E’ venerdi pomeriggio, mi trovo ancora al Lido, appena uscito dalla proiezione dell’ultima irresistibile ed amorale fatica di Kim Ki-duk, forse il cineasta più osannato e riverito qui alla Mostra (assieme a Friedkin), nonostante le sue docce fredde di peni mozzati e rotolanti per strada, i suoi amori incestuosi, gli assurdi ma intriganti scambi di organi sessuali necessari a tentare di riformare quell’armonia familiare che invece non è più assicurata scambiando semplicemente gli ordine degli addendi. Percorro il breve tratto che separa la Sala Casinò dalla fermata del vaporetto, supero una vetrina di celebrità che mi si stagliano innanzi come per la celebrazione un addio (così mi piace considerarlo) che spero in realtà si tratti di un arrivederci, e mi dispongo anche mentalmente, arrendevole e con un po’ di malinconia, per l’ultima traversata. Dopo la malaugurata idea di soggiornare a Mestre, così vicina ma così lontana, mi resteranno senz’altro alla mente le tribolazioni dei trasferimenti (oltre un’ora e mezza tra traghetti – anche due a tragitto – tratto a piedi nella giungla di cemento e districandomi nella serpentina perversa dei viadotti orrendi che separa la laguna alla terraferma, e infine l’auto che finalmente in pochi minuti mi riporta nell’hotel invaso di comitive orientali festanti e perennemente entusiaste; tutto il contrario la mattina all’alba per tornare al Lido); ma pure il tramestio del mare sempre lievemente agitato che ti conserva in corpo, a volte anche di notte in quelle tre/quattro ore di sonno profondo ma avaro, quel senso di perpetua oscillazione che crea una sensazione mista di disagio e lieve nausea che in qualche modo riesco a tramutare in un piacevole, o piuttosto nostalgico, ricordo. Per fortuna l’iniziativa generosa di un caro amico, una grande persona (più in senso umano che fisico in verità, eheh e lo dico con un po' di invidia), il vero e unico inviato serio e professionale di questo blog, mi evita per un paio di preziose occasioni queste complicate traversate favorendomi la possibilità di visionare circa 36 (se ho contato bene) pellicole sparse (è proprio il caso di dire così) nelle varie categorie in questi sette giorni pieni di festival. A volte, se non sempre, la passione è il vero cardine e motore decisivo che ti permette di affrontare fatiche o impegni che proprio perché così desiderati, si trasformano in piacere annullando o facendoti tralasciare gli aspetti meno esaltanti e più realistici della questione. Non è mai facile né scontato (soprattutto per me che non amo particolarmente compilare playlist, molto di più leggere quelle altrui) stilare classifiche relative a preferenze, nel mio caso frutto di sensazioni totalmente personali e non certo origine di considerazioni profonde o valutazioni approfondite (non ne avrei avuto il tempo considerata l’abbuffata di 5/6 film al giorno, ammesso che poi io sia competente ed in grado di procedere in tal senso). Però vorrei farlo prima del verdetto ufficiale, includendo peraltro un unico democratico “calderone” tutte le pellicole senza distinzioni o discriminazioni. Tenendo anche conto che questo mio “pastone” omnicomprensivo è certo forte di molti titoli, ma esclude ad esempio almeno sei film del concorso che per varie ragioni non ho potuto visionare. Inoltre, come leggevo già spesso in passato nelle cronache dei miei critici del cuore (la compianta e ineguagliabile Lietta Tornabuoni su tutti), ho notato pure io nelle sezioni collaterali la presenza non occasionale di gioielli rari e preziosi che sarebbero figurati in modo assolutamente pertinente in concorso al posto di opere più blasonate ma incerte di maestri o celebrità un po’ in disarmo o in evidente crisi creativa. In ogni caso ecco qui le mie impressioni ancora a caldo, le mie preferenze del tutto personali e completamente opinabili, ed in alcuni casi (vedi Amelio) sin esageratamente indulgenti, in completa antitesi con le reazioni (a volte inutilmente esasperate, fastidiosamente snob, antipaticamente e supponentemente inopportune nei modi e nella forma) di certa critica che molto spesso si dimentica di come sia un po’ troppo facile e comodo sedersi su un piedistallo e giudicare chi invece ha il compito, certo più complesso, di creare qualcosa di nuovo, bello o brutto che sia.
