“L’autobiografia è una ricerca inesauribile” (Andrea Battistini, “Lo specchio di Dedalo”, Bologna, Il Mulino, 1990, pag. 15).
“Per colui che intraprenda la rischiosa impresa di ricordare una vita, si tratta di stipulare un trattato di pace e una nuova alleanza con se stesso e con il mondo. L’uomo maturo o l’uomo già anziano che proietta la sua vita in una narrazione fornisce in questo modo una testimonianza che non ha vissuto invano; egli non sceglie la rivoluzione, ma la riconciliazione, e la proietta nell’atto stesso di riassemblare i disparati elementi di un destino che possa sembrargli essere stato degno di essere vissuto” (Georges Gusdorf in “Conditions and limits of autobiography”, 1956, traduzione mia).
L'autobiografia filmica si configura come uno dei generi cinematografici più delicati e rischiosi, perchè c'è sempre il pericolo che l'autore, nel parlarci di sé, dica troppo o troppo poco, che possa cadere nel compiacimento narcisistico o che, per un eccesso di pudore, non se la senta di dire le cose come effettivamente sono andate e ricorra a delle falsificazioni. Comunque, i registi che ricorrono al genere autobiografico non sono quasi mai guidati da un semplice desiderio di dare in pasto al pubblico brandelli del proprio passato o presente, ma sono spinti a realizzare la propria opera da un intimo bisogno interiore, da una sofferta esigenza di confrontarsi con gli altri su un territorio che, anche se apparentemente riguarda soltanto loro stessi, in realtà può venire a comprendere al suo interno anche le esperienze di molte altre persone e quindi avere delle valenze universali, dei contenuti che, partendo dall'Io, si fanno memoria collettiva o cronaca della nostra situazione attuale. Eccone alcuni significativi esemplari.
Collana di episodi girata con stile onirico e visionario con cui Federico Fellini si confronta con la provincia romagnola dei suoi anni giovanili. Funziona sia come critica sociale del regime fascista (visto in una luce sinistra, nonostante che molti dei protagonisti siano ardenti sostenitori del Duce) che come fantasticheria surreale su un mondo ormai scomparso: lo sguardo del regista non cede al ricatto della nostalgia, è molto severo e perfino crudele nella rappresentazione, anche se la poesia di molti brani finisce per imporsi comunque. Pur essendo costruito in maniera rapsodica, con una certa impressione di frammentarietà (e anche un'insistenza a tratti eccessiva su un grottesco riguardante la sfera sessuale e fisiologica, come nelle sequenze ambientate a scuola, oppure un'insistenza caricaturale un pò troppo accentuata in alcune figure di contorno come la ninfomane Volpina), si rivela insolitamente omogeneo nello stile e nelle caratterizzazioni, con diverse sequenze memorabili fra cui mi limito a citare il passaggio del transatlantico Rex, la gita in campagna con lo zio matto e il matrimonio finale di Gradisca. Il titolo è passato in proverbio, e la colonna sonora di Nino Rota è entrata nella memoria collettiva degli spettatori di tutto il mondo.
Con Miki Manojlovic, Mirjana Karanovic, Moreno D'e Bartolli, Mira Furlan
Il film che impose il nome di Kusturica nel mondo, facendogli vincere una meritata Palma d’oro a Cannes. A Sarajevo negli anni Cinquanta il piccolo Malik, in cui potrebbe rispecchiarsi il regista, cresce in una famiglia senza il padre, internato in un campo di lavoro a causa di una divergenza di opinioni con il regime stalinista; Malik passa attraverso esperienze buffe e dolorose, mentre il potere in Jugoslavia viene assunto dal maresciallo Tito. Deliziosa commedia di formazione girata con uno stile “all’antica”, dove appare comunque evidente la lezione di Fellini, offre una lettura assai lucida di un periodo critico della storia jugoslava, attraverso la visione ingenua e sognante di un bambino di otto anni. Importante presenza del mezzo radiofonico, un pò come in "Una giornata particolare" di Scola; il quadro ambientale è assai colorito e molte sono le sequenze memorabili, fra cui le passeggiate da nottambulo di Malik, la scena del ricongiungimento col padre, l'innamoramento di Malik per una bambina che morirà in tenera età e il matrimonio che chiude la pellicola.
Con Mia Farrow, Julie Kavner, Dianne Wiest, Seth Green, Josh Mostel, Andrew Clark
Rievocazione tenera e nostalgica degli anni precedenti al boom della televisione, quando Woody Allen era ancora adolescente e la radio veniva ascoltata in tutte le case d'America. Il regista qui non appare come attore e, certo non casualmente, è la sua voce fuori campo ad introdurci nelle vicende di una famiglia ebraica americana nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, dove uno dei figli (quello coi capelli rossi) viene ad assumere abbastanza scopertamente l'identità dello stesso Allen. E' un'opera frammentata in una serie di aneddoti che risultano quasi sempre gradevoli e divertenti, e che solo di rado si sposta su un registro più drammatico (ad esempio, la trasmissione radiofonica di un incidente in cui morì un bambino piccolo, sorprendentemente simile a quello che accadde in Italia a Vermicino). Fra i tanti personaggi, spiccano almeno la sigaraia di Mia Farrow che dovrà seguire un corso di dizione per diventare un'annunciatrice radiofonica, e la zia zitella di Dianne Wiest, che sceglie sempre i corteggiatori sbagliati, fra cui uno che si rivelerà omosessuale lasciandola alquanto sbalordita. Forse il film non è uno dei vertici di Allen perchè gli manca una vicenda centrale di maggiore consistenza, ma come Amarcord personale del newyorchese funziona benissimo, è fotografato splendidamente da Carlo Di Palma e si giova di un'ottima colonna sonora composta da brani d'epoca.
