Per me il fondamento del cinema è l’immagine, il suo ritmo interiore e d’insieme. Non quelle del globalset mediatico-pornografico contemporaneo, ma la cellula di realtà rappresentata, espressa in un’idea. Dunque ciò che esiste dentro, e poi dietro l’immagine-proiezione.
Prima era il muto, puro potenziale evocativo, fragore e carnalità espressivi, densità immaginale. L’arte “povera” che muoveva dai sensi all’immaginazione in modo stretto e puro, e dall’immagine al senso.
Altrettanto fondativa non può dirsi la parola (il parlato). Essa è venuta dopo, spesso per avvicinare all’apparenza della “vita”. Per rendere più realistica la convenzione di rappresentare le convenzioni della realtà, delle sue realtà. A volte la parola si è fatta voce, e allora ha arricchito la comunicazione. Ha nutrito il discorso estetico. Ma più spesso e in generale, ha rovesciato il principio dell’immagine (im)ponendosi come modesta matrice di un testo illustrato.
Il cinema è un’arte “multipla” che si serve delle altre arti. Ciò è un potenziale, una risorsa, dato che che quanto interessa non è lo “specifico cinematografico”, ma, indifferentemente dal mezzo, la comunicazione di un senso. Eppure, è anche vero ciò che dice Barthélémy Amengual: “..il mondo del romanzo non è fatto che di pensieri, di frasi di parole. Nel cinema in primo piano c’è il mondo col peso delle sue rocce, della sua acqua, del suo vento. Intorno all’uomo si sente il grande respiro del cosmo. E’l’atout del cinema, e insieme la sua inferiorità. Giacché l’indefinito, il mistero, il sogno, il pensiero esigono talvolta il flou e la neutralità astratta del linguaggio. Essi perdono molto nell’incarnazione o si rifiutano di essere incarnati.”
Più c’è abbondanza linguistica, più si rischia di smarrire l’essenza. Più si mostra più si allontana, l’invisibile non può (vuole) essere troppo visibile. Da ciò deriva la forza millenaria della poesia o della musica. Dunque il cinema andrebbe inteso non come mera rappresentazione, e nemmeno come mezzo di comunicazione gonfiato, ma come sintesi espressiva, basata sull’immagine e ciò che può integrarla, ma senza coprirla. Infondendo, dunque, a quel movimento figurativo interno (inquadratura) e di relazione (montaggio) delle nuances, delle antifone, dei richiami, tutte le pieghe del tessuto vitale.
Invece si assiste impotenti al dominio del testo (o meglio, del copione) illustrato, e l’avvento del digitale sembra aver appiattito non solo il cinema, ma già l’immagine al suo destino, quello della fascinazione e del manierismo. Esattamente come nella società. Qui sorge il secondo problema, e più attuale, di questa breve riflessione. Non solo la chiacchiera, ma anche i simulacri. Allora il discorso si complica, l’estetica degli anni venti non è più sufficiente per un’idea di cinema. Immagine e parola possono aprire a discorsi anche di tipo critico, etico, antropologico, filosofico. Negandosi, violentandosi, escludendosi.
Il problema non è più "immagine o parlato", ma quale immagine e quale parola, e come integrarli. Ciò è il cinema come esperienza, o come banale rotocalco. Il cinema sonoro super massificato, o il cinema sonoro come “intimo trovarsi”.
Cito opere abbastanza paradigmatiche, tacendo del cinema dove l'immagine è simulacro.
Con Emil Jannings, Maly Delschaft, Max Hiller, Emilie Kurz, Hans Unterkircher, Olaf Storm
Il pioniere del cinema senza parole (didascalie), il regista (s)chiuso nella poetica del muto, per l’ennesimo suo film-manifesto, questa volta della poetica del visivo autonomo, maturo, compiuto. La tecnica cinematografica funzionale all’espressione, la parola nella sua minima funzione integrata nella comunicazione del senso ben oltre il carattere informativo. Film muto eloquente del ritmo estetico-biologico del (k)cinema dell’immagine.
Con Renée Falconetti, Eugène Sylvain, Antonin Artaud, Michel Simon
Opera-essenza del cinema. Lungo il tormento di un interrogatorio in cui la parola è “inutile”, Renée Falconetti, letteralmente sospesa sull’assenza di musiche, rumori, suoni, foné, come effigie sull’orlo dell’estasi e della dannazione, della vita e della morte, della luce e delle fiamme, è sconvolgente emblema della più alta fotogenia cinematografica, ossia della qualità dinamico-espressiva della cellula apparentemente più immobile: il primo piano. Non dice con le parole, ma parla con la chiarità del suo volto illuminato. Qui c’è il moto interiore dell’immagine, del corpo, e dell’anima. Forze oscure che si agitano, fanno vibrare l’inquadratura. Il film dello sguardo e dell’“ascolto” al massimo della forza evocativa.
