Beatrice Romand è un’attrice genuina, una “perfetta donna francese, con gli stessi problemi della nazione”, che ha saputo ‘concedersi’ ad un regista profondo e discreto come lo è stato Rohmer, sviluppando un personaggio (dalla Laura del “Ginocchio di Claire” per finire alla Magali del “Racconto d’autunno) votato al racconto della sceneggiatura, alla sostanza dell’immagine, ma, al tempo stesso, avviluppandolo in un gorgo semantico mai risolto. Sarà stato per i fatti compiuti e a volte tragici della sua esistenza, ma quel volto enigmatico (a metà strada tra il comico della vita, il morigerato sciogliersi nel dramma e l’istinto sensuale che delle due parti ne fa una sola di febbrile attesa) ha potuto con grande semplicità dare movenza di carne e di spirito alle intuizioni del grande regista di Tulle. Se la lezione di Rohmer è stata quella di impegnarsi a ripartire, sempre e comunque, da zero per reinventare l’invenzione del filmare come potrebbe farlo un dilettante (“E’ un amico benvoluto da altri amici, che per fargli gradimento lo assecondano in una leggera ‘ronde’ filmata” ha detto di lui il suo sceneggiatore Barbet Schroeder), il lievito attoriale della Romand è stato proprio mettere alcuni scarti in avanti, alcune nervose, leggere calibrazioni di pudore feroce nelle scene che incardinavano il “solito, meraviglioso poema di calcolo e di grazia” del maestro. Come in un cerchio magico, uno di quei circuiti in netta chiarità d’essenza; fatti di piccoli sentieri di montagna, di leggere sabbie marine, di riflessi d’acque savoiarde o di misteriose schiume atlantiche, casali di campagna tra vigne borgognone. Dare sale e pepe al cerchio eterno della vita e della morte, insomma. “Io non vedevo mai Eric come una sorta di dio, ma come un essere umano”. Oh Beatrice, beata attrice!
...Ovvero, del trasporre la parola grazie all’immagine... I dialoghi del personaggio di Laura, che è colei che nel film attrae e respinge e così facendo prepara la rivelazione del racconto morale, Rohmer li tira fuori registrando ore ed ore di confessioni della giovane attrice. “Amare mi rende selvaggia, intrattabile!”, si apre così una seduta, e da qui prende spunto una sorta di lettura psicanalitica che fa sì che le ‘parole giovanili’ di una 18enne, in preda all’ardore, alla confusione, alla follia della ‘rivolta dei tempi’, possano essere ricostruite quasi, ritornando su quelle labbra come specchio non deformato ma ‘informato’ della vita… E’ la stessa Beatrice che conferma questa impressione: “Eric riusciva a dare nuova forma alle mie parole, dove il nostro discorso appariva diretto, ecco che lui riusciva a trovare l’elemento che sbalordiva, che rendeva tutto meraviglioso per il pubblico!”. Ma riguardatela la piccola, riccia Beatrice mentre punteggia con la spigolosità che è propria dei giovani, il mondo combusto dalle passioni amorose, dai desideri inappagati e dalle fiere menzogne degli adulti! Nella scena del ‘ginocchio’, quando la rotula d’amore si mostra sui pioli della scala in tutta la sua grazia, lei è la custode dell’integrità dei ‘frutti’; difende con fare scostante quelli già colti e cerca di vegliare su quelli da cogliere. Non ama le tergiversazioni, ti buca con un’occhiataccia e ritorna a leggere e sorridere come se nulla fosse…
Con Béatrice Romand, André Dussolier, Féodor Atkine, Arielle Dombasle
…Ovvero, del trasporre la morte grazie alla parola… Quando a Beatrice muore il marito, non ha che 27 anni e la foga di crescere una figlia sulle spalle. Il ‘film del ginocchio’ le ha portato una mezza fortuna; ‘mezza’ perché se il suo nome ha avuto modo di girare nell’ambiente non è che poi la nostra abbia messo su una carriera come si deve. Tanti contatti che contano con autori che potrebbero farle prendere il volo (Chéreau e Polanski, su tutti), ma poi quello che riesce a girare non è roba epocale. Losey la vuole per la parte di Catherine in “Una romantica donna inglese” e Samy Pavel (che qualcuno ricorderà come attore in Italia nei primi anni settanta) in un ruolo secondario nel suo eccellente “L’arrivista” del ’76. Per il resto sono solo delusioni. Appassionata da sempre di fotografia, ha un nuovo incontro con Rohmer che le propone prima di fargli da fotografa di scena per il suo “La moglie dell’aviatore”, e poi, più propriamente, un ruolo perfetto per lei nel suo nuovo lavoro. Perché perfetto? Mah, innanzitutto perché proporre ad una giovane vedova di interpretare un’ambiziosa in cerca di marito, volitiva e presuntuosa, è una sorta di sfida. E lasciare nelle mani di un caratterino come quello di Beatrice, una donna prima che un’interprete che ha fondato in quegli anni la sua cultura personale sulla coscienza di sé (più come donna che come attrice, aggiungerei io), pare proprio una sfida nella sfida. “Un’antitesi di me!”, lo miniaturizza bene il film questa sibillina frase, rubata da una vecchia intervista fatta alla Romand. Il controllo registico di Rohmer possiamo intuire sia stato massimo, raccolto in un voler condurre come un torrente di pianura, fitto di canneti e di anse avvolgenti, tutto il flusso liquido del plot verso l’estuario del contrappasso amaro della vita. Dunque è così che andò; lei riceve un dono, un copione che le impone di lavorare con le parole (una grandinata di parole!) sul silenzio e l’assenza, di superare la morte (la sua inappellabile finitezza) con la tenera vacuità del vivere… “Lui è bello, è giovane, è ricco, ed è libero!”.
