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“Marlene c'est moi”: l'universo sadico di Josef von Sternberg
di AtTheActionPark ultimo aggiornamento
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“Marlene c'est moi”: l'universo sadico di Josef von Sternberg


Come nota bene Maurizio De Benedictis [1], quel “von” di completa invenzione dà già importanti coordinate sulla poetica sternberghiana. Innanzitutto, implica un'auto-proiezione forte di sé, consapevole e autoritaria. In secondo luogo, conferisce al nome un'aura decadente, al contempo nobile ma irrimediabilmente maudit. Un'assonanza forse non casuale con un altro grande artista della “prima” Hollywood, Eric von Stroheim, di cui Sternberg prosegue idealmente – seppur con le dovute differenze – un'idea di cinema personalissima, eccessiva: decisamente scomoda alle grandi Major. Fu, infatti, nel segno dello scontro che si delineò la parabola artistica di Josef von Stroheim, contrassegnata fin da subito da un celebre conflitto con Charles Chaplin, estimatore del suo primo grande successo, Le notti di Chicago – quell'”Underworld” dal quale, anni dopo, Don De Lillo trarrà il titolo del celebre romanzo omonimo.

Sternberg ha sempre aspirato al controllo totale sul suo lavoro: non permetteva a nessuno di intromettersi. E se ai plot dimostrava sovente un interesse superficiale – spesso, i suoi film venivano accusati di inverosimiglianza -, era soprattutto alla fotografia e all'immagine cinematografica stessa che dichiarava tutto il suo desiderio di controllo. «Non mi piace molto il mio lavoro: si compone di troppe concessioni agli altri e a se stessi» rivelerà non a caso, anni dopo, nella sua autobiografia [2].
 
Ma è attraverso l'incontro casuale con la giovane attrice Marlene Dietrich, in un teatro tedesco - immagine che non può non richiamare il primo film con la futura diva, L'angelo azzurro -, che Sternberg riuscirà a trovare quel corpo e quel volto necessari a plasmare sullo schermo la sua idea di cinema.
Il regista viennese realizza con l'attrice sette film che costituiscono un corpus incredibilmente coerente e coeso: una vera e proprio immersione in quell'universo sadico nel quale il regista forza e piega, a sua immagine e somiglianza, quella che considera la materia passiva: ovvero, Marlene. «La manipolazione non la indigna» amava affermare, «al contrario, ne ricava piacere». Ed è così che l'attrice non solo viene costretta a indossare panni (e personalità) molto diversi da film a film, ma subisce continue – vistose e violente – trasformazioni nel corso di uno stesso film. Emblematica è, allora, la celeberrima sequenza del ballo “voodoo” in Venere bionda, nel quale, da un deforme corpo di scimpanzé, spunta, poco alla volta, quello della Dietrich. E non è da meno il preciso lavoro di luci sul volto dell'attrice, ad opera del fido collaboratore Lee Garmes, che «comincia con la carezza della faccia paffuta da massaia centroeuropea e si riduce ai connotati di un teschio» [3].
 
Sternberg, dunque, si “accanisce” sul corpo passivo dell'attrice per ricavare l'idea che ha in mente e che lo ossessiona. Non meno ambigui sono i ruoli intrapresi dalla sua donna-feticcio nei film: dalla spia in cerca di redenzione in Disonorata, alla folle donna, pronta a strisciare in mezzo al deserto pur di seguire il proprio uomo, nel celebre excipit di Marocco. Le scenografie, spesso al limite dell'espressionismo, costituiscono un perfetto corrispondente, barocco ed eccessivo, delle situazioni narrate: i fumi e i veli che confondono l'immagine in Shanghai Express – ripresi anche nel tardo capolavoro I misteri di Shanghai -, oppure i vistosi movimenti di macchina che percorrono le fastose scenografie in L'imperatrice Caterina. D'altronde, come scrive James Naremore, quello di Sternberg è davvero un «realm where visible artifice becomes the sign of authenticity» [4]
 
A seguire, i sette film che costituiscono il percorso (e l'incontro) cinematografico tra questo ambiguo regista e la sua indimenticabile musa.

[1] Maurizio De Benedictis, Il cinema americano – Dalle origini ai giorni nostri
[2] Josef von Sternberg, Fun in a Chinese Laundry
[3] Maurizio De Benedictis, idem.
[4] James Naremore, Acting in the Cinema

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