Un torrente di parole in piena in un letto prosciugato, la parola negata, il mutismo, il rifiuto e la necessità di mentire. In uno dei film del doppio più lacera(n)ti la parola “rivela” e inganna, è un arabesco malato sul tessuto precario dell’immagine, e dell’uomo. L’immagine finisce col cadere anch’essa nelle fiamme e nei meandri onirici. Nella doppia veste di velo rivelatore e di velo mistificatore. Quel che vediamo e sentiamo è il caos filtrato e ricompattato da un mezzo e da coscienze senza certezze, sull’orlo dell’afonia e della cecità.
Fim quasi muto in piena epoca che (s)parla (1968), in cui le parole e le frasi fanno da sfondo, da codici, da comparse minimali, da melodie decadenti monotonali e decomposte nelle folgorazioni immaginali degli ulisse del cinema e dei tempi, nella ridda visiva (e non) della (di una) danza cosmica. Film della vertigine percettiva, dello sguardo dalla storia verso l’ignoto, dell’occhio centrale e (an)negato, e dunque dell’ascolto ancestrale: film della musica, delle forze e dei ritmi oscuri, della Fuga siderale oltreumana, in cui i commenti verbali vengono risucchiati e dissolti, per qualche strano tunnel spazio temporale dell’universocranio, direttamente negli abissodeliri plasmati dai demiurghi Kubrick-Ligeti. Inafferrabile, ergo, metafisico.
Hiroshima mon amour …come non risuonarsi questo titolo nella mente, come riecheggiasse di qualche poesia perduta….abbracciata e poi fuggita…sono le immagini che portano a galla le parole o il contrario?? Vediamo prima… o nominiamo le cose per riconoscerle?? Non si tratta di ordine..ma di coincidenze, sincronie misteriose e potenti. Sfuggenti. E ricordarsi poi di essere già nell’oblio, per tenerlo a distanza……. Qui, come le parole e l’immagine, tutto s’intreccia: tempi e spazi, corpi e ricordi, nomi e cose. Silenzi e vuoti. Carne e anima. Una fusione intensa e anche per questo dolorosa, perché noi moderni siamo soli. Non astri., ma cellule deflagrate della solitudine e del conflitto con il tutto, nel tutto. Del tutto!
Tipico film della prosa cinematografica d’abitudine, per la contemplazione passiva del nostro tempo d’immagini stampate, di (situ)azioni già narrate, di luoghi guardati ma non sentiti, volendo a tutti i costi mostrare la poesia sospesa sul mondo, dentro l’acqua e l’aria, la maglia del vivente. Tante e troppe parole a cucire l’effetto domino normal-visivo di un racconto pop, ma di una storia (speciale) che non merita commenti e avrebbe la sua unica voce nell’ineffabile.
-La Notte (Hans Jurgen Syberberg, Germania 1984/85). La poesia e la letteratura senza riempimento spettacolare..invece. Edith Clever recita grandi autori, da Shakespeare a Goethe, Nietzsche e Heine, Novalis e Wagner ecc... Dalle parole si passa alla Parola, l’immagine s’avvicina al teatro, lascia la voce alla poesia, alla musica.
Con Serge Berna, Guy Debord, Isidore Isou, Barbara Rosenthal, Gil J. Wolman
Nessuna immagine, e tuttavia l’immagine. Essa compare come negazione di sé medesima, c’è in quanto assenza, come elemento morto, specchio azzerato del falso spettacolare, del nulla consumato della cultura e non più consumabile in un' arte di cui viene distrutta la componente fondamentale. Le parole ci sono, ma non come chiacchiera, né come convenzione, ma come elemento destabilizzante, destabilizzato, eclettico e sfuggente, come vivo flusso della realtà e verso la realtà. E alla fine, dinanzi a tale gesto e grido a favore di una piena “liberazione”, non si può non ascoltare, e immaginare, non si può non spingersi oltre l’immagine. Il bianco e il nero come mondi del nulla, da cui rifondare la nostra coscienza e la nostra azione. Il cinema, invece di affabulare e sfornare serialmente copie di ogni cosa a cominciare da se stesso, dovrebbe rieducare lo sguardo allo sguardo, di noi materialissimi e ciechi voyeur occidentali.
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