Quella iraniana è stata una delle pochissime cinematografie nazionali sorte ed affermatesi nell’ultimo trentennio all’insegna di un’omogeneità di forme e contenuti, come fu, in Europa soprattutto, negli anni 60 e 70 per mezzo delle varie “nuove ondate”. Questo già ci dovrebbe dare l’idea di cosa significhi fare cinema in una realtà problematica come quella di un Paese povero e per giunta martoriato da calamità naturali (terremoti) e innaturali (guerre, fanatismi religiosi e politici). Il Primo Mondo, una volta raggiunto e superato il benessere, ha in gran parte smarrito quel senso di appartenenza, quella coesione, quel collante che teneva uniti artisti ed intellettuali (ma anche politici e comuni mortali) sotto una comune visione di cosa avrebbe “dovuto” essere il cinema del proprio Paese, e si è rintanato negli individualismi, nelle proprie idiosincrasie, dimenticando spesso la prospettiva collettiva…Come fa notare Fofi ogni volta che viene intervistato, in Italia una volta esisteva una cinematografia nazionale ben definita perché aveva come referente un “popolo” con una precisa identità: quando è venuto meno quel “popolo” (concetto molto più complesso di quanto appaia), è scomparso anche il Cinema Italiano. Stessa cosa, bene o male, per gli altri Paesi che hanno fatto la Storia del Cinema nel Novecento, dalla Francia agli Stati Uniti, fino alla Russia e al Giappone (ma credo che il discorso valga di più per l’Occidente). Va da sé che il fatto che ci siano ancora grandi film (talvolta capolavori) prodotti in quelle nazioni non cambia di una virgola il ragionamento: un conto sono i film, un’altra cosa è il Cinema. Essendo quella cinematografica un’Arte che prospera nelle economie ricche, il Terzo Mondo e i Paesi Emergenti hanno dovuto attendere parecchio per venire alla ribalta, ma quando lo hanno fatto, hanno lasciato il segno. L’Iran è stato uno degli ultimi Paesi a fare la storia del cinema (negli anni 90): ora pare che il suo scettro sia stato preso dalla Romania, altra nazione esclusa dal grande ballo della Settima Arte per tutto il disastroso XX Secolo, ma che ora è decisa a recuperare il tempo perduto. Il cinema che ci è stato offerto dai Kiarostami, i Naderi, i Panahi, la dinastia dei Makhmalbaf e diversi altri non è solo l’espressione talenti individuali, ma il risultato di una poetica e di un’estetica ben precise, spontanee ma condivise, genuine ma consapevoli: la comune (e pertanto complessa) visione dell’Iran da parte dei suoi cineasti, la stessa cosa che facevano Rossellini e De Sica per l’Italia negli anni 40, Dos Santos per il Brasile degli anni 50, Forman per la Cecoslovacchia degli anni 60, Scorsese e Rafelson per gli USA degli anni 70 e così via… “Io e Abbas, negli anni 70, abbiamo discusso ogni sera per 4 anni su cosa avrebbe dovuto essere il Cinema Iraniano” ha detto Amir Naderi: più chiaro di così… E quali sono, dunque, gli elementi che costituiscono questa comune poetica/estetica? L’approccio rosselliniano, con ampio spazio concesso ai pedinamenti come mezzo per scoprire il paesaggio naturale ed umano; la dialettica fra realtà e finzione; l’utilizzo di artifici poetici quali simboli e metafore; l’attenzione verso le problematiche di donne e bambini; la propensione a lasciare fuori campo la Storia in modo da farne percepire gli effetti sulle sue vittime in maniera più sottile, ma anche più crudele. Considero gli anni 90 il periodo d’oro di questa corrente, poi c’è stata una involuzione (e la situazione politica degli ultimi anni ha fatto precipitare le cose); se qualcuno tuttavia ha da segnalare altri autori od opere degli ultimi anni (oppure degli anni 70 e 80), si faccia avanti!
Con Babek Ahmed Poor, Ahmed Ahmed Poor, Khodabakhsh Defaei, Iran Outari, Ait Ansari
Apripista della stagione d’oro del cinema iraniano, ne introduce non solo un canovaccio tipico (il bambino che cammina alla scoperta del mondo degli adulti e del suo Paese), ma anche un’atmosfera, un sentimento, così lontano ma anche così familiare, forse perché legato ad un’esperienza che tutti noi abbiamo vissuto: quella delle scuole elementari. Personalmente, per paradosso, trovo le situazioni, gli ambienti, gli stati d’animo dei film di Kiarostami più affini al mio vissuto rispetto a quelli di tanti film occidentali: deve essere per l’universalità e per la trasparenza dei valori che esprimono.
