Tra le varie forme letterarie, la narrativa è probabilmente quella che ha le maggiori affinità con il cinema: da questo deriva l’estrema facilità con cui romanzi o racconti vengono adattati in film di successo da sceneggiatori che possono attenersi, con maggiore o minore fedeltà, alla lettera o allo “spirito” del romanzo di partenza. Tuttavia, c’è una sorta di pregiudizio diffuso, secondo il quale un grande romanzo o un capolavoro della narrativa difficilmente danno luogo ad un capolavoro del cinema. Tanto per fare un esempio, il più grande romanzo storico italiano, “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, è stato adattato diverse volte al cinema e in televisione (da ricordare le versioni di Mario Camerini del 1941, quella di Mario Maffei del 1964, e quelle televisive dirette da Sandro Bolchi, Salvatore Nocita e Francesca Archibugi), ma nessuno di questi adattamenti può davvero competere con la ricchezza e la profondità della pagina scritta. Propongo di seguito alcuni film che, a mio modesto parere, risultano adattamenti di alto livello di importanti opere della narrativa (e non del teatro, a cui si potrebbe dedicare un’altra play); chi vuole aggiungerne altri faccia pure, ma per restare fedele al tema della play, indichi film che ritiene davvero adattamenti pienamente riusciti di importanti romanzi o racconti.
Luchino Visconti è stato un vero maestro del film “letterario”: è riuscito a trasporre in immagini con risultati memorabili opere del calibro de “I Malavoglia” di Verga ne “La terra trema” e “La morte a Venezia” di Thomas Mann nel film omonimo. “Il Gattopardo” rimane, tuttavia, il più emblematico e il più famoso dei suoi film tratti dalla grande letteratura: Visconti si ispira al romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958 e divenuto un vero e proprio caso letterario, traendone un sontuoso affresco sulla classe nobiliare siciliana nel periodo del Risorgimento, all’insegna della massima “affinché resti tutto così com’è, bisogna che tutto cambi”. Nella parte finale si prende qualche libertà con il romanzo, che vedeva la morte del principe, mentre il regista la lascia soltanto intuire durante la lunghissima scena conclusiva del ballo. Il film ha avuto un grande successo internazionale e ha rinnovato anche all’estero l’interesse per il romanzo del Tomasi, acclamato, fra i tanti, anche dall’insigne scrittore e critico inglese Edward Morgan Forster.
“I morti” è il racconto conclusivo della celebre raccolta “Gente di Dublino” di James Joyce, ed è ritenuta una delle più belle “short stories” della letteratura inglese. John Huston ne trasse il suo ultimo film, dall’esplicito valore testamentario: si tratta di un’opera struggente, poetica ed intimista che ci parla di amore e morte, due costanti del suo cinema filtrate in una luce crepuscolare ed elegiaca, con un affettuoso omaggio all’Irlanda, terra dei suoi avi. Essendo un'opera testamentaria, acquista un valore di universalità che pochi film possiedono: è come se il regista volesse mandare un messaggio all'umanità, spronarla ad accettare e ad amare la vita finchè si è ancora in tempo, superare il dolore e confidare nel prossimo. Pur apportando qualche lieve modifica al testo di Joyce, “The Dead è un capolavoro di fedeltà al testo, o meglio uno straordinario modello di lucidità e strategie nel passaggio dalla letteratura al cinema” (Mario Sesti).
Uno dei romanzi più intensi e sconvolgenti di Dostojevskij, nonché dell’intera letteratura russa, trasposto nel Giappone del dopoguerra da un Kurosawa in stato di grazia, anche se poco compreso, stavolta, dalla critica. Si tratta di un’opera dal disegno registico assai ampio e complesso e con uno stile fluido e depurato, centrato sull'essenziale per cogliere la verità interiore e le emozioni dei personaggi; un'opera eccezionalmente generosa e traboccante di umori, che ci propone il ritratto sconvolgente di un uomo, Kameda, traumatizzato dal fatto di essere finito davanti al plotone di esecuzione durante la guerra e in seguito affetto da crisi di demenza epilettica, ma comunque animato da nobili ideali e dal desiderio di aiutare il prossimo senza secondi fini. Impressionante l’interpretazione di Masayuki Mori, leggermente in ombra Toshiro Mifune e notevole la “dark lady” Taeko Nasu di Setsuko Hara, molto distante dalle eroine interpretate dall’attrice per Ozu. Il ritmo è più lento e la macchina da presa più statica rispetto ad altre opere del regista, ma il risultato è ugualmente potente: è noto che Tarkovskij avrebbe voluto realizzare anche lui un film dal capolavoro di Dostojevskij, ma rinunciò dopo aver visto quello di Kurosawa, ritenendo superfluo un altro adattamento.