Con Lee Kang-sheng, Lee Yi-Cheng, Lee Yi-Chieh, Chen Shiang-chyi, Lu Yi-Ching, Chen Chao-rong
STRAY DOGS, il testamento (ma io mi auguro proprio di no…molti altri saranno del parere opposto) di una filmografia che come nessun altra o quasi riesce a testimoniare il lento ma inesorabile angoscioso volgere nel precipizio e nella deriva, dopo che si è perduta ogni sicurezza, ogni agio, e anche gli affetti lasciano il posto ad una crudele indifferenza. Sequenze interminabili che lasciano sgomenti ma sono anche in grado di abbagliarci con una potenza espressiva che si legge nel volto attonito dei disperati protagonisti, che ogni volta silenziosamente intrecciano le loro esistenze tentando invano di porre rimedio ad una disperazione che va di pari passo con la furia degli elementi e la selvaggia incontenibilità di una natura che sovrasta e si riappropria di aree desolate e devastate dall’incuria e dalla trascuratezza umana.
FISH & CAT, ovvero il primo horror iraniano che si ricordi. Un horror invero molto particolare che svia dalle regole più facilmente e sguaiatamente sanguinolente per concentrarsi a preparare un lungo interminabile antefatto che pedina maniacalmente una serie di personaggi, tallonati da una macchina da presa che è come il lupo che inquadra la sua preda, la sceglie a fondo tra le molte, cerca di concentrarsi su quella più vulnerabile prima di attaccare ed essere sicuro di avere la meglio. Un assurdo temporale che si ripete e sposta l’orologio temporale indietro anche di solo pochi istanti rende il tutto ancora più accattivante, crudele e sadico. La vera sorpresa di questo festival.
Titolo originale Die andere Heimat - Chronik einer Sehnsucht
Regia di Edgar Reitz
Con Maximilian Scheidt, Jan Schneider, Marita Breuer, Werner Herzog, Rüdiger Kriese
DIE ANDERE HEIMAT, Karel Reitz torna indietro di circa ottant’anni rispetto al primo capitolo e l’epopea ricomincia. Lo stile è quello che conosciamo e che ci ricorda anche, almeno visivamente e grazie all’efficace ed accattivante bianco e nero, le atmosfere de Il nastro bianco di Haneke con cui condivide la medesima ambientazione rurale e qualche vezzo di colore, peraltro consueto nei capitoli precedenti e che non diviene mai stucchevole anche perché sapientemente dosato. Reitz tuttavia ha una linearità di narrazione che rende veloce anche le quasi quattro ore di epopea della disperazione, amore, sentimento, rivalità tra fratelli e morte che decima famiglie e paesi interi; il miraggio di una terra calda dove “fioriscono le rose anche a Natale” e dove “il sole nasce quando da noi tramonta”. Emozione e cronaca storica si fondono in modo esemplare.
L’INTREPIDO, il film su cui si si sono scagliate le frecce più affilate ed avvelenate, è una favola agrodolce per stessa ammissione dell’autore, cui fa sfondo una realtà che è tutt’altro che inventata. Il degrado odierno in una società che richiederebbe livelli sempre più sofisticati di specializzazione ed invece offre solo occupazioni saltuarie e precarie che non creano professionalità, ma al contrario esasperazione e sconforto. Un eroe involontario, un nuovo “santo bevitore”, imperfetto ma determinato, umile ma che non perde la speranza e rimane un perdente perché non ha saputo né voluto cavalcare l’onda disonesta della classe economica ancor più che politica ora cinquanta/sessantenne che ci ha fatto precipitare nel baratro senza uscita. Per forza i giovani ne escono male, umiliati, insicuri, arrendevoli. In una Milano quasi surreale Amelio dimostra ancora una volta la sua grande intensità di ripresa e una sentita coerente compostezza di scrittura. Cinque stelle forse sono una provocazione esagerata all’opposto, ma tentano di opporsi con determinatezza a chi si indigna e azzanna e quasi certamente non si è mai sporcato le mani, non ha mai preso una zappa in mano, non conosce la fatica fisica se non quella del programma della propria palestra “à la mode”…e a questo punto beato lui, che continui a sognare nel proprio mondo teorico e impalpabile.
