L’apocalisse dietro l’angolo, l’incubazione del male, la genesi di mostri studiati in vitro nel loro farsi, crescere e moltiplicarsi, questo è il film vincitore della 62° edizione di Cannes, Il nastro bianco, già nel titolo così asettico, così totalmente dissanguato nella negazione che il bianco impone ad ogni sospetto di colore e dunque di libero fluire del sangue della vita.
Gelido e tagliente come la coltre di neve che copre il villaggio, abbacinante come i campi che sembrano di ghiaccio anche quando sono ricolmi di spighe, il film è girato in un bianco e nero senza ombre nè calore, il silenzio è la cifra costante, qualche tocco di Schubert e pochi brani da corali a cappella di Lutero non bastano a rompere l’aria rarefatta che si respira per tutta la durata, all’aprirsi di una visione ai confini della realtà, ma che della realtà ci dice molto, dove oggetti, luoghi e persone di comunissima apparenza diventano terrificanti epifanie della totale negazione di umanità.
I ragazzi del villaggio si muovono come automi, ubbidiscono come piccoli soldati a chi esercita sulla loro innocenza originaria il diritto di calpestarla, che sia il pastore, fanatico moralista che affida ai nastri bianchi il segno della purezza, o il medico, pervertito misogino, o la comunità tutta di volti impassibili, ottusi, facce uscite da una tela di Munch, schierate in chiesa a pregare chissà quale loro strano dio.
Un mondo senza speranza, in cui il male è l’innocenza negata che diventa violenza, furia distruttrice, Erinni che sale dal sangue delle vittime e si abbatte sull’uomo.La notizia dell’attentato di Sarajevo e della morte dell’arciduca Francesco Ferdinando chiude il film.
E’ il 28 giugno 1914.
La voce fuori campo che ha raccontato la “storia” ci aveva avvertito che quello sarebbe stato l’ultimo capodanno di relativa tranquillità.
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