Non ho la presunzione di sapere veramente qualcosa, soprattutto di cinema; tuttavia, leggendo la playlist di rollo tommasi non ho potuto fare a meno di pormi una domanda: che eredita lascia questa stagione cinematografica giunta sulla linea del traguardo? Le mancanze del presente sono sotto gli occhi di tutti, e la play menzionata sembra ergersi a termometro poco confutabile dell’attuale situazione qualitativa. Vorrei invece accendere un altro fiammifero, ma nella direzione opposta: guardare l’ultimo residuo di questo decennio, ergo l’anno domini 2008-2009, come luogo di osservazione; rotta? Il cinema (del) futuro. Ci sono stati dei film, o in scala più ridotta delle scene, dei fotogrammi, che abbiamo vissuto con occhio inedito? Dei percorsi imperturbati che cinefili, spettatori e addetti ai lavori dovrebbero osservare come sintomi e laboratori del cinema prossimo? Nuovi burroni, da cui sono deflagrate le schegge che contengono la risposta alla domanda “cosa sarà il cinema?” Secondo il sottoscritto sì; forse in misura maggiore delle annate precedenti. Precisazione: il mio non vuole essere un discorso necessariamente qualitativo, che si prefigge di scivolare in una guida ai film migliori della stagione; voglio solo indagare sui margini consentiti dal presente, cercando il “demone sotto la pelle” dell’oggi che potrebbe alimentare il corpo cinema, mutandone/evolvendone/futurizzandone il linguaggio. Rohmer più di cinquant’anni fa pose una distinzione discutibile ma affascinante e analiticamente fondamentale, tra ciò che si configura come CINEMA (faceva riferimento a Hitch, Renoir, –l’amato- Rossellini), e il resto, “banalmente” dei film che non sono cinema perché utilizzano categorie artistiche consolidate (il futuro regista prendeva in considerazione persino lavori celebrati di indubbio valore artistico, come LUCI DELLA RIBALTA, LA REGINA D’AFRICA, UMBERTO D). Tesaurizzando la lezione di Rohmer, perché non restituire una risposta aggiornata alla stagione appena conclusa? Secondo Rohmer l’identità delle pellicole che sono CINEMA e non FILM segue il comandamento “bisogna assolutamente essere moderni” (A. Rimbaud), e quindi non solo rappresentare il proprio tempo, ma prima di tutto essere un’arte nuova, non solo parlare della modernità, ma innanzitutto, esteticamente, viverla. Anche con il rischio di precorrere il proprio tempo, o di essere compresi solo dai decenni che devono ancora nascere, o peggio ancora, come diceva il buon Baudelaire “quanti fiori a malincuore effondono il dolce profumo dei segreti nelle solitudini profonde”. Ebbene, abbiamo visto CINEMA o solo FILM? Qui propongo un pugno di “magnifici sette” che spero possano chiarire questi brani di “preveggenza”, sapendo che a guidare queste scelte è una soggettività non sovrana, ma cangiante di anima in anima, per cui ciascun utente può realizzare una personale visione di quanto ha visto, guidato da una propria concezione di arte cinematografica, o meglio ancora da ciò che potrebbe essere l’arte (o la non arte) del cinema futuro. In secondo luogo, a demolire questa playlist è la relatività del mio punto di vista, dovuta anche a molti fattori oggettivi, come : - la scarsa penetrazione nel nostro sistema distributivo di titoli internazionali che non siano made in Hollywood o portino la firma di autori lontani dall’Europa centrale (posso ritenermi già abbastanza fortunato di aver visto al Far Est di Udine il film – bellissimo- DEPARTURES, fresco premio Oscar come miglior film straniero), in un momento in cui invece è proprio il resto del mondo (dal cinema sudamericano, all’estremo oriente, al cinema africano, a quello iraniano…) a cercare, ancor prima di una voce, la necessità di un nuovo sguardo; - l’arretratezza dei canali comunicativi tradizionali, del “quarto potere” e quindi della critica cinematografica quotidianista, con sempre meno spazio a disposizione, sempre più responsabilità critiche da dover abbandonare (sic) e di conseguenza una metamorfosi della mutilazione creata dal gap che si sta creando tra l’evoluzione del cinema e gli strumenti con cui (non) farlo conoscere al grande pubblico; solo le riviste specializzate e la rete salvano il salvabile (ma non tutte, perché le riviste più vendute - CIAK in primis - sono alla mercé di un’ illustrazione del cinema che sta riducendo la critica a giornalismo cinematografico, ergo a pubblicizzazione/valorizzazione/sciacallaggio dei soliti volti noti, senza badare al vero ruolo del critico (e RATATOUILLE insegna) che non è solo quello di pseudo-giudicare, ma soprattutto difendere e scovare le novità che altrimenti troverebbero spazio unicamente nel dimenticatoio).
In ultimo: - mancheranno sicuramente alcuni film straordinari, perché appunto FILM e non CINEMA (secondo quanto Rohmer dixit); - Concentrarsi su ciò che è CINEMA non significa limitarsi all’aspetto estetico di un film (motivo per cui ho escluso tutti i film in 3D, una tecnologia che raramente ha azzardato riflettere sulle proprie priorità artistiche, configurandosi purtroppo come un abuso fine a se stesso, l’accessorio inedito da accorpare nel racconto).
