Se qualcuno domandasse dove, oggi, si possa ancora intravedere della “classicità” nel mare magnum cinematografico, probabilmente gli si potrebbe rispondere citando un film di Miyazaki. Ancor più che nel cinema d’animazione statunitense – dove, comunque, vige un rapporto di complicità con lo spettatore di stampo “postmoderno” -, è nell’anime giapponese, e in particolare nel caso del maestro Miyazaki, che si può riscontrare una genuità del racconto, un rapporto con i suoi protagonisti che altri non si potrebbero definire come “classici”. E per classico non si vuole intendere “semplicistico” o, peggio ancora, “d’altri tempi”. Piuttosto, ciò che colpisce, è il modo in cui questi film riescono a giungere allo spettatore (alle sue emozioni, ai suoi sentimenti) senza alcuna mediazione (intellettuale), superando i vezzi più fastidiosi del postmodernismo. Ci è voluto del tempo perché anche l’Occidente accettasse la dirompente classicità (atipica) del cinema d’animazione giapponese. Il più evidente – e giustamente famoso - è proprio il caso di Miyazaki. Il suo cinema rifugge dagli spiccioli schematismi occidentali, rifiutando molte delle semplificazioni che conosciamo. Come scrive Alessandro Bencivenni «spesso, nei film di Miyazaki, mancano di un antagonista, non c’è distinzione netta fra buoni e cattivi e la vicenda non persegue un obiettivo preciso: tutte eresie per la mentalità occidentale…» [Hayao Miyazaki, il dio delle anime, Ed. Le Mani]. Il cinema di Miyazaki raggiunge una perfetta sintesi di cultura giapponese e anglosassone, che, invece di tradursi in un pastiche postmoderno – nonostante molte ambientazioni di suoi film, come Porco rosso, siano proprio dei “pastiche” -, si fa concettualmente classico. Come non poter considerare un classico della contemporaneità un film come La città incantata? ovvero, un racconto di formazione, dalle basi solidamente anglosassoni, ma dallo sviluppo fuori dagli schemi tipicamente occidentali. Il film rinuncia a qualsivoglia ammiccamento allo spettatore (postmoderno), e utilizza tutti suoi mezzi per coinvolgerlo, attraverso uno schema che supera la classicità occidentale: un classico "nuovo". E contemporaneo, appunto. Ma l’animazione giapponese non vive solo della nuova classicità miyazakiana. Numerosi sono gli esempi in cui l’anime affronta temi violenti, complessi, filosofici, con stili a volte nervosi a volte poetici. È il caso di Mamoru Oshii, autore di opere complesse come Angel’s Egg e la saga di Ghost in the Shell. Film dove il racconto cede sovente il passo alla speculazione filosofica ed esistenziale. Oppure il cinema eccessivo e disturbante di Katsuhiro Otomo, autore, tra l’altro, del film-detonatore dell’animazione giapponese, Akira. Un cinema che indaga sulla complessità della realtà e delle sue alternative tecnologiche, come accade nei film di Satoshi Kon. Oppure, ancora, un cinema che affronta di petto la questione della guerra, e i suoi orrori sul mondo dell’infanzia, come nel capolavoro Una tomba per le lucciole. Esistono, poi, film “minori”, ma non per questo meno interessanti, come Metropolis, Tekkonkinkreet o anche il più leggero La ragazza che saltava nel tempo, a tesminonianza di un cinema che, spesso, da noi viene indicato con l’erroneo e semplicistico appellativo di “cartone animato”, ma che, piuttosto, affronta la realtà delle cose con grande lucidità. Non cercando di evitare le questioni fondamentali, o sminuendole, con fare postmoderno, né tantomeno utilizzando lo strumento intellettuale, come nel modernismo. Piuttosto, un cinema importante, profondo e popolare: classico, per l'appunto.
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