Con Marie Rivière, Béatrice Romand, Amira Chemakhi, Sylvie Richez, Rosette
…Ovvero, del trasporre la solitudine grazie alla morte… Tutto in questo film parla di verità, di poter leggere il ruolo dell’uomo su un piano di emanazione di senso. Ci sono varie cosette da dire, ed alcune le dirò. Intanto, Beatrice è Beatrice. Lo scarto si fa ancora più minimo, e dopo il varco ‘spirituale’ che l’ultimo film girato con Rohmer (il suo pigmalione, in soldoni) ha procurato nel suo animo, ecco che una rinfrancata attrice ritrova l’esprit fougueux che ne aveva caratterizzato le prime apparizioni. Bisogna spingere le cose all’estreme conseguenze, dice e semplicemente, per quella parte di racconto che le tocca, magnificamente lo fa. Tutto è così teso, come potrebbe essere inteso in una partitura rohmeriana, verso il cogliere lo splendore naturale delle cose. L’arsenico inebriante di ciò che alla fine si manifesta. Avevano proposto al regista di ‘truccare’ la scena finale in cui i due protagonisti vedono il raggio verde; la “lama di sciabola” che rende intellegibili se stessi e gli altri ma il suo rifiuto fu netto. Era successo che il tramonto sul mare (la morte del sole, l’inabissarsi della luce), era stato girato da Rohmer in 16 mm; gonfiate le immagini a 35 mm si era perso tutto quel principio di alone che poteva anche lontanamente ricordare un ‘ raggio verde’. Alla manipolazione di studio si rispose come poteva rispondere il ‘papà dei Cahiers’. Intruppata la troupe, caricate quelle poche attrezzature che servivano, tutto fu diretto su un ponte proprio di fronte al mare e proprio poche ore prima di un meraviglioso tramonto. La caccia al raggio era così aperta! Fortuna e coerenza artistica vollero che, effettivamente, quella sera acqua, luce ed aria tifassero per il più bel capolavoro di Rohmer; e così vediamo noi spettatori quello che videro loro, autore ed attori. La Romand in questo film è l’epifania della brutalità del vero. Lavora di cesello e di scalpello.
Con Marie Rivière, Béatrice Romand, Alain Libolt, Didier Sandre, Alexia Portal
…Ovvero, del trasporre la vita grazie alla solitudine… Chissà se Rohmer si sentiva solo, dico tra un film e l’altro, un lavoro teatrale e l’altro. Eppure molti giurano che il suo lavoro ‘matto’ sulle idee, sulle immagini, sul montaggio di quella innocenza perversa che trasuda dai pori della sua scrittura e del suo cinema, poneva tra le sue regole essenziali il farsi mancare molto. Anche in termini di vita pubblica, di pubbliche relazioni. Togliere grammi alla vita per giungere a soppesare qualcosa di più grande, magari. La vita stessa, forse. In questo film del ’98 tornano (come prede di quel gorgo semantico a cui accennavo prima), il rapporto da inseguire e che sfugge, lo spazio scenico conquistato con la forza della parola, con una recitazione ‘improvvisata’ magari ma mai ‘provvisoria’, l’ala della morte che sfiora ancora una volta Beatrice. Era successo che la figlia avesse rischiato di morire a causa di un banale incidente, e la nuova intuizione (“geniale” dice qualcuno, “furba” corregge qualcun altro, “maligna” sfiatano altri ancora) di Rohmer era stata quella di rimettere in gioco la nostra Romand a tu per tu con una serie di dinamiche forti: madre-figli, amore-morte, desiderio-rinuncia. E l’attrice risponde come sa a questo richiamo alla ‘commedia della vita’, mutuando dai propri errori la sostanza per arricchire di impercettibili debolezze il personaggio e, allo stesso modo, addolcendo di ariosa umanità le proprie certezze. La dimensione colloquiale con il mondo. “Forse per lui è stato il modo per amarmi, in quanto creatore del mio personaggio e della storia, come una sorta di padre”, dice la Romand ricordando la genesi di questo mirabile ‘racconto stagionale’. Ed il modo, aggiungiamo noi, di regalarci l’immagine più bella della nostra Beatrice, quella che ci sta incollata al cuore; una massa spiritata di capelli in gramaglia che quasi coprono il viso, mentre cura la vigna della sua vita in magnifiche giornate di sole!
Non ci sono nick associati al tuo profilo Facebook, ma c'è un nick con lo stesso indirizzo email: abbiamo mandato un memo con i dati per fare login. Puoi collegare il tuo nick FilmTv.it col profilo Facebook dalla tua home page personale.
Non ci sono nick associati al tuo profilo Facebook? Vuoi registrarti ora? Ci vorranno pochi istanti. Ok
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta