“Un film è come un campo di battaglia. E’ amore, odio, azione, violenza, morte. In una parola, emozione!”
Finalmente Torino ha saldato il debito a suo tempo contatto con Samuel Fuller al quale avrebbe dovuto essere dedicata una retrospettiva nella cornice più mondana del TorinoFilmFestival del 2012 in occasione del centenario della sua nascita, un appuntamento che poi purtroppo non fu onorato e che solo adesso (esattamente in questo mese di febbraio nelle giornate comprese fra il 7 e il 28 – e quindi ancora in corso d’opera seppure ormai agli sgoccioli) ha potuto concretizzarsi e vedere la luce al cinema Massimo grazie al Museo del Cinema.
Chiamiamola pure come vogliamo: “retrospettiva” oppure “personale”. In ogni caso, un’occasione davvero propizia per dare a Fuller una rinnovata visibilità e per ricordare anche qui sul sito, l’indubbia e indiscutibile grandezza di un uomo coriaceo e poco disponibile al compromesso, ma che di compromessi purtroppo ne ha dovuti “ingoiare” molti proprio per essere stato un artista fuori dai canonici schemi imposti dagli studi hollywoodiani che di conseguenza lo vessarono pesantemente in più di un’occasione per cercare di addolcire la sua vis polemica e l’estremizzazione della sua visione sempre dalla parte degli emarginati e dei perdenti, il che gli fece scegliere spesso la strada dell’indipendenza: “oggi lavoro con molta più libertà, perché produco io stesso i film che scrivo e che dirigo. Quando lavoravo per un grande studio, dovevo sempre sormontare i pareri degli altri, i loro suggerimenti, le loro obiezioni. Spesso tutta una serie di compromessi sopravveniva a oscurare l’ispirazione originale. Vi sono molti problemi morali e sociali da superare, perché quelli che si ergono a censori, così come i finanziatori e i critici, vi sfidano a essere un creatore, a tentare qualcosa di originale, e nel contempo manovrano duramente per cercare di costringervi alla loro mediocrità. Di regola i più pii sono i meno dotati. Questi peroratori della moralità sono delle sanguisughe e degli ipocriti, questi manipolatori di scene, di dialoghi e di dettagli sono dei parassiti intristiti che sputano al vento e ci prendono piacere. Hanno uno spirito da fognaiuolo. Scovano porcherie o allusioni politiche dove non ce n’è l’ombra. Scopiazzare qualsiasi film che abbia incassato molto è per loro un’impresa divina davanti alla quale si prostreranno”).
Amato dai registi della Nouvelle Vague (la frase riportata in apertura è – solo con qualche piccolissima variazione – proprio quella che Fuller nei panni di se stesso, pronuncia rispondendo alle domande che gli pone Jean-Paul Belmondo, nel film di Jean-Luc Godard Pierrot le fou banalmente rititolato in italiano Il bandito delle 11), è stato definito ed a ragione, “il più europeo dei registi americani”. Fiero di essere se stesso (non fare i film per i tuoi amici, ma per i tuoi nemici – dichiarò a Salsomaggiore nel 1982), tacciato spesso di comunismo dai fascisti e viceversa proprio per la radicalità imperscrutabile delle sue scelte (qualcuno lo ha considerato anche un razzista – vedi le feroci polemiche che accompagnarono la realizzazione di Cane bianco che negli Usa non fu nemmeno distribuito in sala perché considerato politicamente scorretto) se ne è sempre infischiato delle omologazioni programmatiche, proseguendo imperterrito e spedito per la sua strada senza curarsi troppo dei pregiudizi: “racconto una storia con immagini e suoni, non con dei libelli!” ripeteva spesso quando gli facevano su questo fronte domande troppo impertinenti. Potrebbe piuttosto essere considerato a mio avviso un anarchico, ma di quelli veri, e credo che non gli dispiacesse affatto essere definito così: “adoro gli anarchici” rispose infatti sibillinamente a una domanda nel corso di una conversazione poi pubblicata su La revue du cinéma – settembre 1982, e le sue parole avevano il sapore di una sfida.
Ha avuto poi anche il pregio e l’umiltà di rispettare il lavoro dell’equipe tecnica a sua disposizione senza troppe intromissioni: l’illuminazione non mi riguarda. Non sono un tecnico. E’ cosa che riguarda il direttore della fotografia. A me competono la direzione degli attori, il ritmo, i dialoghi. Troppi registi si occupano di obiettivi, di tecnica della ripresa. Trovo che ciò sia folle e che a queste cose non dovrebbero prestarvi attenzione. A ciascuno il suo mestiere insomma. Io non so quale obiettivo usa il mio operatore, ma quando gli dico che voglio girare così e così, lui mi capisce e sa interpretare ciò che gli chiedo. (…) Penso che un regista debba avere due qualità principali: una intuizione molto precisa dei personaggi e una specie di sesto senso per ciò che con una parola si può definire emozione. Del resto, se vi danno 5 o 8 milioni di dollari, sei divi e un grande soggetto, è chiaro che ne verrà fuori un grande film. Ma non avrete fatto nulla, in effetti e sarebbe persino difficile dire in che cosa è consistita la vostra partecipazione alla creazione del film, risultato finale compreso. Meglio dunque lavorare in economia se si vuole davvero far venir fuori le idee”. Una dichiarazione programmatica la sua, pienamente rispettato poiché ha fatto della “povertà” essenziale della messa in scena la sua cifra distintiva che ha utilizzato per scolpire al meglio con il suo talento, opere spesso incentrate su soggetti altrettanto scabri e lineari ma zeppe di concetti rifiutando sempre la logica del kolossal.
E’ stato inoltre reclutato spesso anche come attore (quasi sempre per piccole ma significative apparizioni), e credo che sia tutt’altro che casuale il fatto che oltre al già citato Godard (e al più conforme Steven Spielberg che lo ha voluto sul set di 1941: Allarme a Hollywood), lo abbiano scelto molti altri registi altrettanto fuori sincrono rispetto all’establishment produttivo di quegli anni come Larry Cohen, i fratelli Kaurismaki, Dennis Hopper (sarà con lui nel suo capolavoro maledetto The Last Movie) o il Wim Wenders delle origini (L’amico Americano, Hammett e soprattutto Lo stato delle cose dove riveste un ruolo importante e ricco di glamour), che contavano evidentemente sulla presenza di questo piccolo grande uomo dal sigaro perennemente in bocca, non solo per dare un valore aggiunto alle loro pellicole, ma anche per tributare un indiretto e giusto riconoscimento alla sua capacità di fare un cinema spesso innovativo e visionario “dentro” e fuori dai generi. (lui li ha davvero affrontati quasi tutti quelli classici, ma trasfigurandoli spesso, ed arricchendoli di inusuali temi esistenzialisti che rendono ancora oggi le sue opere modernissime e universali).
Samuel Fuller dunque: un cineasta a 360° si potrebbe dire: un “primitivo americano”, secondo l’ormai celebre definizione truffautiana, a cui si sono aggiunti negli anni, gli epiteti più fantasiosi, feroci e contraddittori: guerrafondaio , fascista, anarchico, sensazionalista, lirico, apocalittico, schiavo o antagonista di Hollywood, asceta/artigiano o formalista barocco (…) ma anchescrittore, giornalista, sceneggiatore, polemista, conferenziere e conversatore” (da Il Castoro cinema a lui dedicato curato da Valerio Caprara): in ogni caso davvero un personaggio fuori dal comune, la cui volontà, la cui morale, il cui stile (ancora Caprara) “possono essere riassunti nel motto che fu di Allan Dwan: «fare film fino alla morte»”. Narratore anticonvenzionale critico verso ogni ideologia, Fuller è riuscito sempre e per davvero (anche nelle opere più corrive o tartassate) a offrire ottimi spunti di riflessione allo spettatore, e soprattutto a stupirlo con la forza delle sue storie originali esaltate da immagini mai convenzionali.
