“L’ottimismo è la disposizione a considerare la vita in una prospettiva positiva e negli aspetti più belli; tendenza a prevedere, in casi dubbi, la soluzione migliore o più favorevole” (definizione tratta dal dizionario italiano Sabatini Coletti)
“L’ottimismo è il profumo della vita” (Tonino Guerra nei famosi spot dell’UniEuro)
Ho deciso di scrivere due play in parallelo sull’ottimismo e il pessimismo al cinema, scegliendo per entrambe le tendenze film particolarmente significativi; personalmente, stavolta vorrei mantenermi neutrale e non propendere per nessuna delle due visioni (ci sono dei giorni in cui ho molto bisogno di vedere qualcosa di ottimista che mi infonda un po’ di energia, e altri giorni in cui la mia visione si allinea maggiormente ad opere dal “pensiero negativo”).
Chiunque voglia esprimere un parere su questi film, aggiungerne altri o esprimere la propria visione in merito è il benvenuto.
In un’antologia di film ottimisti, il classico di Capra è uno dei primi titoli che vengono in mente. La parabola di George Bailey che, giunto sull’orlo del fallimento economico, vorrebbe suicidarsi ma viene salvato dall’affetto dei suoi concittadini è, prima di tutto, una vicenda dalle profonde vibrazioni umanistiche quasi dickensiane, un elogio della perseveranza e della dignità di ogni essere vivente. Io non ci trovo l’eccesso di melassa o di buonismo che alcuni gli rimproverano, poiché il quadro sociale è reso in termini estremamente problematici da Capra; sicuramente c’è un retrogusto amarognolo, ma il fatto che il vecchio Potter alla fine rimanga impunito non basta certo a giustificare “l’agghiacciante pessimismo di fondo” di cui parla nella sua scheda un Mereghetti fuori strada. Nella parte finale si toccano vertici emotivi che fanno scaturire il pianto più liberatorio della storia del cinema, e da parte del regista c’è senz’altro un elogio appassionato della solidarietà umana e della bellezza della vita.
Con Bing Crosby, Ingrid Bergman, Henry Travers, William Gargan, Ruth Donnelly, Joan Carroll
Seguito di “La mia via” (Going my way), che era stato premiato da ben sette Oscar, sempre diretto da Leo Mc Carey e interpretato da Bing Crosby e Ingrid Bergman. E’ un perfetto “feel-good movie”, un film creato per scaldare il cuore e commuovere il pubblico americano nel difficile periodo del secondo conflitto mondiale. Bing Crosby interpreta ancora una volta padre O’Malley, un sacerdote cattolico canterino e ottimista che cerca di risolvere i problemi dei suoi parrocchiani e che si trova ad interagire con Suor Benedetta, una suora dalle convinzioni religiose più conservatrici, con cui troverà comunque un’intesa. Rispetto al film di Capra risulta più invecchiato a causa di un prevalente registro narrativo fra l’edificante e lo sciropposo. “Le varie sequenze risultano profondamente unite fra di loro da un’ispirazione e da una finalità comuni: mettere in pratica una concezione sorridente della spiritualità e della bontà come catarsi permanente, come rimedio provvidenziale a tutti i mali fisici e morali dell’umanità” (Jacques Lourcelles, “Dictionnaire du cinéma”).
Uno dei primi film ad affrontare la questione del matrimonio interrazziale, ancora spinosa negli anni Sessanta. Secondo Morandini “un classico della commedia a tesi con un copione di William Rose abile, ma anche ruffiano nel suo ottimismo”. Non sarà un capolavoro, a tratti potrà anche risultare un po’ semplicistico, ma rimane un film per molti versi coraggioso: la scena più significativa è senz’altro il discorso finale di Spencer Tracy, bravissimo, alla figlia e al dottore nero che intende sposarla. “La sola cosa che conta è ciò che sentono, e quanto sentono, l’uno per l’altra. Ci saranno cento milioni di persone, qui negli Stati Uniti, che si sentiranno disgustate, offese e provocate dal vostro atto, e queste persone ve le troverete sempre contro, senza un giorno di sosta, per tutta la vita. Potrete cercare di ignorarne l’esistenza, o potrete sentirne pietà per i loro pregiudizi, la stupida bigotteria, il loro odio cieco, le stupide paure. Ma quando sarà necessario dovrete saper stare stretti l’uno all’altra, e fare pernacchie a questa gente!” Ancor oggi commovente.
