Il cinema che riflette sul denaro, e sulle sue capacità corruttorie. Quattro metafore dell’animo umano logorato dal denaro, che diventa una sorta di amplificatore degli istinti violenti (più o meno) nascosti in ognuno di noi.
Con Christian Patey, Caroline Lang, Sylvie van den Elsen, Michel Briguet, Vincent Risterucci
Ne L’argent, ultimo capolavoro bressoniano, il dettaglio di una banconota, stretta in mano ma sempre in movimento, veicolava un chiaro messaggio – trasportato, in viaggio a toccare le vite di molti – attraverso quei piani strettissimi. Un film sul denaro: una visone in nero dell’umanità in mano al (religioso) Bresson; una visione della realtà, se solo si allarga un po’ il campo della morale e se si adatta lo schema, se si esce dalle meravigliose ristrettezze di quelle immagini, e dal narrare metonimico e sineddotico (una mano è un uomo: Pickpocket), si passa in una realtà dominata dalla spietata furia pecuniaria (Così bella così dolce, in fondo già anticipava il messaggio). Ma l’identificazione del male non assolve l’uomo, e non potrà mai farlo; e nel film “di viaggio” di Bresson il denaro è il veicolo del male, ne è forse causa: ma l’uomo la riceve e ne perpetra negli atti ogni brutalità, scatenandone le conseguenze. Se il denaro è la causa, l’uomo ne è la (colpevole) conseguenza.
Con Tilda Swinton, Miroslav Krobot, Volker Spengler
L’uomo di Londra di Bela Tarr/Simenon: l’appropriazione del capitale scatena una serie di eventi, dettati dal caso e dalla consapevolezza che per una volta lavorano insieme, in un gioco di coperture e di ostentazione, che non potrà che culminare nella tragedia.
Con Michael Lonsdale, Claudia Cardinale, Jeanne Moreau, Ricardo Trêpa, Leonor Silveira
Gebo et l’ombre, del “grande vecchio” De Oliveira: ancora un film sul denaro (altrui) e sulla inconfessata (e anche qui colpevole) tendenza all’appropriazione indebita, come se il denaro delle banche, “aleatorio”, fosse di nessuno e dunque di tutti. I poveri che rubano il denaro ai ricchi, ma lo fanno rubandolo (metaforicamente) ai poveri, perché i ricchi non sono sulla scena, sono tanto aleatori quanto il loro denaro, e dunque colpevolmente incolpevoli; la loro colpa è il non esserci fisicamente. Il contabile Gebo registra le entrate e le uscite del denaro altrui, non avendone egli a disposizione. Ancora una volta il denaro è complice del gioco al massacro, causa del male e del sacirficio.
“Che cos’è il denaro” si chiede la protagonista di Pietà di Kim Ki-Duk, film sull’(im-)morale del capitalismo mascherato da film di vendetta (ma Park Chan Wook c’entra ben poco, o solo superficialmente): e la pietà è un barlume, labilissimo, che s’insinua nel danno, nel male, innescato dal denaro, una scintilla in seno ad una mater dolorosa che è vittima, carnefice, e poi di nuovo vittima d’un gioco in cui la moneta è bene primario e fonte di violenza.
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