L'arte, la vita. Forse sono espressioni troppo vaghe, sfuggono via e difficilmente si fanno riacchiappare. Scappano l'una dall'altra, turbolente e menzognere, si lasciano una scia dietro. Cosa vuol dire che l'Arte sia contraria alla Vita? Impossibile ammetterlo, necessario crederlo: l'Arte serve alla Vita. Ma l'Arte "rappresenta" la Vita? Se anche la rappresentasse, sarebbe riproposizione di una Vita sinceramente (ri)vissuta o sarebbe una mera ricostruzione? Necessariamente, una ricostruzione: l'Arte non può e non deve cogliere la profondità della Vita, l'abisso di incomprensione di ogni nostro singolo giorno, forse poco o forse un molto ricostruito, a sua volta, da noi. La Vita è realmente vissuta quando ce ne scordiamo, quando non è più oggetto di riflessione, forse quando la riflessione non c'è più o quando la riflessione non riguarda i massimi sistemi: la Vita è il trascorrere emozionante o pedante dei giorni, l'alternanza di umori, lo splendore dei dettagli, gli sguardi delle persone amate, i profondi paesaggi, urbani o campagnoli, che si vedono dalla finestra. La Vita è un insieme di impressioni accumulate sotto un solo nome, un rincorrersi di sensazione uditive, visive, olfattive, gustative e tattili che si rielaborano, e che appena si pensano ci fanno ricadere nell'immenso labirinto della nostra coscienza: stiamo vivendo? In questo momento, sì. Ma pensare la Vita è distruggerla, non è arricchirla, perché se sappiamo di stare vivendo, è come non farsi più trascinare dal naturale divenire. La Vita diventa oggetto, la Vita si svuota. E' un immobile corpo, dorato ma chiuso, sigillato dai lucchetti del nostro raziocinio filosofico, dalla nostra ragione (nel senso kantiano del termine): la Vita si ferma. Cosa avverrà poi? Nulla, entriamo nel limbo del ragionamento, in cui la Vita diventa un insieme di conclusioni, di argomentazioni e di pensieri, fino a una nuova conclusione, più sbagliata o più giusta della prima, sicuramente più appagante, nel limbo del ragionamento. Là fuori la Vita ci aspetta, nel suo immenso divenire. L'Arte cos'è? L'Arte è trasmettere quell'attimo in cui la Vita è sigillata in un contesto, in una costruzione umana. L'Arte può evocare ciò che ti può essere utile nella Vita, ma in un secondo momento. L'Arte non è evasione, l'Arte è una prigione di gioiosa perdizione, in cui la Vita si arricchisce di significato, in quanto concetto ma non in quanto evento materialmente/istintivamente vissuto. L'Arte è la capacità infinita dell'uomo di bloccare la Vita nel suo attimo più innaturale, è la funzione stessa dell'uomo onnipotente. Ma quasi come un Totò Merumeni che si nutre di erudizione e di poca vitalità, così forse chi Vive davvero non può apprezzare l'Arte. Gli uomini di fronte a un quadro sono morti viventi, corpi svuotati dell'anima, pensieri vaganti, non più in Vita, momentaneamente. Gli artisti sono morti viventi che riescono a riattaccarsi al loro corpo per indirizzarlo dove loro vogliono. Cosa comporta la filiazione di un'opera d'arte? Imitazione? No, l'Arte non è semplice utilità. Appagamento? Sì, ma di quale tipo? Morale? No, o almeno, non le vere opere d'arti: solo se ci vogliamo fermare all'edificante. Esistenziale? Forse. Perché l'esistenza è l'unico comun denominatore fra l'Arte e la Vita. Quindi si crea una distanza fra l'Esistenza e la Vita: l'Esistenza è un grande insieme, la Vita è un puntino al suo interno. E l'Arte? Lei percorre lo strato lasciato vuoto, raggiunge i confini dell'Esistenza, in cui l'essere umano non ha più ragion d'essere, e tutto perde di materialità, di corporeità, di raziocinante significato. Il godere dell'Arte: atto distante dalla Vita, atto più vicino possibile all'Esistenza. Trascendenza. Se vogliamo, possiamo rendere volgarmente utile quell'Arte alla Vita, ma certe cose rimarranno fuori, certe cose saranno più alte della Vita, certe cose evocheranno, necessariamente, la Morte. La Morte è la calamita che unisce Arte e Vita? Non ci è dato saperlo, saltelliamo al di qua e al di là del confine come se ci sparassero ai piedi nel più vecchio film western. Intanto, distratti, la Vita passa, e forse, con la Morte, ci disperderemo nell'Arte stessa. Speranzosi di essere "artisticamente" invasati. La Vita, a cui noi siamo più consoni, è la parte più piccola. L'Arte ci ha dato lo sguardo su ciò che non dovremmo vedere, l'Arte è tracotanza, l'Arte è onnipotenza. Il Cinema è la maniera più totalizzante di comprendere questo sconnesso saltellìo: da che parte vogliamo stare? Dall'altra parte la Vita è il più piccolo grande cosmo in cui tutto davvero può succedere: compressi fra due eternità.
Perché qui si Muore, si smette di Vivere constatando l'Arte, l'ideale di bellezza evanescente, verso cui ci proiettiamo e ci polverizziamo, come piccoli atomi slegati e chiassosi.
Con Volker Spengler, Janos Derzsi, Erika Bók, Mihály Kormos, Ricsi
La Vita sta perdendo senso, la Morte è ad un passo, lo spesso strato di Nulla avanza. L'Arte mobilita il tutto, e ci rende martiri di noi stessi. Visione del Vuoto.
L'Arte va a caccia, vuole vedere un po' di Vita negli occhi di un uomo nascosto: lo sguardo del Cinema conquista, e riduce la Vita a bricioli di immacolata pietà.
I riflessi mortuali di noi stessi sono fonte di plurime riflessioni artistiche, estetiche, esistenziali: lo specchio della riflessione è il volto della stessa Morte.
Quando l'Arte incontra la Vita, si riduce e si ricompatta dentro di essa, e il Cinema, come anche in La Vie d'Adèle, sa ridursi a misura d'uomo, rivelando che forse il mistero infimo che sta sotto la Vita e uno specchio gioioso della stessa immensa Arte.
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