Il diminutivo e' d'obbligo e non certo per sminuire una rassegna romana che sulla carta gia' si forgiava di titoli ed autori interessanti, lasciando, quasi come di consueto, il nostro paese ad essere rappresentato da apprezzate nuove leve (giusto o sbagliato che sia). Vacanzine piu' chenaltro perche' la mia permanenza romana (la seconda dacche' esiste la manifestazione, e ad otto anni dalla prima edizione) ha potuto avvalersi di soli tre giorni di festival e dunque questo incompleto resoconto si riferisce solo a 11 pellicole che ho avuto modo di visionare, sempre un po' di corsa come e' ormai mia abitudine durante le mie sempre piu' frequenti indigestioni festivaliere. Un festival che gli abituali frequentatori - soprattutto quelli delle feste e dei banchetti, incrociati per caso rigorosamente fuori delle sale, magari negli autobus elettrici gratuiti messi a disposizione lungo il sinuoso percorso cinematografico che diviene la via crucis dei cinefili - definiscono, armati di un convincente sguardo un po' deluso, come un po' sottotono: caratteristiche e sensazioni che in verita' poco mi toccano dato che gossip e festeggiamenti mi hanno sempre lasciato piuttosto freddo, disinteressato, al contrario dei contenuti, e cioe' dei film presentati nelle varie categorie. Ecco qui in ordine i film che sono riuscito a vedere e poi l'elenco delle mie sette preferenze: I corpi estranei; Come il vento; Song'e Napule; Tir; Out of the Furnace; The green inferno; I wish; Like father, like son; Blue ski bones; Take five; Seventh code.
Dal gran regista giapponese Hirokazu Koreeda, lo stesso che ho recentemente ammirato in Francia oltrepassando senza vergogna la commozione col meraviglioso Still walking del 2009, Like father like son, reduce dal prestigioso premio della giuria all'ultimo festival di Cannes, fa parte di una mini rassegna che "Alice nella citta'", rassegna ormai storica dedicata al cinema con tematiche adolescenziali, dedica al grande regista, presentando le sue ultime due opere, entrambe pertinenti al mondo dei minori. Quest'ultimo racconta i disagi che devono vivere due famiglie non appena viene comunicato loro che i rispettivi bambini di cinque anni sono stati erroneamente scambiati in sala parto: problematiche morali, sociali e relative alle proprie legittime e ambiziose aspirazioni o al desiderare cose di altri al posto delle nostre. Un tema non nuovo che il maestro nipponico, presente in sala e sommerso di ovazioni, tratta con garbo e districandosi alla perfezione su una materia complessa e tortuosa come quella della scelta (moralmente impossibile da affrontare) se tenersi il proprio figlio donato dal destino o riprendersi quello naturale. Una risposta che ognuno di noi gia' conosce e della quale ricevera' conferma alla fine della toccante intima ma pure cinica storia.
Con Koki Maeda, Ohshirô Maeda, Ryôga Hayashi, Cara Uchida, Kanna Hashimoto, Rento Isobe
Ancora Koreeda, meraviglioso e toccante nel raccontarci la storia di due fratellini separati dal divorzio dei genitori, vittime di una disposizione assurda che li costringe a vivere separati uno col padre e uno con la madre. Mentre alle pendici della citta' dove vive ilvfratello piu' grande un vulcano ricopre (anche simbolicamente) ogni cosa di un pulviscolo grigio e fastidioso, opprimente, il bimbo scopre che una leggenda metropolitana puo' aiutarlo a risolvere il suo problema: basta riuscire a guardare i due velocissimi treni ad alta velocita' che attraversano la vicina periferia mentre si incrociano ed esprimere un desiderio, che questo poi si avvera. Ecco dunque che entrambi si organizzano con i rispettivi amici per incontrarsi e poter far avverare la possibilita' di un ricongiungimento tra i due genitori che di fatto e' proprio impossibile, ma che sancirebbe il reciproco ricongiungersi. Koreeda e' un maestro raffinato e profondo nel trattare i complessi rapporti familiari, quando il non detto e l'orgoglio spingono a creare isolamenti, solitudini ed incomprensioni anche all'interno dello stesso nucleo parentale. Un film toccante e generoso.
Meglio la rassegnazione di una vita modesta in una fabbrica che oggi c'e' e domani chissa', o meglio al contrario guadagnare subito tanto rischiando altrettanto? Ognuna di queste due soluzioni ha un protagonista nei due fratelli Russell e Rodney. Due perdenti onesti e perseguitati da un destino beffardo che solo in un caso si potra' cercare di ricostruire. Il volonteroso Scott Cooper di Crazy Heart ci mostra un nuovo tracciato inquietante della grande America delle infinite periferie industriali e rurali e, coadiuvato da un cast di sole eccellenze, riesce a toccarci con la rappresentaziine della follia della violenza e della disperazione a cui e' impossibile sottrarsi. Bale, Affleck (attenzione: quello bravo a recitare, ovvero Casey), Saldana, un Harrelson da paura (fa letteralmente paura), Whitaker, Shepard, Dafoe, e una periferia che fa davvero da padrona spietata di destini a senso unico.
Scatenati, divertenti, piu' bravi e sanguigni che mai i "Coen de noantri" tornano abilissimi ed e' subito uno spasso. E' sufficiente assistere ai primi cinque minuti iniziali con Carlo Buccirosso scatenato nelle vesti del questore che affronta l'ennesima raccomamdazione permessere certi che il film sara' un divertimento unico. E in effetti Song 'e Napule e' un vulcano di comicita' racchiuso in una commedia poliziesca incontenibile. Da un'idea dell'ormai insostituibile ed affezionato Giampaolo Morelli, qui nei panni coloratissimi del cantante pop-melodico Lollo Love, un thriller poco serio col bravo Alessandro Roja non nuovo nelle vesti del musicista sfigato e il solito straripante Paolo Sassanelli nei panni dell'integerrimo commissario Cammarota, personaggio che meriterebbe una vita cinematografica a se'. Cosi' riuscito e strepitoso da affossare almeno in parte l'altro valido prodotto verace, quel divertente Take five del concorso che tuttavia non raggiunge i ritmi e l'estro dei due talentuosi fratelli vesuviani.
Con Atsuko Maeda, Ryohei Suzuki, Aissy, Hiroshi Yamamoto
Kiyoshi Kurosawa si aggiudica, un po' a sorpresa, il premio alla regia per un film breve che sembra la presentazione di un video clip, quello stesso che quasi alla fine ci travolge e spiazza come una sorpresa straripante e fuori luogo. Un giallo che ha poco tempo per svilupparsi e dunque parte subito veloce e rapido nel sbrogliare una matassa di intrighi spionistici dove il sentimento lascia presto il posto al calcolo economico e alla ricerca di un sosfisticato detonatore nucleare. Una protagonista che e' tutt'altro che la sprovveduta ingenua che ci viene frettolosamente presentata. Due giapponesi sperduti in una Russia cinerea e plumbea che non riserva nulla di buono per nessuno. Un intrigo che sarebbe piaciuto al grande Hitchcock per l'ampio spazio che riesce ad offrire, nell'ambito della durata piuttosto limitata, ad una protagonista che non sparisce mai dall' inquadratura, ma che tuttavia rimane un mistero sino alla fine.
Miglior film neanche tanto a sorpresa, in verita'. Assistendo alla proiezione ufficiale, in presenza del regista e dell'interprete, del direttore Muller, del fresco vincitore di Venezia Gianfranco Rosi e di Giuseppe Tornatore, si percepiva palpabile che un film, piu' efficace che bello, ma comunque molto in sintonia con il linguaggio documentaristico dell' ultimo Leone d'oro Sacro Gra, potesse avere serie possibilita' di risaltare sulla concorrenza. Personalmente non mi trovo molto d'accordo (e quando mai!) con il verdetto della giuria, anche solo avendo visionato solo un terzo dei film in concorso. Tuttavia, almeno rispetto a Sacro Gra, Tir non finisce fuori tema o per perdersi in storie che fanno solo da pallido sfondo all'argomento esposto nel titolo. E le vicende problematiche e complesse di un ex professore croato che sceglie di dedicarsi a fare l'autista perche' solo cosi' riesce a portare a casa uno stipendio di tre volte superiore alla sua magra paga da docente, e' la storia dal sapore verghiano ma dal taglio sin troppo accanitamente documentaristico di umanita' che si sacrifica per una vita che possa essere migliore, sostenendo e sopportando il caro prezzo della solitudine e della incomprensione, terribile ed amarissima quando proviene da quelle stesse persone per le quali si stano compiendo tutti i sacrifici. Una pellicola sulle asperita' della vita che il taglio essenziale ed estremamente realistico di una recitazione che quasi si annulla nel reale, rende ancora piu' drammatica, ma anche piu' debole nella esplicitazione di un sentimento che una costruzione piu' soppesata e descrittiva avrebbero permesso.
Con Zhao You-liang, Ni Hong-jie, Huang Huan, Ying Fang, Lei Han, Tao Ye
Una complessa storia familiare che si dipana lungo un cinquantennio, mentre la Cina passa attraverso la Rivoluzione culturale e Mao, verso prese di posizione che limitano sempre di piu' le fondamentali liberta' di espressione. Una canzone e' la causa di un dissidio familiare che genera una separazione e la ricerca tenace da parte dei posteri per ricongiungere i tasselli di una separazione dolorosa nata a causa di segreti malcelati e vendette anche sanguinose. Una bella ed efficace nonche' seducente ricostruzione del passato, la riflessione dolorosa su cio' che si poteva fare e non si e' potuto portare a termine fanno da contraltare alle ricerche dei posteri nella caotica quotidianita', dove internet rende accessibile ogni informazione, ma appiattisce e banalizza ogni cosa, anche a livello estetico e formale. Non per niente il film appare magnifico nel raccontare i molti e complessi antefatti del passato, e piu' inerme nel rappresentare il vivere quotidiano dell'ultimo discendente che vuole capire e mettere insieme i pezzi di un puzzle che la vita e la storia hanno frammentato sino a renderne impossibile la ricostruzione. Bello piu' per singole immagini che per compattezza stilistica, un film comunque interessante travolto dal caotico e rutilante corso della storia.
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