Espandi menu
cerca
WELLES parla di WELLES (seconda parte)
di Utente rimosso (mike patton) ultimo aggiornamento
Playlist
creata il 5 film
Segui Playlist Stai seguendo questa playlist.   Non seguire più

L'autore

Utente rimosso (mike patton)

Utente rimosso (mike patton)

Iscritto dal 30 novembre -0001 Vai al suo profilo
  • Seguaci 1
  • Post 3
  • Recensioni -
  • Playlist 46
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi
WELLES parla di WELLES (seconda parte)

 CINEMA E FILM


 
Il suo cinema è essenzialmente dinamico.

                 
Si. Ritengo che il cinema debba essere dinamico, benché, immagino, ogni artista ha il proprio stile. Per me il cinema è una porzione di vita in movimento che viene proiettata su uno schermo, non un quadro fisso. E per questo che non sono d’accordo con certi registi, che si accontentano di un cinema statico. Per me sono immagini morte. Sento dietro di me il ronzio del proiettore e quando vedo queste lunghe passeggiate per le strade, aspetto sempre che la voce del regista dica: «tagliatela». John Ford è l’unico regista che riesce a farmi credere nei suoi film, benché ci sia poco movimento. Gli altri, invece, cercano disperatamente di fare dell’arte. E del dramma che dovrebbero fare: il dramma è pieno di vita. Il cinema, per me, è un mezzo essenzialmente drammatico.

Ecco perché la sua regia è molto animata: è l’incontro di due movimenti, quello degli attori e quello della macchina da presa. E a questo punto che nasce l’angoscia, che riflette molto bene la vita moderna.

Sì, penso che corrisponda alla mia concezione del mondo; riflette questa specie di vertigine, di incertezza, di mancanza di stabilità, questo miscuglio di movimento e di tensione che è la nostra vita. E questo che il cinema deve esprimere. Dal momento che il cinema ha la pretesa di essere un’opera d’arte, deve essere prima di tutto un film.

Herman G. Weinberg, parlando di Mr. Arkadin, diceva: « Nei film di Orson Welles lo spettatore non può lasciarsi andare e rilassarsi. Bisogna che vada incontro al film e faccia almeno la metà del cammino per arrivare a decifrare quel che accade praticamente ogni secondo; se no è finito
Tutti i miei film sono così. Ci sono dei cineasti, alcuni eccellenti, che dispongono tutto così esplicitamente, così chiaramente che nonostante la grande forza espressiva contenuta nei loro film, il filo del racconto si segue seura alcuno sforzo. Mi rendo perfettamente conto che nei miei film io esigo un interesse molto particolare da parte del pubblico. Senza questa attenzione il film non ha senso.
 
Lady From Shanghai è una storia che girata da un altro regista avrebbe finito per parlare solo di problemi sessuali.
Diciamo che un altro regista li avrebbe resi più evidenti. Per quel che mi riguarda, non mi piace far bella mostra del sesso sullo schermo. Non per motivi morali o per puritanesimo. La mia obiezione è unicamente di ordine estetico. Secondo me ci sono due cose assolutamente impossibili da portare sullo schermo: l’esibizione realistica di un atto sessuale completo e pregare Dio. Non credo mai a un attore e a una attrice che pretendono di consumare l’atto sessuale davanti la macchina da presa, così come non posso credere ad un attore che sta pregando. Per me, sono due cose che evocano immediatamente la presenza di un proiettore e di uno schermo bianco, l’esistenza di una serie di tecnici e di un regista che dice: va bene, tagliate. E lo immagino prepararsi per la scena successiva . . . Quando vedo un film, non perdo quasi mai l’illusione. Filmando, penso a qualcuno come me: utilizzo tutta la mia abilità per indurre questo spettatore a vedere il film col massimo interesse. Voglio che si creda a quanto accade sullo schermo. Questo significa ricreare un mondo reale. Altrimenti il cinema è qualcosa di morto. Sullo schermo si muovono soltanto delle ombre. Qualcosa di ancora più morto delle parole.


                                                                                         HAWKS E CHAPLIN



Le piace la commedia? 

 
Ho  scritto almeno cinque copioni di commedie e in teatro ho fatto più commedie che tragedie. La commedia mi entusiasma, ma non sono mai riuscito a trovare un produttore per girarne una. Una delle cose migliori che ho fatto per la televisione era un programma del genere della commedia. Mi piacciono molto, ad esempio, le commedie di Hawks. Di una ne ho scritto circa venticinque minuti. Si chia mava Ero uno sposo di guerra. Lo sceneggiatore si era ammalato ed io ho scritto circa un terzo del film.

Ha scritto delle commedie con l’intenzione di realizzarle?



Sì. La migliore delle mie comrnedie, Operazione Cenerentola . Parla dell’occupazione di una cittadina italiana, (già occupata dai Saraceni, i Mori, i Normanni, e, nell’ultima guerra, dai Tedeschi, gli Inglesi e gli Americani) da parte di una troupe cinematografica di Hollywood . . L’occupazione si volge esattamente come un‘operazione militare e la vita degli abitanti della città viene sconvolta. E una grossa farsa. Ho ancora molta voglia di fare una comedia per il cinema. In un certo senso il Don Chiscotte è una commedia. Metto molti elementi della commedia in tutti i miei film; anche se è un genere di commedia per gli Americani. Ci sono delle scene che viste in altri paesi non suscitano il minimo sorriso, e che invece gli Americani trovano subito comiche. Il processo è pieno di humour, ma gli Americani sono i soli a coglierne il senso. E qui che si scopre la mia nazionalità: le mie farse non hanno una portata così universale. Un buon numero delle discussioni che ho con gli attori sono dovute al fatto che le scene sono predisposte in termini assoluti di commedia ed io le converto in dramma appena cinque minuti prima dell’inizio. E il mio metodo di lavoro: mostrare il lato divertente di una cosa e nasconderne l’aspetto triste fino all’ultimo minuto.


Cosa è successo quando ha venduto a Chaplin il soggetto  di Monsieur Verdoux?


Non ho mai litigato con Chaplin per Monsieur Verdoux. Quello che mi dà fastidio è che ora lui pretenda di non aver comprato da me il soggetto. Come attore Chaplin è bravissimo, sensazionale. Ma nel cinema comico preferisco Buster Keaton, che non era soltanto un eccellente attore, ma anche un regista eccellente (cosa che Chaplin non è). Keaton ha sempre delle idee favolose. In Luci della ribalta c’era una scena tra loro che durava dieci minuti Chaplin era eccellente e Keaton sensazionale. Era quanto di più riuscito avesse fatto in tutta la sua carriera. Chaplin ha tagliato la scena quasi interamente, perché aveva capito chi era, dei due, che la dominava completamente.

 
C’è un’affinità tra il suo lavoro e le opere di alcuni autori di teatro come Beckett, lonesco.



Eliminerei lonesco, perché non mi piace. Quando ho diretto il Rinoceronte a Londra, con Lawrence Olivier nella parte principale, l’opera che rappresentavamo ogni giorno mi piaceva sempre meno. Credo che non ci sia niente dentro. Proprio niente. Per quanto riguarda gli altri, le cose che fanno parte del loro teatro fanno parte anche del mio cinema. Senza che questo teatro, però sia nel mio cinema. Senza che il mio cinema sia in questo teatro. Sia l’uno che l’altro costituiscono qua!cosa che ha a che fare con il nostro tempo. E da qui che derivano coincidenze e affinità.
 

                                                                                                 GOYA E DOSTOJEVSKI


Ci sono due tipi di artista: per esempio, Velasquez e Goja. Uno sparisce dal quadro, l’altro invece è presente. Da un’altra parte Van Gogh e Cezanne...

 
Ho capito cosa intendete dire. E molto chiaro.

 
Mi sembra che lei stia dalla parte di Goya.
 


Senza dubbio. Però preferisco Velazquez. Non c’è possibilità di confronto fra l’uno e l’altro come artisti. Così come preferisco Cezanne a Van Gogh.


E fra Tolstoj e Dostojevskji?



Preferisco Tolstoj. Come artista. Anche se non corrisponde ai miei gusti. Ma le cose che mi assomigliano meno sono quelle che mi interessano di più. Per me Velazquez è lo Shakespeare dei pittori, eppure non ha niente in comune con il mio modo di lavorare.


Che ne pensa del cosiddetto cinema moderno?

 
Mi piacciono alcuni giovani cineasti francesi, molto più degli italiani.


Le è piaciuto L’anno scorso a Marienbad?



No. So che questo film vi è piaciuto; a me no. Ho retto fino alla quarta bobina e poi sono scappato di corsa. Mi ricordava troppo «Vogue Magazine ».


Come vede lo sviluppo del cinema?



Non lo vedo affatto. Io vado poco al cinema. Ci sono due tipi di scrittore quello che legge tutto quello che viene pubblicato e quello che non legge assolutamente i suoi contemporanei. Io faccio parte di questo secondo gruppo. E perciò vado al cinema molto raramente. Non perché non mi piaccia, ma perché non mi dà acuna soddisfazione.

 
Si diceva che volesse girare  Delitto e castigo . Che ne è del progetto?


Volevano che io lo reailzzassi. Ci ho riflettuto, ma amo troppo il libro. Alla fine ho deciso di non farne di niente. L’idea di accontentarmi d’illustrarlo non mi andava. Non voglio dire con questo che il soggetto non era alla mia altezza. Voglio dire che non potevo aggiungerci niente. Non potevo dargli altro che degli attori e delle immagini e quando non posso fare altro, il cinema non m’interessa. Bisogna dire qualcosa di nuovo su un libro, se no è meglio lasciarlo stare. Oltretutto è un’opera molto difficile, affatto comprensibile fuori del suo tempo e del suo paese ... La psicologia di cui tutta l’opera è intrisa è talmente russa — russa del XIX secolo che resta di difficile comprensione per altri pubblici.


In Dostojevskj c’è una concezione della giustiziai molto vicina alla sua...

 
Forse troppo vicina. Il mio contributo sarebbe troppo limitato. La sola cosa che potrei fare, sarebbe dirigere. A me piace fare dei film in cui posso esprimermi come autore piuttosto che come interprete. Nel Processo non condividevo il punto di vista di Kafka. Ritengo Kafka un ottimo scrittore, ma non quel genio straordinario che oggi si vuoi riconoscere. E per questo che non avevo preoccupazioni di estrema fedeltà e potevo fare un film di Welles. Se potessi fare quattro film l’anno, allora girerei sicuramente « Delitto e castigo a. Ma siccome mi costa molto convincere i produttori, cerco di scegliere bene quel che devo girare.

                                                                                                   BERTOLT BRECHT


Per quel che riguarda la recitazione, nei suoi film sembrano esserci Brecht e Stanislavkj.



Tutto quello che posso dire è che ho fatto le mie prime esperienze nell’orbita di Stanislavskj. Ho lavorato con alcuni suoi attori e ho trovato molto facile dirigerli. Non parlo degli attori del «Metodo », sono un’altra cosa. Ma Stanislavskj era meraviglioso. Quanto a Brecht, è stato per me un grande amico. Abbiamo lavorato insieme nel Galileo Galilei . A dire il vero, l’ha scritto per me. Non perché lo interpretassi, ma perché lo dirigessi.


Come era Brecht?



Terribilmente simpatico. Era un cervello straordinario. Si vedeva che era stato educato dai Gesuiti. Aveva quel tipo di cervello disciplinato che caratterizza l’educazione gesuita. Come artista, era un anarchico anche se si considerava un perfetto marxista. Quando un giorno gli ho detto, parlando del Galileo , che aveva scritto un’opera decisamente anticomunista, è diventato aggressivo. Gli ho risposto: ma la Chiesa che hai descritto, oggi è rappresentata da Stalin, non dal Papa. Hai fatto una cosa decisamente antisovietica!


Quali relazioni corrono tra il suo lavoro cinematografico e quello teatrale?



I miei rapporti con questi due generi sono molto diversi. Non c’è nessuna relazione fra loro. Forse in me, questa relazione esiste, ma le soluzioni tecniche per l’uno e l’altro sono così differenti nella mia mente che non riesco a stabilire alcun rapporto fra questi due mezzi. In teatro non seguo quella che poi è divenuta la concezione brechtiana della recitazione: questa forma particolare di estraniamento non è mai stata consona al mio carattere. Però ha sempre fatto degli sforzi terribili per ricordare in ogni istante al pubblico di trovarsi in teatro. Non ho mai cercato di portare gli spettatori sul palcoscenico; piuttosto ho cercato di farlo scendere in mezzo a loro. E questo è tutto il contrario del cinema.


Forse c’è una relazione nel modo di manovrare gli attori.


In teatro ci sono 1500 camere che girano contemporaneamente, nel cinema ce n’è una soltanto. Questo cambia tutta l’estetica per un regista.

                                                                                            
JOHN HUSTON



Il Moby Dick di Huston, al quale ha collaborato, le piace?


Il romanzo mi piace molto; ma mi piace più come dramma che come romanzo. Nel romanzo ci sono due elementi molto diversi: l’elemento pseudo-biblico (che non va troppo bene) e l’elemento singolare dell’Americano del XIX secolo, genere apocalittico, che può essere reso molto bene nel cinema.


Nella scena che ha interpretato nel film, ha suggerito qualche idea sul modo di eseguirla?

 
Tutto quello che abbiamo fatto è stato discutere su come sarebbe stata questa scena. Il mio discorso è molto lungo, dura un’intera bobina. Sono arrivato sul palcoscenico già truccato e vestito, sono salito sul pulpito ed abbiamo girato tutto di seguito. Abbiamo fatto una sola ripresa. E questo è uno dei meriti di Huston, perché un altro regista avrebbe detto: facciamo un’ altra ripresa per vedere come viene. Lui invece ha detto: bene. E così è finita la mia parte nel film.


Sta preparando un film sui tori?


Direi piuttosto un film sugli appassionati di tori, su chi li segue ... Penso che il vero avvenimento nella corrida, sia l’arena stessa. Dal punto di vista cinematografico l’aspetto più appassionante è l’atmosfera. La corrida è qualcosa che possiede già una personalità ben definita e il cinema non può far niente per renderla drammatica. Tutto quel che si può fare è fotografarla. La mia grande preoccupazione, per il momento, è di sapere che Rosi sta già girando mentre io ci ho messo quattro anni, a più riprese, per scrivere il copione. A causa sua troverò meno facilmente i soldi necessari. Mi diranno: abbiamo di già un film sulle corride, fatto da un cineasta serio, chi ne vorrebbe ancora un altro?. Tuttavia spero di riuscire a fare questo film, ma ancora non so come troverà i soldi. Rosi ha girato qualcosa in 16 mm. a Pamplona l’anno scorso. L’ha fatto vedere a Rizzoli e gli ha detto: guarda che bella cosa  e Rizzoli gli ha dato carta bianca.


Si è parlato talvolta del suo soggiorno in Spagna, prima della guerra civile..

 

Quando sono arrivato in Spagna per la prima volta, avevo diciassette anni ed avevo già lavorato in Irlanda come attore. Ho vissuto soltanto nel sud, in Andalusia. A Siviglia abitavo nel quartiere di Triana. Allora scrivevo romanzi polizieschi, cosa che mi prendeva soltanto due giorni la settimana e mi fruttava trecento dollari. Con questi soldi facevo il gran signore. C’era tanta gente appassionata della corrida e anch’io ne contrassi il virus. Compravo i novillos (tori con meno di tre anni)  di qualche corrida. E così che ho potuto debuttarci mi chiamavano « l’Americano ». La mia più grossa soddisfazione è di essere arrivato a toreare per tre o quattro riprese senza comprare i novillos. Ma mi resi subito conto che non valevo molto come torero e decisi di mettermi a scrivere. A quell’epoca non pensavo al teatro e ancora meno al cinema
 

 
Una volta ha detto che aveva molte diffìcoltà a trovare i soldi per fare i suoi film. Che passava più tempo a lottare per ottenere i soldi che a svolgere l’attività artistica vera e propria. Come procede oggi questa lotta?



E più aspra che mai. Anzi, peggio di prima. Ho già detto che non ho lavorato molto. Sono frustrato, capite? La mia opera risenta del fatto che non giro molto. Il mio cinema è troppo esplosivo: aspetto troppo prima di parlare. E ciò è terribile. Ho comprato delle piccole cineprese per fare un film; se non riesco a trovare i soldi lo girerò a 16 mm. Il cinema è un mestiere . . . Nulla può essere paragonato al cinema. Il cinema appartiene al nostro tempo. E « la cosa » da fare. Durante le riprese del Processo, ho passato giorni meravigliosi. Era un divertimento, un piacere. Non potete immaginare quello che provavo. Quando faccio un film, o alla prima di uno spettacolo, i critici dicono di solito: quest’opera non è buona come quella di tre anni fa. Ma se vado a rileggermi la critica di tre anni fa, trovo lo stesso parere negativo. Certo, talvolta l’esperienze possono essere sbagliate, ma è altrettanto sbagliato voler essere alla moda. Essere alla moda per tutta la carriera significa produrre solo opere di secondo piano. Magari per caso riuscirai a ottenere un successo, ma questo significa che sei un gregario e non un innovatore. Un artista invece deve guidare, aprire delle strade. Quello che è grave è che nei paesi di lingua inglese il ruolo giocato dalla critica, per quanto riguarda il cinema serio è molto importante. Dato che non è possibile fare dei film che possano competere con quelli di Doris Day, l’unico punto di riferimento restano le riviste come «Sight and Sound ». Le cose vanno particolarmente male nel mio paese. Touch of Evil non è mai stato proiettato in un cinema in esclusiva, non ha mai avuto la consueta presentazione alla stampa e non è mai stato fatto oggetto di critica da parte dei settimanali o delle riviste, nè tanto meno sui giornali. Lo si considerava troppo brutto. Quando il rappresentante dell’Universal l’ha voluto presentare alla mostra di Bruxelles nel 1958, gli fu detto che non era un film adatto per un festival. Rispose che bisognava comunque metterlo nel programma. La cosa andò avanti e lui fu licenziato. Il film vinse il primo premio.


Si considera un moralista?


Sì, ma contro la morale. Il più delle volte, e può sembrare paradossale, le cose che amo in pittura, nella musica, nella letteratura, non rappresentano che la mia inclinazione per quanto è all’opposto di quel che sono. E i moralisti mi annoiano tanto. Tuttavia, ho paura di essere uno di loro.


Non si tratta tanto di un atteggiamento da moralista, ma piuttosto di un’etica che lei adotta nei confronti del mondo.



I miei due film shakespeariani sono fatti secondo una concezione etica. Credo di non aver mai fatto un film senza avere un solido punto di vista etico sulla vicenda che racconta. Moralmente parlando, non c’è ambiguità in quel che faccio.


Ma l’ambiguità è necessaria: oggi il mondo è fatto così.

 
E proprio così che ci appare il mondo. Non è questione di ambiguità: è come uno schermo più grande. Una specie di cinemascope morale. Io credo che bisogna dare a tutti i personaggi i migliori argomenti perché possano difendersi. Anche a coloro con cui non siamo d’accordo. E proprio a loro che io do i migliori argomenti per difendersi. Offro loro la stessa possibilità espressiva che concedo ai personaggi a me simpatici. E questo che dà l’impressione di una certa ambiguità: l’essere molto cavalleresco con la gente di cui non approvo il comportamento. I personaggi sono ambigui, ma il significato dell’opera no. Non voglio somigliare alla maggior parte degli Americani che sono demagogici e retorici. La retorica è una delle più grandi debolezze dell’artista americano, soprattutto di quelli che fanno parte della mia generazione. Miller, per esempio, è terribilmente retorico.
 
 
Tratto da Cult Movie del marzo 1981



 
 
 
 
 
 
                                                                                            


Playlist film

Ti è stata utile questa playlist? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati