È la rottura dell'illusione, il contrasto alla trasparenza. Lo spettatore è messo alle strette: "devi guardarmi" sembra suggerire il personaggio al di là dello schermo. Lo sguardo in macchina è il modo in cui il film si rivolge direttamente al suo pubblico, suggerendo, attraverso questo rapporto di natura effimera, di abbandonare il mondo della finzione per interrogarsi sulla natura del legame stesso.
È un dialogo tra due luoghi vicini ma, al tempo stesso, lontani. È il paradosso che, infrangendo l'inganno del cinema, ci mette a stretto contatto con qualcosa di irraggiungibile.
Attraverso questo strappo alla regola, questa rivelazione del trucco, lo spettatore è chiamato in causa e ha così la possibilità, anche se solo per qualche secondo, di sentirsi al centro dell'attenzione e poter scovare i meccanismi segreti di un marchingegno così complesso come quello del cinema.
Questa playlist non è che una piccola scelta: I miei sette camera-look; sette sguardi che, insieme a tanti altri, sono riusciti a penetrare non solo lo schermo, ma anche la storia del cinema.
Con A.C. Abadie, Gilbert M. 'Broncho Billy' Anderson, George Barnes, Justus D. Barnes
Alle origini del cinema, un vero e proprio colpo di scena: un primo piano di un bandito che, guardando verso di noi, ci punta addosso una pistola e spara.
Nonostante Assalto al treno rappresenti, a tutti gli effetti, uno dei primi racconti lineari completi, questa sequenza, posta in conclusione al breve film (11 minuti), sta al di fuori del racconto e, in quanto entità extra-diegetica, ha il compito di stupire lo spettatore, creando un effetto speciale che è, al contempo, uno dei primi casi di interpellazione diretta in un contesto che, senza ombra di dubbio, si stava evolvendo verso una nuova di idea di cinema.
Jean-Luc Godard la definì "l'inquadratura più triste della storia del cinema", e come dargli torto.
Il camera-look di Harriet Andersson, grazie anche al lento sfumare nell'oscurità dello sfondo, è uno degli sguardi più profondi e penetranti della storia del cinema.
Un contatto silenzioso e intenso, fra personaggio e spettatore, che suggerisce un'intimità che va al di là di ogni parola.
Jean-Luc Godard ci mostra che la lezione di Bergman è stata imparata e ben assimilata.
Nel finale di À bout de souffle, Jean Seberg si gira verso di noi e inizia a guardarci, ripetendo il gesto di Jean-Paul Belmondo che si era rifatto, a sua volta, al segno classico del suo eroe americano, Humphrey Bogart (strisciarsi l'unghia del pollice sulla bocca).
L'occhio che interrompe l'illusione e svela la finzione: è la Nouvelle Vague; sono le origini del cinema dello sguardo.
Con Sylvia Bataille, Jane Marken, André Gabriello, Georges Darnoux, Jacques Brunius
È lo sguardo in macchina di Sylvia Bataille che, chiamando in causa lo spettatore, lo rende partecipe dell'evento "esclusivo". La visione di Renoir è moderna: non più un narratore classico ma, bensì, un narratore vicino ai personaggi, che li segue nelle loro peripezie e nei loro incontri segreti.
Il camera-look della Bataille si inserisce proprio in questa innovativa e moderna concezione, andando a creare un contatto privilegiato con lo spettatore, che nel cinema americano non sarebbe mai potuto avvenire.
Il lento incedere di Gloria Swanson verso il suo pubblico (noi) ha fatto la storia del cinema.
Con la sequenza finale di Sunset Boulevard viene a crearsi un intimo e profondo legame tra il nostro mondo e quello della diegesi. La stessa Norma Desmond, poco prima di avanzare verso la mdp, dirà: "Just us, the cameras, and those wonderful people out there in the dark!".
Un'inquadratura che, grazie al suo lento sfumare e grazie allo sguardo penetrante della Swanson, riesce ad unire, al contempo, la grande attrice, la macchina da presa e il pubblico.
Il corpo è quello di Norman Bates; le parole, quelle della madre Norma.
Chi è che, nel finale di Psycho, alza il volto e guarda verso di noi?
"It's sad, when a mother has to speak the words that condemn her own son. But I couldn't allow them to believe that I would commit murder. They'll put him away now, as I should have years ago. He was always bad, and in the end he intended to tell them I killed those girls and that man... as if I could do anything but just sit and stare, like one of his stuffed birds. They know I can't move a finger, and I won't. I'll just sit here and be quiet, just in case they do... suspect me. They're probably watching me. Well, let them. Let them see what kind of a person I am. I'm not even going to swat that fly. I hope they are watching... they'll see. They'll see and they'll know, and they'll say, "Why, she wouldn't even harm a fly..."
2001: A Space Odyssey, prima di essere un film di fantascienza, è una grande riflessione sul gesto visivo. Non poteva essere altrimenti, dunque, il finale di questo capolavoro di Stanley Kubrick: anche lo Star Child che appare nel cielo vicino alla terra, ruotando, punta i suoi occhi enormi su di noi. È l'ultima sfida, l'ultima riflessione che l'autore provoca nello spettatore: il cinema, prima di tutto, sta nell'atto del guardare.
L'inizio è folgorante, musica, Radiohead, comincia la batteria, esplode la musica, stanno 'tosando' il ragazzino per l'addestramento, comincia la batteria e il ragazzino ci guarda negli occhi. Sbam!
Ce ne sono diverse di scene, ma scelgo quella sul finale dove Orlando (Tilda Swinton), ormai donna guarda verso di noi e una lacrima furtiva le solca il viso
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