MOEBIUS, ovvero Kim Ki-duk spudoratamente senza ritegno, ma proprio per questo coraggioso e determinato, l’unico in grado oggi di far accettare al pubblico le assurdità di una brutalità di famiglia che supera la cronaca più macabra e che invece ogni qualvolta altri registi osano proporla, suscitano solo orrore e polemica feroce. Qui al raccapriccio di peni che schizzano per aria mozzati da lame taglienti, fanno seguito ricerche di nuove forme di piacere con pietre misteriose e coltelli conficcati tra le scapole, nonché la ricerca di nuove armonie familiari senza rinunciare ad un incesto reso indispensabile da uno scambio in famiglia di organi sessuali. Incredibile a vedersi ma ancora più a raccontarsi. Il pubblico, specie quello maschile, si immedesima inevitabilmente e prova dolori cerebrali sufficienti a rendere l’idea di una sofferenza fisica che ci si augura di poter solo immaginare. La grandezza del regista è quella di non suscitare indignazione ma addirittura risate a scena aperta. Un miracolo che pochi altri colleghi sanno ripetere.
THE CANYONS, ovvero il ritorno di uno dei miei registi prediletti, il grandissimo sceneggiatore Paul Schrader, che qui lascia il posto in tale veste al migliore tra gli scrittori più amorali, scandalosi e perversi degli anni ’80, quel Brett Easton Ellis irriducibile ancora oggi nel rappresentare lo stesso vuoto interiore che ha contagiato i figli degli “American Psyco” assassini e approfittatori. Quelli insomma che l’hanno fatta franca e ora si godono il meritato riposo dopo un trentennio di ordinaria disonestà. Noia, gelosia e violenza risolutiva indispensabile per “marcare il territorio” e riappropriarsi di quanto viene sottratto, giustificheranno ritorsioni e persino omicidi che anche stavolta rimarranno impuniti. Ottima regia da “ragazzino” talentuoso al servizio di una sceneggiatura perversa come ormai amiamo e ci aspettiamo da Brett Easton Ellis, furbone dal gran talento. Corpi esibiliti e da sballo, sesso maschile (appartiene a James Deen, un nome un programma, pornostar che si guarda attorno) fieramente esibito in una Mostra che quest’anno è percorsa da una carrellata di membri maschili anche orgogliosamente (e turgidamente) messi a nudo.
Con Diego Peretti, Claudia Fontán, Alfredo Casero, Maria Casali, Eugenia Aguilar
LA RECONSTRUCCION, ovvero come arrivare all’ultimo film da inserire tra i preferiti, avendone a disposizione almeno altri tre molto belli e ugualmente meritevoli di menzione. Indico questo perché è un film piccolo e sottotono, indifeso e timido, scontroso come il suo imponente protagonista, taciturno e fascinoso operaio elettricista, naso importante ed adunco che lo rende ancora più tenebroso. Un uomo segnato da soffferenze e dolori privati che lo hanno portato a vivere alla giornata e a viaggiare costantemente, chiamato in soccorso ovunque per la sua preziosa competenza. Finché a chiamarlo è un carissimo amico di gioventù che, alla vigilia di una operazione rischiosa di cui la sua famiglia non è al corrente, affida a lui le sorti dei propri cari e la sua piccola attività economica ai margini della desolata e magnifica Terra del Fuoco. Un’esperienza che caccerà via l’indifferenza e riscalderà un cuore fino a poco tempo prima pietrificato dal dolore e dall’abbandono familiare. Un film che accende l’emozione dentro lo spettatore poco per volta, man mano che il cuore del protagonista torna a battere regolarmente riportando umanità al suo personaggio granitico e inflessibile. E’ una gran soddisfazione imbattersi quasi per caso in queste piacevoli sorprese.
E "Tom à la ferme" del dotatissimo (riferito al talento, stavolta)ventenne Dolan? E il per metà loachano e per metà americano" Eastern Boys (in realtà francesissimo)? E l'uomo nero, il babau di Miss Violence? E la delicata ma realistica sensibilità di La vida despues? O quella inedita ed inaspettata Gerontophilia di un LaBruce mai così romantico e pudico? Anche loro tasselli preziosi di una Mostra che almeno ha il merito di aprirti la strada su nuove ed inconsuete cinematografie o autori di cui probabilmente si riparlerà ancora.
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