Va' e uccidi
- Thriller
- USA
- durata 110'
Titolo originale The Manchurian Candidate
Regia di John Frankenheimer
Con Frank Sinatra, Laurence Harvey, Janet Leigh, Angela Lansbury
Scrive Céline nel Viaggio al termine della notte: “Tutto ciò che è interessante avviene nell’ombra. Non sappiamo niente della vera storia degli uomini.” Da questa frase si può partire per indicare alcuni registi che nell’America tra il Sessanta e il Settanta, a ragione o a torto, girarono film notevoli sul tema del “complotto”, criminale e politico, immaginario o reale, uno dei temi fondativi della cultura americana, nel cinema come nella letteratura.
Le ipotesi di Frankenheimer e Pakula sono le stesse che pullulano nei romanzi di Pynchon, Ballard e Vonnegut, con l’aggiunta, in ambito letterario, della sparizione dello scrittore (Salinger e Pynchon non hanno un volto, Cormac McCarthy è l’eterno spostarsi, James Ellroy confonde la verità storica mescolandola alla fiction).
In realtà, il cinema del complotto è all american, nasce e si sviluppa in America, addirittura a bordo del Mayflower, come sembra aver compreso magistralmente William Gaddis che nel suo romanzo-summa sulla storia del “falso” e della “falsificazione”, alludo a The Recognitions (Le perizie), che racconta tutto l’armamentario persecutorio sul quale si fonda the birth of the nation.
Tra le varie interpretazioni di Moby Dick di Melville, a parte quella suggestiva di Leslie Fiedler in Amore e morte nel romanzo americano - che propende per l’omosessualità di Achab – balena bianca uguale sperma (un’altra paranoia nella paranoia!) – vi è quella della mania persecutoria del terrificante comandante. E che dire del mito della fuga negli scrittori americani da Thoreau a Kerouac (vedi Into The Wild, The Village), se non che la paranoia è l’elemento fondante che tiene insieme il popolo americano.
Le statistiche sono precise e univoche: il 63% degli americani crede che esistano complotti contro l’America, il 43% ritiene che l’11 settembre sia stato un complotto ordito all’interno della nazione. Ci sono ragionevoli ricostruzioni del terribile evento, ma, ammesso che siano vere le prove in questo senso (e in Italia abbiamo in Maurice Blondet un farneticante assertore non solo di questo, ma di tutti i complotti - Blondet arriva al punto di pensare a un complotto contro i complottatori!), questo non giustifica tutte le guerre preventive di Bush e di Obama oggi contro i rogue states, anche in assenza di prove che tali stati stessero complottando contro l’America.
D’altra parte, un esperto di lineamenti di complottologia, meglio di “stile paranoico” (è il titolo di un suo saggio) come Richard Hofstadter, ritiene che tutti gli eventi storici americani siano scaturiti da motivazioni cospirative, con ciò alludendo a una miriade di complotti dei quali i cospirazionisti studiano le cause. E qualche studioso è arrivato a trovare degli antecedenti nei rispettabili discorsi di Jefferson, di Lincoln, nella stessa costituzione degli Stati Uniti. Segno questo di una “paura americana” - sconosciuta in altri paesi (l’Italia ne soffrì solo in parte per stragi commesse da responsabili che avevano nomi e cognomi e non) - , per fare una rapida rassegna, dagli indiani, dai neri, dai banchieri ebrei, dal comunismo, da Cuba, dalla mafia, dall’Islam) - che, per salvare la propria insicurezza identitaria, ha scaricato la paura sulle spalle ora degli uomini emarginati, ora dei paesi emarginati.
Il pensiero paranoide è dualistico: noi/loro, e in “loro” può annidarsi sempre un nemico: meglio farlo subito fuori.
Per tornare al discorso iniziale, se gli israeliani sono “paranoici”, una ragione c’è ed è comprensibile ma non giustificabile, perché portano impressa nell’anima la più orrenda catastrofe mai provocata da esseri umani, e, anche se non ne condivido affatto la politica terroristica verso i palestinesi, capisco da dove abbia origine la paranoia.
L’America è fondata sulla paranoia, vive nella paura, scarica le tensioni su altri popolo, ne subisce le conseguenze e li chiama “complotti”. Il complotto contro l’America di Philip Roth è un grande romanzo che spiega con stile sovrano questa paura, tutta la narrativa di Thomas Pynchon, molto Norman Mailer, il cinquanta per cento dei Ludlum & Company sono frutti maturi del racconto della paranoia americana. Anche un collaboratore degli studi strategici come Luttwack, anche il cantore Huntington che prefigurò uno “scontro di civiltà” quando Osama bin Laden era ancora studente. E, a guardare bene, basta oggi la trilogia di Bourne a fare da cartina di tornasole di una nazione impaurita che forse (un “forse” molto dubitativo) con l’amministrazione di Barack Obama potrebbe cambiare il proprio stigma paranoico.
Ma l’amministrazione Kennedy e i presidenti che seguirono fino al guerrafondaio Bush non cambiarono di un’unghia la “costante antropologica” che fa della nazione “più democratica del mondo” anche la più pericolosa.