Ma andiamo per ordine: nato a Worchester, Massachusetts il 12 agosto del 1912 e morto a Hollywood il 30 ottobre del 1997, Fuller ha avuto una vita lunga e piena di movimento, fin dagli anni degli studi (e quindi dalla sua prima adolescenza), quando dopo la scuola già lavorava nei giornali prima come strillone a Boston, e poi dopo la morte dei suoi genitori e il conseguente trasferimento a New York, come fattorino tuttofare al New York Evening Journal agli ordini di Arthur Brisbane, dove si trovò poi ad occupare il posto di “cronista di nera” ( periodo che rievocherà in Park Row del 1952). Il giornalista (insieme a quella di scrittore di romanzi criminali che prendevano spunto dai suo reportages) fu quindi la sua prima effettiva professione (anche formativa). Sviluppò così la sua personale capacità di comporre storie attraverso una scrittura strutturata anche abbastanza originale, capacità che trasferì poi nel cinema semplicemente cambiando mezzo e tecnica d’espressione.
Prima di arrivare alla regia, fu costretto però a fare direttamente i conti con la Storia (quella con l’esse maiuscola) che lo costrinse a fare un’altra esperienza molto dura ma fondamentale per la sua successiva carriera. Mi riferisco a quella della guerra da lui vissuta in prima persona nel primo reparto di fanteria che lo portò direttamente al fronte, il “Grande uno rosso”, insomma, drammatica esperienzache raccontò poi in quel memorabile lungometraggio girato nel 1980 (che deve essere annoverato fra i suoi capolavori assoluti) interpretato da Lee Marvin.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, con il grado di caporale, Fuller si trovò così a combattere in nord Africa contro Rommel , ad essere parte attiva nella liberazione dell’Italia e nello sbarco in Normandia, per arrivare poi battaglia dopo battaglia, fino in Cecoslovacchia dove la sua guarnigione fu fra quelle che posero fine agli orrori del campo di concentramento di Falkenau (ora Sokolov).
Se non fosse altro che per questo, la sua si potrebbe davvero definire una vita da film poiché appena poco più che trentenne aveva gia accumulato talmente tante esperienze tragicamente avventurose, da poter riempire molti carnet dei suoi ricordi (che si ritroveranno poi in molte delle sue opere migliori). Il contatto con il cinema c’era già stato in effetti già negli anni ’30, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, ma era stata una parentesi molto marginale (impegnato nella stesura di una decina di soggetti e sceneggiature poi realizzate da altri.) Fu però solo al termine del conflitto che poté finalmente approcciarsi alla regia, sia pure in produzioni con bassi budget (che per lui non erano un problema visto che “girava” piuttosto velocemente.). Solo dieci giorni durarono infatti le riprese di Ho ucciso Jess il bandito che nel 1948 fu la sua opera d’esordio (ma dove già riuscì a dimostrare il suo valore il suo inusuale sguardo sulle cose togliendo ogni alone di leggenda alla figura del famoso bandito).
Poi, mentre i soldati erano ancora impegnati al fronte, nel 1951 fu il primo ad occuparsi del nuovo conflitto asiatico che ben prima del Vietnam, stava turbando il mondo (sul quale girò addirittura due opere: Corea in fiamme e I figli della gloria). Il suo percorso però spesso in salita, fu tutt’altro che “rose e fiori” per l’ingerenza dei produttori che lo costrinsero a pesanti compromessi e a qualche posticcio lieto fine imposto dall’alto e a lui totalmente estraneo (come nel western Quaranta pistole girato nel 1957). Spesso però riuscì a dribblarli, facendo passare “mascherandole” da film di genere, opere anticonformiste che trattavano temi anche molto scottanti (la guerra fredda in Mano pericolosa del 1953; la pedofilia ne Il bacio perverso del 1964; il razzismo prima ne La tortura della freccia del 1957 che ha per protagonista un soldato sudista che diventa pellerossa, e successivamente nel già citato e incompreso Cane bianco del 1982 in cui si parla di un cane addestrato per attaccare e uccidere i neri).