Con Anthony Perkins, Jeanne Moreau, Romy Schneider, Orson Welles, Elsa Martinelli
“Il processo” di Franz Kafka è un romanzo che, oltre che per le sue notevoli qualità letterarie, è divenuto famoso come capostipite di un intero genere letterario, per l’appunto quello dell’ “assurdo kafkiano”. Pubblicato solo dopo la morte del suo autore e da lui destinato alla distruzione, è una delle opere più rappresentative dell’angoscia provata dall’uomo del Ventesimo secolo. Il film di Orson Welles forse non sarà un capolavoro assoluto come il suo “Citizen Kane”, ma è comunque un adattamento per molti versi rischioso e originale: qui era inutile aggrapparsi alla fedeltà alla lettera del romanzo, ma la fedeltà allo spirito c'è sicuramente, e la si trova nella logica allucinata della narrazione. Lo stile di Welles resta fedele a un barocchismo di derivazione espressionista che anche in questa occasione riesce a produrre meraviglie nell'aspetto visivo del film, a partire dall'uso in chiave onirica delle scenografie della Gare d'Orsay parigina, fino al consueto utilizzo degli obiettivi grandangolari per deformare le prospettive e rendere certe sequenze più simili ad un incubo (ad esempio quella in cui il protagonista va dal pittore Titorelli e viene spiato ossessivamente da un gruppetto di ragazzine). La polemica sulla società disumana e massificata e l'iniquità del potere totalitario resta lucida e non scade nel qualunquismo, concludendo il film con l'esplosione di una bomba che richiama da vicino quelle di Hiroshima e Nagasaki e risuona come un grave monito contro la follia della corsa agli armamenti, assai attuale negli anni sessanta.
Il romanzo di John Steinbeck “The grapes of wrath” (“I grappoli del furore”) è un potente affresco sul periodo di crisi economica conosciuto come Grande Depressione e sul dramma degli agricoltori dell'Oklahoma, che, a causa della povertà, dovettero spingersi a cercare lavoro in California. Uno dei temi principali di questa storia è il passaggio da una civiltà di tipo rurale a quella industriale, con la conseguente trasformazione nello stile di vita da parte dei contadini e il costo del "progresso" forzato a cui essi si devono sottoporre. Il film di Ford ne è uno scrupoloso adattamento ed è un’opera che mostra un impegno sociale raro per un’opera “mainstream” hollywoodiana degli anni Quaranta. Rispetto al romanzo d'origine, sembra che la sceneggiatura di Nunnally Johnson abbia eliminato alcuni degli episodi più crudi e addolcito il finale ma, anche in questo modo, le intenzioni di denuncia che sottendono la trama restano evidenti e colpiscono nel segno. Mirabile la capacità del regista di conferire un rilievo epico e insieme poetico agli eventi narrati, bellissima la fotografia in bianco e nero a forti contrasti di Gregg Toland e straordinari Henry Fonda e Jane Darwell.
Stanley Kubrick si è spesso ispirato alla letteratura, ma talvolta ha scelto romanzi, come “Shining” di Stephen King, “Lolita” di Nabokov o “Barry Lyndon” di Thackeray, che non vengono generalmente ritenuti capolavori dalla critica letteraria. La fonte letteraria più prestigiosa a cui abbia attinto è forse il romanzo distopico di Anthony Burgess, celebre per la sua disincantata riflessione sulla violenza dell’uomo contemporaneo e il suo originalissimo pastiche linguistico con l’invenzione del “nadsat”, un gergo anglo-russo utilizzato dal protagonista Alex e dai suoi Drughi. Il film di Kubrick lo ha reinventato in maniera estremamente creativa, con un uso assolutamente geniale del colore, della scenografia e soprattutto delle musiche di Rossini e di Beethoven, presenti in sottofondo da un capo all'altro della pellicola, ma ha destato molte polemiche per l’audacia di alcune scene con la loro “estetizzazione della violenza”. Ad ogni modo, uno dei film che in assoluto ha più influito sull’immaginario cinematografico degli ultimi decenni, un'opera appassionata e veemente nonostante una certa misantropia da parte dell'autore.
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