Per Amir Naderi (mia recente scoperta grazie a Ghezzi), avrei messo volentieri il gioiello “Manhattan By Numbers”, ma è di fatto il film di un esule (volontario) e quindi non fa parte del Cinema Iraniano. Spazio allora al paradigmatico “Acqua Vento Sabbia”, fra le prime opere persiane a suscitare interesse in Occidente. Anche se il paragone è grossolano, penso che Naderi (ma anche Ghobadi) stia a Kiarostami (o Panahi) come Dovzenko (o Pudovkin) stia a Eisenstein (o Vertov). Un’azzardo forse, ma è per sottolineare come da una parte ci siano cineasti che prediligono la teoria, il rigore concettuale, fino a giungere al meta-cinema, dall’altra ci siano invece cineasti che si gettano a capofitto nella poesia, sospinti dall’urgenza espressiva, dall’emozione. Non che i film di Kiarostami siano privi di sprazzi di poesia, come d’altra parte i film di Naderi possiedono precise geometrie interne: però ritengo che nel cinema di Kiarostami ci sia un’approccio teorico e concettuale che in Naderi è spesso soverchiato dal piacere della creazione figurativa, a partire dal materiale grezzo che fornisce la natura e la civiltà del deserto mediorientale...Ne esce una sorta di trasfigurazione visionaria della realtà, senza che quest’ultima venga di conseguenza abbellita o mistificata: asciuttezza e onestà restano valori portanti di tutto il cinema iraniano, compresso quello “alieno” di Naderi.
Con Farhad Kherardmand, Buba Bayour, Hocine Rifahi, Ferhendeh Feydi
Per me, il miglior film iraniano, il capolavoro di Kiarostami, la sua opera più rigorosa e radicale. Un film-limite, estremo, di raffinata semplicità e di complessa sobrietà. Vi si trova la rassegnazione di un popolo e la necessita' di documentarla attraverso il cinema, nonostante il dolore e il dramma. Un viaggio, tra realta' e fiction, in un Paese devastato, messo in ginocchio dalla "volonta' di Dio" (o da un cane rabbioso, secondo il bambino), ma deciso a guardare avanti con l'umilta' di sempre; un'esperienza che porta alla consapevolezza e alla saggezza. Stilisticamente il film contiene tutti gli stilemi del cinema del maestro iraniano: l'automobile come mezzo indispensabile per la conoscenza della realta', un protagonista che si comporta da "cronista", chiedendo notizie alla popolazione, un bambino che imparera' la sua lezione di vita, una perfetta alternanza di piani fissi e carrelli, di riprese nell'abitacolo della vettura e di campi lunghi sulle distese irte e fangose, di primi piani essenziali e di voci off, di drammi umani e di parentesi distese. "E la vita continua" e' la quintessenza del cinema iraniano perche' mostra, del cinema (della finzione, di una storia romanzata...), la sua impossibilita' teorica, in questa terra martoriata e sempre in emergenza, ma al tempo stesso la sua necessita' estrema.
Con Tahereh Ladanian, Hossein Rezai, Mohamad Ali Keshavarz
Al termine della sua trilogia, prima dell’involuzione di fine anni 90, Kiarostami approfondisce il discorso sul rapporto realtà/finzione e sul senso del cinema, pervenendo a risultati notevoli. Un film che incuriosisce ad appassiona a mano a mano che lo si guarda; un’opera che parte da uno spunto esile esile per poi spianare la strada alle più svariate interpretazioni, all’insegna di una fertile ambiguità. E’ incredibile come un cinema che pare fatto con niente si presti a letture così articolate.
Con Aida Mohammadkhani, Kazem Mojdehi, M. Shirzad, Naser Omuni
In certi casi, l'allievo puo' superare, o quantomeno eguagliare, il maestro. Questa pellicola di Panahi sviluppa brillantemente i vari elementi del cinema kiarostamiano: narrazione anti-ellittica, utilizzo frequente di voci fuori campo, pedinamento, bambini, sguardo critico ma composto sull'Iran moderno e soprattutto la raffinata fusione tra cinema e realta'. Nel film di Panahi, i due piani arrivano a convergere: il personaggio che la bimba interpreta nel film subisce l'arroganza e l'indifferenza degli adulti nel suo ostinato viaggio verso casa; la stessa crudelta' subisce la bimba-attrice nella vita reale ad opera della troupe...Apologo sul cinismo di cio' che sta dietro al cinema e, insieme, sguardo impietoso su un mondo maschilista e autoritario.
Sacrifichiamo a malincuore Mohsen Makhmalbaf, regista a mio avviso minore, ma autore con “Viaggio a Kandahar” di una pellicola dura e sconvolgente. Diamo spazio invece a sua figlia Samira, controversa e precoce cineasta, molte volte più ispirata del padre. Come in “Lavagne”, che ci regala immagini visivamente splendide, oltre che lucide nel loro intento metaforico (i professori che si difendono dagli attacchi aerei con le loro lavagne, i piccoli contrabbandieri che si mescolano alle pecore), attraverso le quali ribadisce il senso di precarieta' di un popolo perseguitato e il bisogno di una guida culturale (e spirituale); purtroppo la visione resta un po’ appesantita proprio dagli eccessi metaforici, croce e delizia del cinema iraniano.
Con Nezhad Ekhtiar-dini, Amaneh Ektiar-dini, Ayoub Ahmadi
In streaming su Eventive
Ghobadi non possiede forse ne’ il rigore autoriale di un Kiarostami, ne’ il genio di un Panahi, ne’ la fantasia di Samira Makmahlbaf, ma in compenso il suo stile si distingue per una maggior dose di tensione, vigore, pathos. Il suo stile è contraddistinto da un’inquietudine ed una frenesia che si oppongono al tono pacato e dimesso dei connazionali. Questo film rende letteralmente l’idea del disagio materiale dei profughi curdi, e in questo ricorda molto gli affannosi salvataggi nel fango dei soldati di “Kippur” (dell’israeliano Gitai). Purtroppo, dopo questa pellicola, l’ho perso di vista.
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