Merita un discorso a parte poi Il corridoio della paura (1962), apice assoluto della sua intera filmografia, e uno dei suoi film più inquietanti e riusciti dove sono molte le cose che si possono leggere in sottotraccia (ancora il razzismo, la diversità, la fallibilità della mente, il tema dell’infiltrato), una pellicola che - come forse tutti ben ricordano, essendo un’opera miliare della cinematografia di tutti i tempi - parla di un giornalista a caccia di scoop che si infiltra per questo in un manicomio, dove fra gli altri incontra un paziente di colore che si crede membro del Ku Klus Klan, interamente girato in bianco e nero (ma con una sorprendente sequenza a colori) e pieno di scene di grande tensione e di altrettanta potenza visiva (vedi appunto quella del delirio finale). Il tema dell’infiltrato ritornerà spesso nel suo cinema: lo ritroveremo ancora anche nel poliziesco La casa di bambù del 1955, e nel tardo noir La vendetta del gangster del 1961.
Non tutta la sua produzione è presente a Torino, ma la selezione fatta (che privilegia giustamente i sui risultati più esaltanti recuperando però anche qualche perla rara) è assolutamente esaustiva. Di quelle insomma sufficienti a rendere palese la grandezza e la forza espressiva del regista (me ne potranno dare atto se vorranno, gli utenti torinesi che certamente non si saranno lasciati sfuggire l’occasione di confrontarsi con il suo cinema).
La rassegna comprende anche la proiezione del documentario A fuller Life di Samantha Fuller (figlia del regista) di recente produzione (che non ho visto e sul quale non posso quindi spendere parole, se non che si tratta di un’opera in cui nell’ufficio che fu del regista un gruppo di cineasti riunitosi lì per l’occasione (James Franco, Tim Roth, William Friedkin, Monte Hellman) leggono suoi brani autobiografici, mentre Joe Dante rievoca e racconta lo sbarco degli alleati in Sicilia, terra d’origine della sua famiglia).
Filmografia (più o meno) completa del regista:
Ho ucciso Jess il bandito Il barone dell’Arizona Corea in fiamme I figli della gloria Park Row Mano pericolosa (Pickup on South Street) Operazione mistero La casa di bambù La porta della Cina Quaranta pistole La tortura della freccia Il kimono scarlatto Verbotten, Forbidden, Proibito La vendetta del gangster L’urlo della battaglia Il corridoio della paura Bacio perverso Quel dannato pugno di uomini Quattro bastardi per un posto all’inferno (Shark!) La rossa ombra di riata (The Deadly Trackers) – film concluso da Barry Shecher e a lui acccreditato Un piccione morto in Beethovenstrasse Il grande uno rosso Cane bianco Les voleur de la nuit Strada senza ritorno
Visionario e barocco, lucido e “complesso” nelle tematiche affrontate, cinico e pensoso, struggente e sconfortato, critico e accusatorio, è una “contaminazione” mentale progressiva e senza scampo che si trasforma in un “viaggio” senza ritorno nella paranoia e nella follia. Le tematiche sono molteplici ed evidenti (sia esplicite che metaforiche) come quella dell’ambizione sfrenata che inevitabilmente si trasforma in squilibrio psichico, o quella che esternizza la critica alla sconsiderata presunzione di chi pensa di poter “modificare” il proprio destino con il semplice “cambio” (o camuffamento) di una identità anagrafica che consente sicuramente l’acquisizione di connotazioni anche psicologiche diverse, ma non garantisce certo la “salvezza” o l’assoluzione. Non ultime poi, le sottolineature amplificate delle metamorfosi schizofreniche degli internati (una singolare galleria di “personalità contrapposte” ottenebrate dai sensi di colpa o scardinate così tanto dall’assumere la fisionomia del persecutore, anziché mantenere quella del perseguitato, che va dal reduce della guerra di Corea che ha subito il lavaggio del cervello e crede di essere un generale sudista, allo studente