Il cinema di Jafar Panahi aderisce al vivere quotidiano con una semplicità disarmante, includendo ogni cosa con estrema naturalezza, voci e rumori di sottofondo inclusi. Tutto nasce dall’urgenza di rappresentare gli aspetti retrivi di un Iran teocratico e maschilista, e tutto è funzionale per poter riprodurre con adeguata emblematicità la vita sociale in tutta la sua complessa eterogeneità. Questo non impedisce a Panahi di mantenere una posizione distaccata, di limitarsi a pedinare ossessivamente i suoi personaggi, di adottare uno stile che rasenta il documentarismo per quanto è asciutto nella forma ed essenziale nei contenuti. Un atteggiamento di grande rilevanza civile direi, di quelli che non ricercano la facile adesione emotiva intorno a condizioni umane di indubbia precarietà sociale, ma che si preoccupano di smuovere le coscienze attraverso la forza evocativa di una denuncia sociale che è nell'essenza stessa dei fatti rappresentati. Ecco, il suo cinema mi ha sempre dato l’idea di una critica sociale condotta in punta di piedi, certamente necessitata dalla situazione politica contingente, ma anche figlia di un modo di pensare al cinema volutamente antiretorico e ostinatamente antispettacolare. Una denuncia a “bassa intensità” dunque, che si insinua sorniona tra le pieghe di profonde iniquità sociali, come la poesia che si limita ad educare alla bellezza, con tutta la forza iconografica di cui è capace di offrire il cinema e nel modo più semplice possibile : rappresentando le idee in movimento. Il 20 dicembre del 2010 Jafar Panahi è stato condannato a sei anni di reclusione con l’accusa di aver partecipato a manifestazioni di propaganda contro il regime (data la sua adesione politica al leader dell’opposizione Mir Hossein Moussavi). Per oltre venti anni non potrà dirigere, scrivere e produrre film, rilasciare interviste e uscire fuori dall’Iran. In occasione dell’ultimo Festival del Cinema di Venezia, il suo cortometraggio, “The Accordion”, era in programma nella sezione “giornate degli autori”. Panahi non ha potuto presenziare all’evento e prima della proiezione è stato letto un suo messaggio : “Da cinque anni mi vietano di fare un film. Quando un regista non è autorizzato a fare un film la sua mente è già in prigione”. Jafar Panahi, in carcere per aver fatto del cinema.
Un guppo di ragazze sono disporte a tutto pur di assistere a una partita di calcio. Anche a traversirsi da uomini per ingannare l'ottusità di ignobili divieti.
Con Hussain Emadeddin, Kamyar Sheisi, Azita Rayeji, Shahram Vaziri
La parabola esistenziale del corpulento Hussein Aghà. Quando una parola spesa male può anche essere sufficiente per innescare un violento spirito di rivalsa in animi lugamente vessati dalla vita.
Con Fereshteh Sadr Orafai, Nargess Mamizadeh, Elham Saboktakin
Otto donne per otto storie emblematiche di un Iran retta sulla protervia maschile, dove una donna non è niente se non è legata ad un uomo e dove ogni espressione della sua innata femminilità è continuamente mortificata dalla gestione teocratica della società. Capolavoro.
Con Aida Mohammadkhani, Kazem Mojdehi, M. Shirzad, Naser Omuni
La piccola Mina non vuole più fare l'attrice. Ma la macchina da presa continua a seguirlala a sua insaputa e si è indotti a percepire il prima e il dopo come due entità speculari che rappresentano l'una il prolungamento dell'altra. La proiezione cinematografica della realtà e la realtà stessa coincidono
Con Aida Mohammadkhani, Mohsen Kalifi, Mohammad Shahani
Si pedina la piccola Razieh per un resoconto garbato di un desiderio fanciullesco. Adagiando il narrato attorno al quotidiano brulichio cittadino e seguendo discreto il passo solerte di una coscienza non ancora corrotta.
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