Il cinema di Aki Kaurismäki è sempre sospeso tra il serio e il faceto, tra il riflettere amaro sulle condizioni di vita di perfetti emarginati sociali e il sorridere per il modo in cui riescono sempre a tirare avanti. Se c'è un merito particolare che gli andrebbe riconosciuto più di ogni altro è senz'altro quello di continuare iperterrito a raccontarci storie di vite in disarmo, dimenticate da tutti e da tutto, a parlarci di persone poste ai margini del benessere generalizzato, a dare un'dentità di uomini innanzituto a chi l'identità se le vista scippare dalla volgarità imperante. Il suo è un tipo particolare di cinema sociale dove non è tanto necessario concentrarsi sulle dinamiche socio-economiche che determinano le iniquità sociali, quanto pedinare le piccole storie umane che da quelle dinamiche sono messe in pericolo. Kaurismäki si concentra più sulle vittime degli effetti che sulle cause che le hanno prodotte. Gli interessa il loro umanesimo, la loro capacità di resistenza. A proposito di "Juha", l'autore finlandese ebbe a dire che in "questa sovrabondanza di immagini ridondanti, che caratterizzano la nostra società e uccidono la poesia, ho sentito l'esigenza di riflettere con un cinema "puro" dove, nelle spirali di un triangolo amoroso, ci sono solo due rumori: quelli buoni della moto del marito tradito, quelli cattivi dell'automobile dell'amante cattivo". Mi conforta molto sapere che esistono cineasti comeKaurismäki che tengono alla purezza dell'arte cinematografica e che la praticano attingendo dalla bellezza delle piccole cose. Si fa del grande cinema col minimo consentito. Il segno distintivo di un maestro del nord.
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