universitario nero diventato pazzo che si crede un membro del KKK, gira incappucciato e va alla a caccia degli “sporchi negri” come un qualsiasi altro aderente della setta, inalberando cartelli razzisti, fino ad arrivare allo scienziato nucleare regredito a una condizione di totale infantilismo) che in qualche modo aiuteranno il protagonista a scoprire la verità, ma lo porteranno con maggiore accelerazione, a perdersi a sua volta e in maniera sempre più irreversibile nei meandri oscuri del proprio subconscio angosciato. La distorsione paradossale che diventa un vero e proprio universo parallelo con il ribaltamento della realtà oggettiva di quella che viene considerata la vita “normalizzata” all’esterno della gabbia, è l’intuizione straordinaria (o la cartina di tornasole) che permette di innescare rendendolo plausibile, il contorto groviglio che si stringe come una morsa intorno al protagonista e che ci fa percepire in maniera persino tattile quel suo lento e inesorabile precipitare nel disfacimento progressivo dell’equilibrio che diventa un vero e proprio disturbo della personalità.
Samuel Fuller con questo suo film covato per trentenni , travasato prima in un romanzo e finalmente approdato in un film di rara potenza anche drammatica che solo di recente abbiamo potuto vedere nella sua integrità, esattamente come lui lo aveva immaginato, non offre alcuna giustificazione (patriottica, morale o politica) alla guerra: la sua visione intrisa di humor nero è anti-eroica, cinicamente dura e quasi surreale: l’unica gloria in guerra è sopravvivere è l’ultima frase che pronuncia Zed.. Quello che è certo, è che questa volta Fuller mette in scena un vero e proprio incubo infernale dove ciascun uomo è una non entità desinata all’oblio completo, un robot ossessionato dall’istinto dell’autoconservazione (Tavernier-Coursodon). Un film allucinato e allucinante che non ha alcun bisogno di mettere in evidenza dettagli troppo realistici, perché è nella scelta degli “orrori”, e nel mostrare come gli uomini reagiscono a questi, che sta la forza di una davvero brutale rappresentazione della guerra e della sua inutilità: film capitale (…) con i suoi stacchi netti, i bruschi movimenti di macchina, (…) il dettaglio o il primissimo piano usati con infallibile modulazione, il colore striato da cupe luminescenze necrofile (…) che fanno comprendere quanto grande sia ancora la valenza iconografica di un cinema spoglio di grandiosità ottiche e verosimiglianze documentarie, film-testamento di una corposità spettacolare ottenuta con tutt’altri mezzi di quelli attualmente in voga. (Valerio Caprara)
Con Rod Steiger, Sara Montiel, Brian Keith, Ralph Meeker, Charles Bronson
Il cerchio è chiuso e l’ultima cartuccia della Guerra civile, diventa l’unica speranza di reintegrazione nella storia dei vincitori: scarne inquadrature alla Bierce dei resti di una battaglia che ci mostra un uomo che ne abbatte un altro non per vincere, ma per mangiare e che poi spezzerà tutti i legami con il proprio mondo. Con La tortura della freccia Fuller osserva la storia senza illusioni e ci regala così un’opera magistrale dove l’eroismo finisce per perdere di senso davanti alla crudeltà del fato. Una prova di grande maturità per il regista che gioca da par suo con improvvise concitazioni ritmiche dentro ad emozionanti campi lunghi profusi a piene mani e altrettante intense dissolvenze dilatate che cuciono e raccordano fra loro le varie inquadrature. Qui perdono un po’ tutti: i confederati del sud che vengono sconfitti, gli indiani votati allo sterminio e persino gli yankee che si mostrano sordamente insensibili alle ragioni degli altri, un modo sintetico e concitato di straordinaria comunicatività emotiva, che prova a raccontare come ci si sente “dopo la caduta”, quando a prevalere è solo il naturale e bestiale spirito di conservazione.
