio Germano, soffre di un eccessivo minutaggio e di alcune cadute di stile evitabili (come la sottolineatura forzata di L'infinito). A detta degli stranieri, manca del tormento amoroso del poeta di Recanati (pochissimo lo spazio alle figure femminili di Silvia e Fanny).
Con Dogan Izci, Ezgi Ergin, Hasan Özdemir, Furkan Uyar
Ha fatto infuriare gli animalisti il turco Kaan (nomen omen) Mujdeci. I combattimenti tra cani sono troppo realistici per essere finti, come il regista ha tentato di spiegare arrampicandosi sugli specchi. La storia, poi, ha una morale appiccicata con la saliva sul finale. Interessante l'uso degli attori non professionisti, tanto che il giovanissimo protagonista potrebbe vedersi riconoscere il proprio talento innato.
La sorpresa italiana è il film di Munzi. Seppur con un prologo fin troppo estenuante (30 minuti pieni per presentare i tre fratelli protagonisti) e un'azione che si ravviva dopo la prima ora, Anime nere conta su una fotografia e una regia impeccabile, oltre che su un reparto attoriale decisamente sopra la media per gli standard del nostro cinema.
Andrew Niccol paga pegno anche per colpa delle cronache che in quetsi giorni leggiamo sui giornali. Impossibile parteggiare per un americano che non si preoccupa dei massacri che porta a termine con i suoi droni ma solo del suo desiderio di voler tornare a combattere su un F-16. Definito dai più "fascista" e sonoramente fischiato in sala stampa, è lontanissimo dal palmares.
Western moderno sullo sfondo dell'Algeria degli anni Cinquanta, l'adattamento di un racconto breve di Camus ha molte possibilità di trionfare. Amato da stampa e pubblico, ha una costruzione classica che è al tempo stesso il suo miglior pregio e il suo peggior difetto. Nulla di nuovo sul fronte occidentale, si direbbe. Ma che potenza gli scenari e gli attori.
Nonostante il plauso della stampa internazionale, il documentario di Oppenheimer sull'optometrista indonesiano che cerca gli assassini del fratello non convince del tutto la giuria. La colpa? The Act of Killing, molto più potente e visivamente interessante. A difesa del regista, interviene però il fatto che The Look of the Silence è stato girato prima ma ha richiesto molta più post-produzione e fondi prima di veder la luce.
Finirà per l'essere l'incompreso di questo festival. Il titolo di Tsukamoto offre, con la violenza delle immagini, un'ottima riflessione sulle follia della guerra e sulle paure che inietta nell'animo umano. Le immagini, un continuo destreggiarsi tra il verde accecante della natura e il nero risaltante della morte, sono indimenticabili.
Con Lü Zhong, Shi Liu, Feng Yuanzheng, Qin Hao, Amanda Qin
La Cina moderna riflette su se stessa e per farlo ha bisogno di rileggere un passato non ancora metabolizzato. Wang Xiaoshuai sfrutta la Storia per costruire un anomalo thriller, in cui non accade praticamente nulla per più di un'ora. Il finale, senza redenzione ma ancor di più colpevolizzante, regala ottime chance alla settantatreenne Lu Zhang di vincere la Coppa Volpi.
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