«Un regista rimosso». Così Alberto Pezzotta comincia la sua introduzione al Castoro – altrove scritto a quattro mani con Pier Maria Bocchi – su Mauro Bolognini (1923-2001). Che regista è stato Bolognini? È davvero stato il pallido esteta descritto dalla critica tradizionale? Secondo Pezzotta e Bocchi (e, per quel che conta, anche secondo me) no. Bolognini è stato innanzitutto un regista tecnicamente preparatissimo che, nel cinema italiano, ha portato avanti una sua piccola rivoluzione, usando, quasi sempre finemente, la tematica del sesso, uno degli elementi che sono spesso serviti da cartina di tornasole per valutare l’evoluzione – o meglio: l’involuzione – del costume nazionale. Com’è naturale, per un regista che ha attraversato più di quarant’anni di cinema (da Ci troviamo in galleria, del 1953, al televisivo La famiglia Ricordi, del 1995), la carriera di Bolognini ha avuto l’andamento di una parabola, la quale ha conosciuto la sua parte più alta nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. È stato triste, invece, il suo declino, segnato da film poco riusciti, come La venexiana (1986), Mosca addio (1987) e La villa del venerdì (1991), caratterizzati in partenza da difficoltà o vessazioni produttive ed il cui difetto principale consiste nel non essere opere veramente personali, anche a causa dell’influenza «appiattente» della televisione (basti vedere La storia vera della Signora delle Camelie, La Certosa di Parma, Gli indifferenti). Oggi quasi dimenticato, Bolognini è stato, secondo Bocchi, autore della chiosa al Castoro, «un regista fuori dal coro» del cinema italiano, perché antifamilista ed anticlericale, e quindi inviso a quei potentati che facevano (e forse ancora fanno) capo alla Chiesa ed ai maggiori partiti politici (e di conseguenza a produttori, finanziatori ecc.), ma anche perché omosessuale, o meglio, come scrive Bocchi, in quanto Bolognini regista «è frocio nello sguardo sul mondo, perché racconta sempre di personaggi che, nel bene e nel male, non ci stanno».
Due anni prima che Pasolini esordisca come regista con Accattone, bolognini si ispira a Ragazzi di vita, per un film molto pasoliniano, anche perché lo stesso autore del romanzo è il principale artefice della sceneggiatura.
La denuncia del “gallismo” siciliano s’incrocia con il racconto della sconfitta di chi rifiuta di omologarsi al pensiero dominante. Contiene immagini tra le più belle di tutto il cinema bolognini ano, come la sequenza del funerale del padre del protagonista).
Da un romanzo minore dell’Ottocento, si parte dalla denuncia della gretta rapacità tipicamente toscana, per arrivare alla rappresentazione di un malessere universale (ed anche in questo caso la sconfitta accompagna chi non si adegua).
La corruzione in questo film è una condizione pregnante, che pervade tutta l’atmosfera ed infetta, in misura diversa, tutti i personaggi, il cui grado di colpevolezza è misurato esclusivamente dal livello di consapevolezza.
A mio parere il miglior film di Bolognini, troppo spesso accusato ingiustamente di avere badato troppo alle ricostruzioni ambientali ed alle scenografie, piuttosto che ai contesti storico-politici. […] Bolognini mostra che, anche prima del Fascismo, l’Italia non era un paradiso.
Con Massimo Ranieri, Ottavia Piccolo, Antonio Falsi, Gigi Proietti, Anna Fadda, Gianna Serra
Il finale del film, per niente consolatorio, narrato in prima persona da Berta, nel quale la ragazza accusa proprio colui che ha cercato di aiutarla in maniera disinteressata, ma non ha fatto abbastanza per salvarla dal suo misero destino («piangi, Piero, perché non hai mosso un dito per aiutarmi. Piangi e crepa!»), riscatta le parti non riuscite del film e gli conferisce un'aura di aspra denuncia sociale.
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