Con Jeff Chandler, Ty Hardin, Peter Brown, Andrew Duggan, Will Hutchins
Secondo Lourcelles, il più originale, il più concreto, il più realistico dei film di guerra di Fuller. E questo, nonostante le manipolazioni e le interferenze che hanno provato a ridimensionarlo. L’urlo della battaglia è infatti uno dei titoli che ha subìto più interventi censori da parte della committenza: il montaggio è quello preteso e commissionato dalla produzione (la Warner), tutt’altro che conforme a quello immaginato dal regista (sfortunatamente non ho potuto controllare il montaggio, né occuparmi della musica. Il film è stato montato in modo assai convenzionale e hanno tagliato delle inquadrature essenziali), e anche il finale, pomposo e fastidiosamente epico, è stato imposto dall’alto e si differenzia notevolmente dall’idea di Fuller che avrebbe invece voluto una chiusura più dura e meno trionfalistica in perfetta linea con la costruzione di un racconto che sembra un canto funebre sui limiti fisici e mentali della resistenza (e della sopportazione) umana.. Una sinfonia del massacro che ingigantisce i propri orrori nel martirio collettivo della truppa impegnata in un’impresa assurda che favorisce l’insorgere di preoccupanti e concreti sintomi di pazzia e di auto-annullamento. Qui l’allucinazione omicida offusca qualsiasi sentimento e il delirio è totale dentro a un’implacabile progressione di figurazioni necrofile intorno alla grinta feroce di un generale che vuole andare avanti a tutti i costi: fino a quando potete fare un altro passo, potete combattere.
Con Gene Evans, Robert Hutton, Steve Brodie, James Edwards, Richard Loo
Dieci giorni di lavorazione e un budget di poco più di centomila dollari sono bastati a Fuller per realizzare questa dissacrazione estremamente realistica della guerra che nell’immediato fu ampiamente contesta da sinistra e provocò accese discussioni in tutto il mondo a causa della feroce carica di anticomunismo (erano gli anni della guerra fredda e della conseguente contrapposizione fra Stati Uniti d’America e URSS, e si può dunque ben capire l’aria che si respirava). Spente le polemiche, adesso si può invece valutare per quello che effettivamente è ed è sempre stato: un mirabile esempio di film bellico a basso costo molto più interessante e riuscito di tanti kolossal foraggiati con una valanga di quattrini. Attraverso un’enfatizzazione e una reinterpretazione di molti aspetti di quell’atroce guerriglia avvelenata dalle opposte forze propagandistiche, Fuller riesce a rimodellaci intorno il profilo amaro e veemente di un fanatismo spesso irrazionale a partire dalle ragioni che impedivano di leggere le cose nella giusta dimensione e quindi svincolate dalle ideologie. Perfettamente a suo agio nella claustrofobia del mini-labirinto che circoscrive spesso l’azione dentro la foresta avvolta per tutta la prima parte da una spessa nebbia lattiginosa, il regista alterna magistralmente, ritmandole con un montaggio perfetto, azioni parossistiche a lunghe e più “distese” attese. Quello che più sorprende è la capacità di Fuller di utilizzare la tipica ristrettezza di un allestimento in buona parte ricostruito in studio, per realizzare ambiziosi movimenti semplicemente intensificando gli stacchi o privilegiando uno sguardo, una piroetta o una smorfia al posto di molte carrellate sulle truppe in avanzamento e sulle cataste di cadaveri che pure ci sono anche se in misura ridotta rispetto ad altre sue opere, utilizzando al meglio lo spazio angusto dentro al quale si dovevano effettuare le riprese. Abolendo totalmente la retorica, il messaggio che la pellicola sembra voler veicolare (in barba ai detrattori della prima ora che consideravano Fuller un guerrafondaio) è dunque quello di denunciare che la guerra corrompe gli uomini e li rende capaci di cose terribili che non si sognerebbero mai di fare un altre circostanze (non credo alla Convenzione di Ginevra. L’uomo in guerra è una macchina, un animale è unabattuta contenuta nella versione originale ma che fu prontamente fatta sparire dalla versione a suo tempo distribuita nelle nostre sale), il che collocherebbe di diritto il regista (e a qualcuno potrebbe persino apparire ancora oggi come un paradosso) nell’alveo dei critici-vidionari alla Wellman e Aldrich.
