Esistono, almeno in linea teorica, infiniti modi di rappresentare la violenza al cinema. Si può muovere convulsamente la cinepresa facendole condividere la brutalità del momento, si può tenere l'inquadratura fissa per distanziarsi dall'irruenza della scena, si può dilatarne la durata amplificando la ferocia dei gesti, si può frammentarne lo svolgimento per esasperare l'irrazionale impulsività e, ovviamente, molto altro ancora. In ogni modo, quali che siano le scelte adottate dai vari registi, la raffigurazione filmica della violenza fa sempre problema: emotivo, morale, estetico. Di seguito, in ordine cronologico ma senza alcuna pretesa di coerenza, sette pellicole che si confrontano con questo tema scottante in forme e modalità differenti.
Con Burt Lancaster, Rutger Hauer, John Hurt, Meg Foster, Dennis Hopper, Helen Shaver
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Slow-motion. Peckinpah abbandona la trasfigurazione enfatica e lirica dei film precedenti e rappresenta i corpo a corpo con brutalità antiestetizzante. I suoi leggendari ralenti si fanno stridentemente, grottescamente sgradevoli.
Con Roy Scheider, Ann-Margret, Vanity, John Glover, Clarence Williams III, Robert Trebor
Video 1: frontalità. Harry Mitchell (Roy Scheider) è costretto a guardare una videocassetta in cui la sua amante viene crivellata di proiettili da alcuni criminali che vogliono incastrarlo. Tra ricatto su nastro magnetico e snuff, Frankenheimer sporca la pellicola col video, facendo dell'uno il lato oscuro dell'altra.
Con Arno Frisch, Angela Winkler, Ulrich Mühe, Ingrid Stassner
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Video 2: fuori campo. Due adolescenti in una camera da letto, una pistola per maiali e una telecamera a circuito chiuso. Lui le spara il primo proiettile nel ventre, lei stramazza al suolo ed esce dall'inquadratura. Poi lui la finisce con altri due colpi entrando e uscendo dalla cornice del monitor. La duplice inquadratura fissa (della cinepresa e della telecamera) fa del fuori campo il luogo dell'incomprensibile, dell'irrappresentabile.
Con Jenny Drye, Benoît Poelvoorde, Malou Madou,Willy Vandenbroeck
Necroreality. Una microtroupe di documentaristi d'assalto segue le scorribande di un criminale belga che accoppa gli abitanti, preferibilmente anziani, delle case popolari (perché "les vieux, ils ont l'argent, ça c'est sûr"). Il mockumentary in bianco e nero di Belvaux, Bonzel e Poelvoorde non rinuncia alla pellicola, ma sfrutta l'estetica a bassa definizione come certificato di attendibilità.
Long shot 1. Convinto Beaumont (Chris Tucker) ad adagiarsi nel bagagliaio, Ordell (Samuel L. Jackson) percorre un centinaio di metri e s'infila in uno spiazzo deserto. Esce dalla vettura, gli spara due colpi a bruciapelo e torna al posto di guida. Posizionata nel punto di partenza della macchina, la cinepresa si solleva per riprendere la scena da lontano: la freddezza del gesto si impone in tutto il suo spietato, distaccato squallore.
Long shot 2. Otis (Bill Moseley) tiene sotto tiro l'agente Naish (Walton Goggins) e lo fa inginocchiare puntandogli la canna della pistola sulla fronte. Al rallentatore, la macchina da presa s'innalza in un imperioso movimento di gru, tendendo allo spasimo l'ineluttabilità della situazione: trenta interminabili secondi per un'esecuzione di ammutolente sadismo.
Plongée. Ammanettato, Anton Chigurh si avvicina all'agente seduto alla sua scrivania. Lo afferra da dietro rovesciandoselo addosso e strangolandolo con la catena delle sue manette. La cinepresa, inquadrando a piombo il vano dimenarsi dell'agente, stringe sul volto spiritato di Chigurh ondeggiando da una parte all'altra: anche lo sguardo dall'alto perde le coordinate, disorientato dall'implacabilità del killer.
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