Intanto, possiamo divertirci con tanti bei complotti di ieri, di oggi e di domani che il “nostro” presidente del consiglio evoca un giorno sì e l’altro pure, messi in atto da comunisti (sic!), magistrati, sindacalisti, giornalisti, registi, popolazioni terremotate; spaghetti-complot, insomma.
UNA NOTA DI FIXER
Caro MDC, proviamo a fare un po’ di chiarezza. Certa critica, constatando il proliferare di pellicole aventi come tema il complotto, oppure oscure manovre che, spesso dall'alto, inquinavano e condizionavano la nostra vita quotidiana, cominciò a cercare delle parentele con certo cinema di provenienza mitteleuropea. Non fu certamente un'operazione cervellotica, dato che molti registi europei (in prevalenza austriaci e tedeschi) che avevano lasciato il loro continente per sbarcare a Hollywood (passando magari, come Fritz Lang, per la Francia), avevano portato anche un'inquietudine indefinibile che rimandava a una sorta di Male che condizionava la nostra esistenza. In effetti, in alcuni di questi registi, le atmosfere cupe, quasi spettrali, ottenute con effetti di luce e procedimenti tecnici rivoluzionari (vedi ancora il caso di Lang), le scenografie girate prevalentemente in interni e soprattutto il chiaro tentativo di mettere a disagio lo spettatore, si respira qualcosa che va oltre la generica e convenzionale suspense. Nella Germania pre-nazista, fra gli altri, c'era un filone che potremmo chiamare “del Male incarnato”, in cui si narravano storie i cui protagonisti erano personaggi criminali o che, in certo modo, erano la personificazione del Male (vedi Das Kabinett Des Dr. Caligari di Robert Wiene, 1920; Golem e Golem II di Paul Wegener, 1915 e 1920; Nosferatu di Friedrich Murnau, 1922 e, per venire al Nostro, Dr. Mabuse der Spieler, 1922 (in questo film, addirittura c'è una scena in cui Mabuse si trova sotto un quadro raffigurante Lucifero). Facile parlare di espressionismo, anche se Lang non ne ha mai voluto accettare la filiazione. Si trattava probabilmente di quella che i francesi chiamano air du temps. Lotte Eisner nel suo Fritz Lang (ediz.Mazzotta, 1978), si spinge a dire che “Mabuse poteva nascere solo in Germania, il paese del kadavergehorsam, ossia dell'ubbidienza cieca, che generò l'idea niciana del superuomo”. Questo Male assoluto, a cui però tutti si dovevano assoggettare, per paura o per tradizione, avrebbe rivestito i panni di Adolf Hitler, ben lo sappiamo. Lang, però, non appena Goebbels gli comunicò che Hitler lo aveva scelto come regista del Reich, dopo aver visto Metropolis, se ne fuggì col primo treno. Queste atmosfere cupe, questo senso d'angoscia e, soprattutto, questa rassegnazione (e abitudine) ad obbedire ciecamente agli ordini, anche se a impartirli è un criminale, segnarono profondamente la psiche dei registi che arrivarono a Hollywood e fu grazie a loro che nacque lo stile noir, che non è un genere ma appunto e solo uno stile visivo. L'assassinio di John F. Kennedy (e quelli di Luther King e di Robert Kennedy, ma anche i golpe in Cile, la tentata invasione della Baia dei Porci, misero gli americani di fronte a un fenomeno assolutamente nuovo e cioè la sensazione che, dati i ripetuti episodi cui accennavo prima, qualcosa di sinistro, malefico, ben organizzato e onnipotente, decidesse i destini degli Stati Uniti. Era finita l'epoca ottimistica posteriore alla Guerra. I registi più avvertiti e “impegnati”, notarono coincidenze molto interessanti nella filmografia di Lang e certi suoi colleghi mitteleuropei e sicuramente ne trassero alcuni spunti, che sarebbe troppo lungo qui elencare.
Titolo originale The Manchurian Candidate
Regia di John Frankenheimer
Con Frank Sinatra, Laurence Harvey, Janet Leigh, Angela Lansbury
Titolo originale The Parallax View
Regia di Alan J. Pakula
Con Kenneth Mars, Warren Beatty, Hume Cronyn, William Daniels
Titolo originale The Conversation
Regia di Francis Ford Coppola
Con Gene Hackman, Frederic Forrest, John Cazale, Allen Garfield, Cindy Williams
Titolo originale Three Days of the Condor
Regia di Sydney Pollack
Con Robert Redford, Faye Dunaway, Cliff Robertson, Max Von Sydow, Addison Powell
Titolo originale The Day of the Jackal
Regia di Fred Zinnemann
Con Edward Fox, Terence Alexander, Michael Lonsdale, Delphine Seyrig, Alan Badel, Jean Sorel
Titolo originale All the President's Men
Regia di Alan J. Pakula
Con Robert Redford, Dustin Hoffman, Martin Balsam
Titolo originale The Stalking Moon
Regia di Robert Mulligan
Con Gregory Peck, Eva Marie Saint, Robert Forster, Nolan Clay
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