Con George O'Brien, Janet Gaynor, Margaret Livingston
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Nell'incorrotta purezza della campagna, l'avidità della donna di città è così sfrenata da divorarsi un pezzo di racconto: l'inizio della relazione col contadino sposato sparisce dal film, inghiottita dalla voracità della passione. La donna esce di casa e attraversa il villaggio: il carrello la segue a distanza, come intimidito, con magnetica precisione. Lei si ferma a pochi metri dalla casa dell'uomo e fischia in direzione della finestra illuminata. Lui, in controluce, le fa cenno di allontanarsi. L'uomo si addentra nella palude, inseguito da un complicatissimo piano sequenza. Improvvisamente la cinepresa lo lascia andare: punta a diritto, si fa largo tra gli alberi, la trova soltanto per noi. Scrivendo direttamente sulla pellicola la sinuosità del desiderio.
Il tenente McPherson (Dana Andrews) si addormenta ammirando il dipinto di Laura (Gene Tierney): la cinepresa si avvicina riprendendolo in primo piano. Poi si allontana fino a inquadrarlo col grande dipinto sullo sfondo: è solo nella dimensione del sogno che Laura può resuscitare. La macchina da presa, indietreggiando, magnifica il trionfo del desiderio. Stacco. In carne e ossa, Laura entra nella stanza. Tra miraggio e miracolo.
Martha (Margit Carstensen) incontra Helmut (Karlheinz Böhm) nel cortile dell'ambasciata tedesca a Roma. Colpo di fulmine. Nelle mani di Fassbinder il desiderio esprime l'impossibilità di sottrarsi alla logica del possesso. Il carrello circolare intorno a Martha disegna l'inesorabilità della morsa affettiva: desiderare è già essere prigionieri di una geometria alienante.
Con Benoît Régent, Johanna Ter Steege, Yann Collette, Edith Boulogne
Tutto il film è fondato sul desiderio di un fantasma: Marianne (Johanna ter Steege) incarna Nico, la sua inafferrabilità. I primi piani di Garrel non fanno che ripetere ossessivamente la stessa idea: lei non è qui. Più le inquadrature fissano il soggetto ripreso, più l'oggetto del desiderio svanisce. Una fredda cinepresa al posto del cuore.
C'è solo un modo per non violare l'intima fusione di Shigeru e Takako nel surf: riprenderli da lontano. Di un pudore lancinante, i campi lunghi di Kitano contemplano la loro comunione sublimandola rispettosamente. La distanza sostanzia il desiderio. Anzi, è il desiderio stesso.
Con Yang Kuei-Mei, Lee Kang-sheng, Chen Shiang-chyi, Miao Tian, Kiyonobu Mitamura
In un cinema di Taipei è in programmazione l'ultimo spettacolo prima della chiusura definitiva della sala: la proiezione del classico Dragon Inn (wuxia girato nel 1967 proprio a Taiwan). Un piano fisso della durata di alcuni minuti mostra la cassiera zoppa che, alla fine dello spettacolo, ripulisce lentamente la sala ed esce di scena. Evacuata dagli esseri umani, la sala irradia desiderio allo stato puro. E la cinepresa lo riprende senza stacchi: "In fase di montaggio tutti mi consigliavano di tagliare, ma non l'ho nemmeno preso in considerazione, secondo me c'è una grande gioia in quella scena, in quel vuoto, mi sento felice all'idea di avere in un film una scena del genere" (Tsai Ming-liang).
Con Julie Sokolowski, Yassine Salihine, David Dewaele, Karl Sarafidis
Céline (Julie Sokolowski) viene cacciata dal convento perché si rifiuta di obbedire alla regola, sottoponendosi a eccessive umiliazioni corporali. Il suo rapporto col Cristo non è di ordine spirituale, ma erotico: lo desidera come un'innamorata desidera l'amato. Dumont riprende a lungo e da vicino la sofferenza di Céline per l'assenza dell'oggetto del desiderio. Rinunciando al Cinemascope, il cineasta francese fa dell’inquadratura stretta il chiostro in cui l’involucro carnale trapassa il reale per trasfigurare in desiderio: "È un paesaggio interiore che filmo. Penso che dovreste vedere Hadewijch non come un personaggio, ma come un sentimento. È puro sentimento, è l’incarnazione del nostro bisogno di amare ed essere amati. Di fatto, è un’astrazione" (Bruno Dumont).
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