Con Barbara Stanwyck, Barry Sullivan, Dean Jagger, John Ericson, Gene Barry
In streaming su Plex
E’un western molto particolare (per più di una ragione leggendario), che si situa fra lo sperimentalismo ancora un po’ acerbo della sua opera d’esordio (Ho ucciso Jess il bandito) e l’essenzialità eroica de La tortura della freccia. La pulsione creativa di Fuller qui è continua e martellante, così come la strategia di ripresa (il che lo rende davvero un film decisamente “visionario”) che si spinge davvero fino ai limiti più estremi del ragionevole con la bruciante veemenza di scelte che abrogano ogni allusività nella brutalità contrastata della fotografia che fa emergere l’indimenticabile e quasi demoniaca figura della Stanwyck fasciata da un abito nero e saldamente in sella a un destriero bianco inquadrata attraverso la canna di un fucile aperto che, mentre cammina, le “panoramica” addosso come fosse una cinepresa (Caprara). Forse la più anarchica fra tutte le pellicole realizzate dal regista basata sull’incontro/scontro di due miti western (la regina della prateria e il pistolero professionista) che conciavano già allora a scricchiolare un poco, utilizzato per proiettarci dentro a una storia zeppa di criminali, traditori e assassini.
Con Preston Foster, Barbara Britton, John Ireland, Reed Hadley, J. Edward Bromberg
L’assassino di Jesse James l’ha tradito per amore di una donna, ma si farà a sua volta uccidere quando capirà la natura più reale e profonda della sua passione, poiché chi amava realmente non era la donna, ma Jesse: ognuno uccide ciò che ama (Oscar Wilde) e anche per il nostro protagonista è proprio così che vanno le cose. Ancora una volta dunque il film si coagula intorno alla scena del delitto compiuto da un uomo che quasi folgorato da una isteroide scarica di violenza e odio, colpisce alla schiena con un colpo di pistola Jesse che è impegnato – come da tradizione – a raddrizzare un quadro. L’ossessione di far fuori l’amico che è strisciante, subdola e inarrestabile, deflagra così in una scena intrisa di ambiguità e sofferenza, che si trasforma in un vero e proprio delitto passionale. Giustamente celebre la scena del saloon, dove un menestrello canta la canzone sull’uomo che uccise Jesse James: E’ stato Robert Ford, quel brutto sporco vigliacco… aveva mangiato il pane di Jesse e l’ha mandato nella tomba… e mentre l’uomo canta il protagonista presente sulla scena, interviene con un digrignante e disperato I am Robert Ford. Il cantastorie smette di suonare ma l’uomo gli impone di continuare; la ballata riprende, irridente, sgranando i versi insultanti di fronte al ‘reietto’. Un’autoflagellazione che prosegue con Ford impegnato a recitare se stesso in una commedia e a sopportare quasi con voluttà le puntuali e parossistiche ingiurie della platea (Valerio Caprara).
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