A mio parere sul tema dell’ottimismo al cinema non poteva assolutamente mancare il film di Zemeckis, divenuto un mito della cultura popolare contemporanea. E’ un tentativo di riscrivere trent’anni di storia americana visti con gli occhi di un “idiota di genio” che, senza rendersene conto, cambia la storia e il destino di molte persone attorno a lui, con un messaggio positivo per cui chiunque, per quanto poco intelligente o poco dotato da Madre Natura, può contribuire ad un cambiamento significativo della società in cui vive. E’ un film coinvolgente e ricco di emozioni, nonostante l’ombra di un certo moralismo che si avverte ad esempio nel triste destino riservato a Jenny, fidanzata mancata di Forrest, a cui viene riservata una morte per AIDS dopo una vita passata a fare la ribelle. Zemeckis mette a disposizione della storia di Forrest un notevole virtuosismo tecnico creando il nuovo prototipo di “feel-good movie” per il pubblico degli anni Novanta. Frasi mitiche: “Stupido è chi lo stupido fa” e “La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”.
E’ un film sfortunato, che in America è stato accolto in maniera molto fredda sia dalla critica che dal pubblico, ma che meriterebbe senz’altro una riconsiderazione, pur non essendo certo privo di difetti. Il regista Cameron Crowe compone il suo personale inno alla vita con la storia di Drew Baylor, un designer di successo che, in un giorno fatale, perde il lavoro, la fidanzata e viene informato dell’improvvisa scomparsa del padre. Mentre si reca in aereo dalla famiglia per partecipare ai funerali, Drew incontra Claire, una ragazza un po’ bizzarra che decide di guidarlo nel suo viaggio di ritorno a casa e, nel frattempo, gli insegna cosa significa vivere ed amare. Molto bella la parte finale in cui Drew viaggia in macchina con l’urna delle ceneri del padre, che sparge a poco a poco in alcuni posti significativi. E bella la conclusione in voce off di Drew “Nessun vero fiasco è mai derivato dalla mera ricerca del minimo indispensabile. Il motto delle forze speciali dell’aeronautica britannica è: chi osa, vince. Un piccolo germoglio di vite è in grado di crescere anche nel cemento… Il salmone del Nord-Ovest del Pacifico è pronto perfino a morire per la sua ricerca, viaggiando centinaia di miglia controcorrente con un unico scopo: il sesso naturalmente, ma anche LA VITA”.
Tratto da una storia vera. La piccola Helen Keller è una disabile cieca e sordo-muta con notevoli difficoltà nella comunicazione, soggetta a esplosioni di collera e aggressività. La sua famiglia non è in grado di educarla in maniera adeguata, così si rivolgono ad un’istitutrice, Anne Sullivan, che in passato era stata anche lei cieca. Anne si rivela una persona di grande tenacia, piuttosto testarda nel non voler cedere alle pressioni di Helen, nel volerla educare per farne una persona migliore, pur di fronte ad una grave disabilità. La sua è una battaglia estremamente difficoltosa, in cui si ostina a voler far passare la bambina “dallo stato animale a quello umano, e a fare di lei sua figlia, nel senso più profondo della parola” (Morandini). La scena finale in cui, vicino ad una fontana, Helen pronuncia la parola “acqua”, è rimasta giustamente famosa. “Il suo vero tema non è l’handicap fisico e nemmeno l’insegnamento o la comunicazione, ma il principio stesso della vita e della liberazione: il modo con cui le energie vitali, se abbastanza tenaci, possono vincere barriere od ostacoli” (sempre dal Morandini).
Chiudo con il film di John Waters, che può apparire una scelta piuttosto eccentrica rispetto ai film precedenti. Nella Baltimora del 1962, la grassa Tracy sogna di diventare la star di un programma musicale, il Corny Collins Show, e deve scontrarsi con la protagonista dello show, la più attraente ma perfida Amber Von Tussle. La loro rivalità viene a rappresentare lo scontro fra un'America puritana e reazionaria, nonchè segregazionista verso i neri, e un'America più tollerante e aperta all'integrazione delle minoranze. Dunque un film che, al di là di una satira più leggera ma ugualmente graffiante di alcuni aspetti del costume anni'60, contiene anche una presa di posizione politica e un impegno sociale molto netti e sicuramente inediti per il regista. Nella vittoria finale di Tracy e del volto più liberal dell’America anni Sessanta ho visto un trionfo dell’ottimismo della volontà da parte di Waters, che ha confezionato, comunque, un prodotto assai più « mainstream » dei precedenti, coloratissimo e condotto da musiche trascinanti.
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