Con Freda Dowie, Pete Postlethwaite, Angela Walsh, Dean Williams, Lorraine Ashbourne
Il regista inglese Terence Davies rievoca le vicende della sua famiglia prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma, rispetto al precedente “Terence Davies Trilogy” e al seguente “Il lungo giorno finisce”, stavolta non mette in scena se stesso. Il film è diviso in due parti nettamente distinte: nella prima "Distant voices", assistiamo alle vicende di una modesta famiglia operaia di Liverpool, formata dal padre Tommy, dalla madre Nelly e dai tre figli Tony, Eileen e Maisie. La figura del padre, uomo collerico e instabile che spesso mette le mani addosso alla moglie o ai figli per futili motivi, sconvolge la vita dei suoi familiari finché non muore prematuramente. In "Still lives" la presenza del padre è ormai soltanto un ricordo, che tuttavia continua a venire evocato ora con tenerezza ora con risentimento. Le due figlie si sposano, ma mentre Maisie ha un matrimonio felice, Eileen litiga spesso con il marito, che vorrebbe tenerla in una posizione subordinata. I momenti più belli per i protagonisti restano quelli in cui si ritrovano con amici e parenti al pub per chiacchierare, bere una birra e intonare canzoni dell'epoca. La madre Nelly resta sempre l'angelo del focolare, ma le circostanze della vita si riveleranno crudeli perché Tony, poco dopo il suo matrimonio, morirà insieme al cognato in un incidente. Rispetto a "The Terence Davies Trilogy", "Voci lontane" tende maggiormente alla coralità, e infatti il regista lo presenta come il ritratto di vita della classe operaia che ha modellato e formato la sua infanzia. Il film è autobiografico ma allo stesso tempo ha dei contenuti universali, che si fanno memoria collettiva di una società in un determinato momento storico (la working class inglese negli anni Quaranta-Cinquanta), ed è costruito su una struttura particolarissima, senza una narrazione cronologica ma con una giustapposizione di frammenti di storia della famiglia Davies, accostati gli uni agli altri attraverso una serie di quadri o brevi sequenze che sono come le tessere di un puzzle, secondo i processi tortuosi e incompleti di una mente che ricorda.
Con Gaspard Manesse, Raphael Fejtö, Philippe Morier-Genoud, Francine Racette
Il regista francese Louis Malle rievoca un episodio che per molto tempo ha cercato di sopprimere, ossia l’arresto di un suo amico ebreo da parte dei nazisti nel 1944, quando entrambi si trovavano in collegio. Questo episodio, come ci dice la voce dello stesso regista nel finale, a quarant’anni di distanza continua a provocargli un forte senso di colpa, sia perché si sente responsabile dell’accaduto a livello personale, sia perché è convinto che la sua colpa rientra in quella del regime francese di allora, che collaborava notoriamente con i nazisti. Questo forte senso di colpa aveva provocato la rimozione dell’episodio e l’impossibilità di parlarne in precedenza, anche se quelle memorie dolorose erano comunque affiorate, seppure indirettamente, in “Lacombe Lucien” (1974). Meritato Leone d’oro a Venezia nel 1987.
Con Pernilla Allwin, Bertil Guve, Börje Ahlstedt, Erland Josephson, Allan Edwall
Vero e proprio film-testamento di Ingmar Bergman in cui il grande regista svedese rievoca gli anni della sua infanzia, l’attaccamento alla madre e alla famiglia, il nascente amore per il teatro e per lo spettacolo e il duro scontro con il rigore della religione luterana, che nel film è incarnato dal pastore Vergerus, secondo marito della madre di Alexander. Bergman si cela naturalmente nel piccolo Alexander, mentre nella figura del pastore è adombrata la figura odiata-amata del vero padre di Bergman (anche lui un pastore protestante) che talvolta puniva il figlio proprio come Vergerus nel film punisce Alexander. Film-fiume alla “Via col vento”, saga nordica che assomiglia a un poderoso romanzo per immagini, appassionato omaggio al teatro: Fanny e Alexander è tutto questo e molto altro ancora. La libertà narrativa di cui fa prova è stupefacente: si passa da una lunga festa familiare al dramma cupo e ad atmosfere fantastiche, per concludere con un ritorno alla serenità. Tutto appare calibrato alla perfezione, come si conviene ad un film riassuntivo di un'intera carriera: la fotografia di Nykvist tocca punte altissime, ma anche lo stile è di un'ammirevole fluidità, come se il regista avesse anche lui trovato una pacificazione nell'atto della creazione artistica.
Con Philippe Noiret, Salvatore Cascio, Jacques Perrin, Leopoldo Trieste, Marco Leonardi
In streaming su Rai Play
Giuseppe Tornatore rievoca la sua formazione cinematografica in un piccolo paese siciliano negli anni del dopoguerra, quando nelle sale vi era ancora una forte partecipazione da parte del pubblico. Il film è tutto intessuto di un forte sentimento d'amore per la settima arte e assume toni sconsolati quando rappresenta la triste realtà degli anni Ottanta, nel momento in cui molte sale cinematografiche vengono chiuse e il pubblico diserta le proiezioni; il personaggio di Salvatore, alter-ego di Tornatore nella trama, diviene anche lui un regista. Splendida colonna sonora di Morricone, molte scene da ricordare fra cui l'emozionante finale con i baci di molte celebri coppie sullo schermo.
Non ci sono nick associati al tuo profilo Facebook, ma c'è un nick con lo stesso indirizzo email: abbiamo mandato un memo con i dati per fare login. Puoi collegare il tuo nick FilmTv.it col profilo Facebook dalla tua home page personale.
Non ci sono nick associati al tuo profilo Facebook? Vuoi registrarti ora? Ci vorranno pochi istanti. Ok
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta