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"Jeanne": l'oscuro oggetto del desiderio
di Utente rimosso (mike patton) ultimo aggiornamento
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"Jeanne": l'oscuro oggetto del desiderio

”Jeanne”, l’oscuro oggetto del desiderio di Ultimo tango a Parigi. L’attrice-giustiziera, come Jean Seberg in Fino all’ultimo respiro, del vecchio cinema euro-hollywoodiano e del patriarcato morente. Maria Schneider era la figlia (mai riconosciuta) dell’attore Daniel Gélin e della modella e libraia francese di origine gitana-rumena Marie Christine Schneider. Un cancro ha divorato questa icona del Sessantotto, che seppe dare corpo, da commediante colta e istintiva, all’energia avventurosa (e alle debolezze individualil della “soggettività desiderante”, quell’andare oltre i limiti consentiti dall’immorale Etica vigente, quella volontà, che fu di una intera generazione di modificare radicalmente il mondo, dentro e fuori, a costo di divertirsi a doppia velocità (era dichiaratamente bisex), di sbarazzarsi dei Maestri, buoni e cattivi, e di somatizzare pesantemente le conseguenze della sconfitta (tossicodipendenza, casa di cura, Zeffirelli, umiliazioni sul set di Caligola nel 1976 quando, “sono un’attrice non una prostituta”, lasciò Tinto Brass indicando la gravità di una psicopatologia sessuale italiana. Fu una performer unica e involontariamente dinamitarda, spiazzante come un’ala destra imprendibile. Una donna che come Tina Aumont non volle mai far fruttare come surplus artistico i suoi lati dark, allora non si usava, ma ha continuato a sperimentare congegni emozionali conturbanti e rompicapo, con la complicità di Rivette (Meny Go Round), Daniel Schntidt (Violanta, 1977, il suo capolavoro incestuoso), Medhi Charef, Cyril Collard, JohnHugh, Masson, Comolli... e che ci lascia in eredità 60 film, altro che declino, senza sbarazzarsi di quella seconda pelle da diva scandalosa. Colpa del crash, ingestibile da chiunque, col duello Bertolucci e Brando, mai tanto follemente cinefilo il primo, mai tanto autodevastante, sul set, il secondo. Fu un trucco da grande attrice quel transfert. In realtà è Schermi di sabbia (1991) di Randa Chahal Sabag il vero film-scandalo della sua cartiera, una lancia nel cuore del Wahabismo saudita, un inno alla sogettività desiderante delle donne medio-orientali. Fate vedere quel film in tv se siete capaci, amici di Murabak! Realizzato con l’apporto maggioritario di capitali esteri, e della critica intemazionale, Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci e Professione Reporter di Antonioni fu il dittico italiano, di alta qualità artistica e commerciale che lanciò Maria Schneider, la ventenne scoperta di Vadim, dallo sguardo innocente e dal corpo elettrizzante, come indocile star e sex symbol mondiale di terzo tipo. Una clamorosa deviazione, di consistenza quasi bassa emiliana, comunque, rispetto al corpo piatto e dalle fluttuazioni androgine, disincarnato e pre-punk, che aveva messo in crisi l’immaginario del maschio borghese maturo negli anni 60 a colpi di Jane Shrimpton, Twiggy, Verusckha, Jean Seberg Jane Birkn. Pauline Kael, papessa della critica e del New Yorker, per una volta vide bene. L’anteprima americana, nel 1973, di Last Tango in Paris “forse è stato l’avvenimento artistico più importante dopo La Sagra della Primavera di Stravinsky”. Il film, come il balletto, scatenò cortocircuiti imprevedibili, turbamenti culturali e “destabiizzazioni” nella ricezione, finalmente anche sessuale, di un film. Un’opera d’arte è qualcosa che riguarda sempre un rito vampiresco, come scrive Daniel Schmidt “se riesce ci deve essere una complicità tra vampiro-regista e coloro che si lasciano vampirizzare”. Ma per Maria Schneider “manipolare” è cosa da gangster. Al diavolo l’arte. Non scandalizzava il plot: cinquantenne fascinoso (Brando), sconvolto dal suicidio della moglie e ricacciato nel buio dell’alienazione e della perdita di capacità emozionale, congegna un “ritomo alla luce”, una cicatrizzazione interiore, attraverso un complesso mix di psicoanalisi e sesso estremo (a giudicare almeno dalla messa al rogo in Italia del negativo del film, dalla perdita per Bertolucci dei diritti civili, e dal taglio imposto dalla censura britannica di 20 secondi di sequenza “dita-burro”),complice, fino a un certo punto, una misteriosa ragazza, incrociata in un appartamento parigino vuoto da affittare, e futura sposa di un cinefilo di rito godardiano (Jean Pierre Leaud). Non scandalizzarono gli espliciti dettagli, visto che le luci rosse erano sdoganate, e la nudità di massa esplodeva nelle marce, nei teatri e nelle scuole. Jack Nicholson, in Professione reporter, incontrò così una donna seria, intelligente e perfino dolce.

 
Tratto dal Manifesto del 4 febraio 2011: Maria il soggetto del desiderio, di Roberto Silvestri
 

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