Riflettendo sui limiti della natura umana e sull’eventuale loro superamento. Sulla libertà di autodeterminarsi. Sull’umana paura di morire. Mezzo di contrasto sono gli androidi, come Rachel, che per la loro perfezione tecnologica sostanzialmente non si differenziano dagli uomini. Se anch’essi possiedono sentimenti, se possono piangere, se hanno ricordi sia pure innestati ma che essi ritengono autentici, cosa impedisce che anch’essi possano essere amati anziché “ritirati”? Significativa la loro ossessione per le foto che fanno da trait d’union con il passato, sia pure fittizio. Rachel porta sempre con sé la foto che mostra della sua infanzia, con la madre, sugli scalini di casa. Già, la madre. La mente corre a David, il bambino androide di A.I. Artificial Intelligence. Tecnicamente un congegno ma in realtà una vera creatura cosciente e sensibile, ossessionato dall’idea di dover perdere un giorno la madre umana adottiva e quindi il suo affetto: “Quanto vivrai? Un giorno morirai? Spero che non morirai mai, mamma; tienimi al sicuro, dimmi che non resterò solo”. Ma la madre umana lo lascia solo, ben prima della propria morte naturale. Ecco perché agli uomini, incapaci di curarsi dei sentimenti altrui, per inciso, non sarà mai consentito di creare congegni coscienti e sensibili. E qui entra prepotente il tema del male, della violenza che gli umani tendono ad esercitare su ciò che non riescono a controllare, ma, a dirla tutta, anche su ciò che controllano. E allora ritroviamo anticipate le atmosfere sinistre di Blade Runner in Orwell 1984. Qui sono gli stessi uomini ad essere ridotti ad automi, educati a non pensare liberamente, a non amare. Così quando Winston viene sorpreso ad amare Giulia dovrà pagare con la vita come si conviene in un tipico progetto collettivista che annulla l’individuo. Non prima però d’aver confessato il suo tremendo delitto al grande inquisitore, perfido aguzzino dai modi paterni. Anche Logan, ne La fuga di Logan, preferisce insieme a Jessica i rischi della libertà alla rassicurante menzogna del Carousel, mistificante mattanza dei trentenni spacciato per rito di rinascita, in una società ove ogni comfort è assicurato ai suoi abitanti purché rispettino la legge suprema che vieta a tutti d’invecchiare. Ma tornando a Blade Runner, quando Rachel si rende conto d’essere un androide cede alla disperazione. È questo il dramma dei cyborg: scoprire di essere degli oggetti, alla mercé dell’uomo creatore sebbene non necessariamente superiore. Anzi, l’umanità è qui rappresentata come una specie al crepuscolo ormai geneticamente degenerata. Fa eccezione il “blade runner” Deckard che, però, si scoprirà essere pure lui un androide. Viene in mente un telefilm di molti anni fa, forse dal titolo “La vita sul filo”, che raccontava di un uomo che intuisce di essere un individuo virtuale di una realtà virtuale esistente all’interno di un elaboratore. Egli riesce a comunicare con il tecnico informatico che governa la macchina e determina gli eventi; in qualche modo riesce a compiere il salto che lo porta fuori in quello che egli ritiene essere il mondo reale per scoprire, però, che anche questa realtà è virtuale, rispetto ad un'altra di livello superiore come in una sorta di architettura a scatole cinesi. Qui ciò che appare reale in un dato livello è invece virtuale per un altro livello. Il risultato è l’inevitabile incertezza sulla propria e sull’altrui identità. “Non so chi sono, non mi ricordo”, “Tu non sei vero”, “Sei tu che non sei vero”: si rinfacciano i personaggi di Nirvana, il film di Salvatores che in parte sicuramente s’ispira a questo racconto. Qui però il protagonista, Solo, non aspira al salto dimensionale bensì all’annichilimento. In fondo, sembra dire Salvatores, non è che tra il mondo virtuale e quello reale le differenze siano così radicali. Solo, commenta il compianto Kezich, “incarna con dolente buffoneria e vulnerato buonsenso il diffuso malessere del nostro mondo come ci appare nei momenti di pessimismo: un contesto dai destini segnati, irrespirabile, senza più slanci né speranze. Una società suicida che non crede più alla propria possibilità di palingenesi, ma sogna soltanto di farsi assorbire e placarsi in quell’universo superiore chiamato Nirvana dai cultori di orientalismi”. Il filo conduttore di questa riflessione che immagina il futuro è in ogni caso la fuga, quanto meno tentata, da una realtà opprimente verso una qualche forma di liberazione o di trasmutazione. Il piccolo David abbandonato nel bosco, rammenta la fiaba di Pinocchio che la madre gli leggeva a letto, e va alla ricerca della Fata Turchina che faccia diventare anche lui un bambino reale per essere amato appieno dalla mamma adorata. Alla fine del suo lungo viaggio irto di pericoli e dopo un sonno lungo dei secoli, incontrerà degli alieni benevoli che, nonostante la loro avanzata tecnologia, non potranno realizzare che in modo illusorio e per un breve istante il suo sogno. Il futuro intravisto in tutti questi scenari è comunque insoddisfacente: la specie umana è in estinzione e persino gli automi sperano nella magia, parente povero della religione. Tutt’al più può esservi qualche incursione nella spiritualità New Age con la prospettiva dell’assorbimento in una condizione di quiete impersonale con lo spegnimento di tutti i ricordi, i sogni e gli affetti di ogni uomo transitato per un breve istante su questo sciagurato pianeta.
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