Pensavo che a questo punto qualcuno avesse già scritto due righe sul Giappone, sempre gettonatissimo quando si tratta di film (a ragione, per carità). «Perché non lo fai tu allora?»..e ok, lo faccio io. Ed ecco la patetica nota personale, prima di qualche scemenza sparata lì: per me è una ferita al cuore.
Niente folklore, niente sviolinate (il titolo parla da solo). Niente celebrazioni del Fuji o degli splendidi ciliegi del Maruyama. O delle maschere Nô e Kyogen (che molto farebbero al caso mio), di biwa, shamisen e monogatari vari. Un mito non esotico, ma sfigurato dai grigiori di tempeste postmoderne (elettronicodigitali/megalopolistiche) e morbose alienazioni postindustriali.
Niente sviolinate, ira e disincanto.
Non è col numero di morti che si pesa la tragedia. (Mi pare ovvio).
Honshu non è Shaanxi, Cina, 830.000 (?) morti nel XVI sec. d.c., quando le casette in pietra (o quello che era) forse cadevano da sole. Qui sono ‘solo’ qualche migliaio, ma si è nel nuovo corso della tecnica, nell’ordine venturo della sicurezza e dello sviluppo. E quando si deve ammettere non solo l’impotenza, ma la sconfitta, viene forse la parola fine. La differenza tra impotenza e sconfitta la fa 'qualche centrale nucleare' ad esempio. Una hýbris malsana. L’approdo definitivo a una tecnica che ha allontanato ulteriormente l’uomo dal mondo.
E certo molte vite sono state risparmiate, grazie al ‘progresso’. Ma altre potrebbero morire per questo. E tutti ci auguriamo che a Fukushima non accada il peggio (o è già accaduto?)
L’avanguardia non basta. E’ il presente, contemporaneo, che vince. L’istante che la Cultura non controllerà mai. La Natura non è nel tempo. Ne avrà di ignoti, superiori. L’uomo che ormai ha solo il suo di tempo, rincorre la sua perfezione tappando buchi. Come uno sciagurato dal ghigno drogato.
E la gente fugge da Tokyo, come fuggirebbe da Los Angeles, perché non può non fuggire. Inseguire non si sa cosa.
8.9 è roba da rabbrividire, che manda a spasso l’asse terrestre (così dicono), e non sei per niente sicuro a 500 km di distanza, nella zona più popolosa del sistema solare, e nemmeno a 10.000, dove mentre fai il bagno si spalanca il mare, senza motivo. E’ un portento della Natura, della Madre Matrigna, che se vuole, quando vuole, questo pianeta homonopolizzato lo apre a metà e lo spedisce in fondo alle vie lattee come pezzi di pesca noce. E noi qui a costruirci catene di DNA, schizzare come pidocchi dietro titoli in borsa, piazzare dighe grosse come un monte che sfracellano al primo starnuto della crosta. A raccogliere cadaveri come fuscelli sulla spiaggia. Un occhio che ci guardasse dallo spazio capirebbe quanto tutto sia una farsa. E’ per chi la re-cita continuamente che è terribile. Per colui che non può accettare la sua inferiorità e ha già sconvolto gli equilibri (innanzitutto i suoi, poi del pianeta).
La Nemesi è sempre in agguato.
Detto questo, cioè uno sfogo inutile, covato forse nella notte, auguro al tormentato popolo giapponese, e a quella splendida terra di grande tradizione e ineffabile natura, le migliori (diverse) albe possibili.
Con Machiko Kyo, Masayuki Mori, Kinuyo Tanaka, Sakae Ozawa
In streaming su Plex
Il Giappone, per me ha il volto di Wakasa. O, prima, è il racconto asciutto, essenziale di Ueda Akinari. Il portamento, il contegno. Ma anche la disperazione. E la rovina. Dopo il sogno, la realtà. E poi, il volto di Miyagi.
Con Toshiro Mifune, Masayuki Mori, Machiko Kyo, Takashi Shimura
In streaming su Plex
La porta d’ingresso al cinema giapponese e per la sua esportazione, col bolero di Ravel a scandirne l’ingresso. Kurosawa è il ponte, un altro dopo Kanagawa 1854. Una divina follia, come quel brano terribile.
Dire 'sole' per i giapponesi non è così scontato, al di là del titolo. E’stato fin troppo abbagliante. Ho la sensazione che il sole sia occidentale in questa terra, per questo popolo votato a un cupo destino tragico. Sokurov è russo, e i giapponesi mi ricordano i russi. Forse per una questione di fatalismo e orgoglio. Qui nell’oscurità di claustrofobiche stanze, dell’uomo più ‘alto’ si presenta la ‘normalità’, che è quella dell’infima storia. Nessun Dio.
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