“Ho bisogno della terra per filmare gli esseri umani” dice Bruno Dumunt. ed in effetti, un impressione che subito si ricava vedendo i suoi film è quella di voler rendere evidente il rapporto di intima interdipendenza che intercorre tra l’ uomo e il territorio che abita, sia con riferimento al fatto che gli stati d’animo dei protagonisti sembrano riflettere la natura morfologica dei luoghi, che in relazione alla constatata e consapevole limitatezza dell’uomo rispetto all’idea del tutto di cui ogni territorio può essere partecipe. Bruno Dumont utilizza spesso i campi lunghi (soprattutto nei primi film), come a voler cingere il particolare nel generale, come a voler far somigliare l’ampiezza delle inquadrature ad un quadro che fissa l’attenzione sull’imperitura contraddittorietà della natura umana. La messinscena è scarna, volutamente antispettacolare (“bressoniana” si suole dire da più parti), di quelle che inducono a riflessioni sui massimi sistemi senza che ci sia nulla di preparatorio che ne anticipi “trionfalmente” la presenza. Se non un linguaggio cinematografico che mostra di preferir una narrazione ellittica depurata da ogni indebito stilema convenzionale, più tesa a registrare i silenziosi vagiti dell’anima che a dargli un senso preciso attraverso l’uso della parola. Tutto è lasciato alla lenta liturgia del necessario, all’essenzialità dell’atto in se e del momento in cui si compie, mostrandoci un nulla apparente per riflettervi il lato più disperatamente legato alle sorti dell’umanità tutta. Si avverte la presenza di una forte sensazione di incomunicabilità nel cinema di Bruno Dumont, ma anche di un sentimento compassionevole che però ha poco di consolatorio. Credo che la poetica di Bruno Dumont si componga di una forma materica ed una sostanza spirituale : da un lato abbiamo la cruda rappresentazione della realtà che si compie, con dei corpi che appagano in maniera del tutto istintiva i propri bisogni fisiologici ed altri catturati dall’abitudine a farsi la guerra, volti invasi dalla noia e dall’incomunicabilità e la nuda terra (ci troviamo quasi sempre nella regione delle Fiandre) restituitaci nel suo valore ancestrale ; dall’altro lato, invece, è come se tutto fosse attraversato da un alone di intrigante mistero, ricondotto alla sua portata mitica e speculativa, dove il bene e il male il bello e il brutto il giusto e l’ingiusto, non vengono sottoposti ad alcun giudizio di valore morale. Per l’autore francese ogni particolare diventa mistica dell’universo, ogni segno la prova tangibile che solo occhi disabituati al mistero non sanno cogliere quanto di mistico e contraddittorio insieme si compie nell’ordinarietà di ogni santo giorno. Al cinema tutto questo può essere rappresentato, “solo al cinema possiamo accettare una mistica eretica (lorebalda). E Dumunt lo riconduce alla semplice eccezionalità dello sguardo. Per concludere, (con quanto già scritto altrove) mi sembra che Bruno Dumont sia interessato all’uomo inserito nel disegno dell’universo e che riflette questa cosa muovendo dalla problematizzazione di moventi spituali svincolandosi dalla categoria "del religioso". Questo aspetto fondamentale della sua poetica, unito ad un rigore stilistico protratto con coerente essenzialità formale, genera più di qualche assonanza con autori quali Carl Theodor Dreyer, Ingmar Berman e Robert Bresson. Ora, se pure non arriva ai loro esiti artistici, credo si possa dire che Bruno Dumont ne ha saputo “attualizzare” taluni assunti concettuali con una tale efficacia cinematografica da meritarsi l’attributo di autore importante nel panorama del cinema contemporaneo. Per ulteriori approfondimenti sul cinema di Bruno Dumont, vi rimando alla bella playlist di joseba,"Dall'epilessia all'estasi : il cinema concreto e mistico di Bruno Dumont".
Con David Douche, Marjorie Cottreel, Geneviève Cottreel, Kader Chaatouf
"Volevo scrivere e dirigere una vie de Jesus che interessi i giovani. Ho cercato di trovare qualcosa che sia vicino a loro senza ossessionarli con discorsi moralistici". E' la crisi dell'umanesimo quello che interessa Bruno Dumont (qui al suo esordio). Una crisi che si fa specchio dell'anima.
Con Emmanuel Schotté, Severine Caneele, Philippe Tullier, Ginette Allegre
Pharaon De Winter è capace di contenere nel suo sommesso dolore tutta la sofferenza del mondo. A ognuno reca un segno della sua compassione, lui, che di compassione ne avrebbe bisogno più di tutti. Un corpo in stato d'attesa.
"L'uomo e il contesto. Hanno sfoltito la siepe di Leopardi e dietro non c'era nulla" (EightAndHalf). L'aridità della terra è la secchezza dei sentimenti.
Con Samuel Boidin, Henri Cretel, Inge Decaesteker, Patrice Venant, Jean-Marie Bruveart
“Filmandole, le Fiandre restituiscono una parte dell’esistenza umana”. Le parole sono mute in questo film, e la guerra si prende tutto il resto. Un invito alla compassione senza recare pietà.
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