Sorge spontanea, improvvisa o forse inconsciamente frutto di tante esperienze cinematografiche la domanda se, nell'opera d'arte in generale e non solo al cinema, la catarsi si trovi sempre alla fine. E poi, consiste in un solo momento, magari in una sequenza anche lunga, nella conseguenzialità della musica, nel significato stesso dell'opera? Coincide con la qualità del film? No, può anche essere quel fenomeno proprio dei 'film del cuore'..ma nemmeno, perché ancora esistono film 'catartici' che pure possono essere detestati, perché la catarsi non va solo in un senso. Probabilmente esistono tre tipi di catarsi, quella dello spettatore, quel brivido sopra e sotto la pelle, quella chiarezza improvvisa che ritengo fortunato chiunque sia mai riuscito a provarla; la catarsi del regista, che si lascia andare a una sequenza onirica/epica/musicata dove vuole concentrare il fulcro delle emozioni; la catarsi del personaggio, a cui possiamo assistere più o meno freddamente, perché magari estranea a noi. La divisione in queste tre parti però non esclude la loro coesistenza in stesse situazioni, infatti più tipi di catarsi sono presenti, più la soddisfazione (immediata ma con durature conseguenze) è alta e (in)stabile. Ma allora la catarsi è necessariamente qualcosa di positivo? O è semplicemente 'consapevolezza' in termini emotivi? E' lo snodo di tutte le problematiche o il loro avvolgersi su sé stesse? Nel coacervo di domande che sorgono riguardo un elemento artistico comunque concettualizzabile (e la cui illustrazione più risolutiva ce la diede Aristotele nei riguardi della tragedia attica), lancio la sfida di trovare catarsi soddisfacenti, di trovare catarsi che stanno alla fine o all'inizio del film, di capire se la catarsi "fa" l'inizio, la fine o in generale una sequenza del film stesso. Vengono in mente Salò con la danza finale, Quarto potere con Rosebud, Stalker con la sua pioggia improvvisa, Viaggio a Tokyo poi, uno dei pochi a mettere la catarsi nel mezzo, quando durante una passeggiata sulla riva di un fiume Ozu decide di muoversi e seguire i due sposi con un'emozione semplice che quintuplica quella del finale del seppur simile Cupo tramonto di McCarey. E il discorso può continuare all'infinito, sempre affermando, chiaramente, che non tutti i film sono capaci di portarla in scena e di destarla, ma lo sono stati addirittura delle serie televisive (il finale di Six Feet Under di Alan Ball). Eppure mi sembra importante, in un cinema attuale che sta lentamente chiudendo i battenti della possibilità catartica, ritornare a quella purezza che ancora oggi, nonostante la freddezza tecnica dilagante, riesce positivamente a destabilizzarci.
Forse una scela prevedibile, ma la giostra finale, che è la vita compresa in tutta la sua gioiosa semplicità, è catarsi dello spettatore/del regista/del personaggio, che diventano un tutt'uno, un solo viaggiatore nel ciglio del burrone fra sogno e realtà. Che la catarsi sia espressione di un ragionato ottimismo?
Catarsi di chiunque, gioiosa ma inquietante. Tornare alla violenza che è tornare alla libertà; la tormentata e pericolosa variabilità umana va, anche nella sua portata distruttiva, salvaguardata. Catarsi distruttiva. E anche in troppi film di Kubrick la catarsi esplode invadente e meravigliosa.
Controproducente e pericolosa la catarsi di Faust, che pensa di capire e di comprendere, si lancia cieco all'insegna di una ragione che per lui è tutto nella landa immagnifica e impenetrabile alla coscienza. Catarsi convinta e ostentata. La ragione è un illusione che il cinema non può e non vuole cogliere.
L'abbraccio e la leggerezza, perdere il peso corporeo per immergersi nell'inconsistenza del sogno, del cinema allo stato puro. Ricordiamoci che catarsi vuol dire purificazione.
Catarsi antispettacolare e asimmetrica, il semplice gesto, com'era in Rosetta il gesto del ragazzo che l'aiuta ad alzarsi, di aiutare la propria (supposta) nemesi. La realtà è squallidamente densa di catarsi.
Con Preben Lendorff-Rye, Henrik Malberg, Birgitte Federspiel, Ann Elisabeth Rud
Il cinema ci mostra il miracolo, stupefacente ritorno della potenza dell'uomo che riesce ad illuminare l'esistenza, con l'arte e con la vita. Magari non il miglior film di Dreyer, ma il suo finale è apoteosi dei sensi, della ragione, del sentimento.
Forse la forma più probabile di essere felici e rendere felicità la propria rassegnazione (Il vento di Victor Sjostrom). Se poi quello stesso Sjostrom percorre la sua vita e la rivive nel confronto generazionale, nei ricordi e negli affetti infiniti, bacia la nuora su un letto che forse è di morte e ricorda un semplicissimo promontorio al suono di un cembalo, allora si è purificato e ha riconsegnato alla sua vita tormentata l'attimo della semplicità. Immenso.
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