Ricordo ancora che parliamo di una playlist che vuole, un po’ per gioco un po’ per spirito critico, scandagliare tra ciò che è stato il CINEMA in quest’annata, quindi tra i titoli che, nel bene e nel male, piacciano o non piacciano, palesemente o sotterraneamente, possono essere indicizzati come moderni, come compenetrazione di una narrazione, o di un’estetica, e più in generale di un’idea di cinema che si può dichiarare moderna. Influenzeranno la futura fenomenologia cinematografica oppure resteranno dei casi isolati, ma ricchissimi?
Titolo originale Encounters at the End of the World
Regia di Werner Herzog
Con Ryan Andrew Evans, Werner Herzog
Dal più grande regista vivente. E non bastano le parole per descrivere “Encounters”. Negli ultimi anni Herzog sta attuando una personale rivoluzione al concetto di documentario. GRIZZLY MAN e L’IGNOTO SPAZIO PROFONDO sono gli araldi di un cinema che distrugge la nostra percezione: il documentario è sempre più scheletro nell’orizzonte sconfinato di Herzog, un ulteriore telecamera con cui indagare, filosofeggiare, cercare, rifiutare fallaci risposte. E’ un cinema della domanda infinita e continuamente inappagata, che ha una trasparenza inaudita: sembra sempre più “ridotto” a voce! Non si tratta più di documentari, ma strutturalmente di una pagina diaristica/saggistica che usa il documentario, come se non ci fosse più urgenza di ricorrere ad una storia di fiction per raccontare un contenuto: rinunciare ad una narrazione, a una storia, o almeno circoscriverla, per arrivare direttamente al cuore, a pensieri e parole che sono le testimonianze di un profeta/veggente. Documentari o un possibile ignoto genere, ovvero la poesia cinematografica? Qualcuno potrebbe dire con maggior correttezza che siamo in presenza di poemi, perché il germe più radicale e abbacinante risiede sicuramente nel mosaico visivo degli ultimi film del regista tedesco: e chiunque abbia visto ENCOUNTERS forse capisce di cosa sto parlando: l’immagine è un viaggio di incontaminata bellezza, che in più di qualunque altro esperimento herzogiano, vuole liberarsi, librarsi dal film stesso, avere una vita autonoma. E cosa ancora più importante, questi fotogrammi sembrano perfino sottrarsi al controllo del regista, come mai prima d’ora. Conseguenza: un’estasi artistica che forse proviene dal futuro, e probabilmente non siamo ancora preparati a comprendere.
Danimarca, Germania, Francia, Svezia, Italia, Polonia
durata 100'
Titolo originale Antichrist
Regia di Lars von Trier
Con Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg
Un film “monstre” e di cui non è facile parlare. Ma di cui bisogna parlare! Questo sito ha regalato opinioni molto opposte su ANTICHRIST, rispecchiando l’andamento che da Cannes in poi ha ricevuto un po’ dappertutto. Cosa pensare allora? Abbandoniamo i giudizi qualitativi e l’idea che ciascuno ha di Von Trier… Se concepiamo ANTICHRIST come un’esperienza estetica, come un “essere moderno”, sbaglieremmo a dire che è il film più radicale della stagione? Sembra di vedere un film del 2029 non del 2009…almeno a livello linguistico. Prologo ed epilogo sono qualcosa di inedito, il modo stesso in cui Von Trier ha concepito queste infernali “scene da un matrimonio” sembra staccarsi dai modelli di cinema preesistente, proponendo un panorama inesplorato nello sfruttamento dell’immagine (penso all’estenuante concezione del rallenti negli episodi onirici). Si può anche odiarlo, ma possiamo negare che potrebbe influenzare il cinema che verrà? Sembra stare a Von Trier come PERSONA sta a Bergman.
Israele, Germania, Francia, USA, Finlandia, Svizzera, Belgio, Australia
durata 90'
Titolo originale Waltz with Bashir
Regia di Ari Folman
Un capolavoro che non avrebbe bisogno di essere ulteriormente commentato. La portata di VALZER CON BASHIR è direi quasi storica per l’animazione, riesce dove persino PERSEPOLIS aveva tentennato: impiegare l’animazione come strumento espressivo e visionario. In anni in cui purtroppo la PIXAR fa la voce grossa (sarò impopolare, ma non sopporto molto la casa di Lassetter), il cinema d’animazione si piega ai problemi della rimozione psichica, del contraccolpo postbellico, del disorientamento totale e più in generale nazionale che un conflitto innesca senza più riparare. Avevate mai visto niente di simile? Bisogna volare in oriente per riparare a certe lacune dell’animazione occidentale. Ma VALZER CON BASHIR, si spinge persino oltre: fotografa l’onirico, coniuga FULL METAL JACKET ai sogni di Fellini, e cerca interrogativi come un documentario che si trasforma in tour de force nella mente. Irripetibile?
La scelta apparentemente più “insana” della playlist. Cos’ha di nuovo IL MATRIMONIO DI LORNA? I Dardenne hanno già decantato la loro ricerca formale nei film precedenti, da ROSETTA a IL FIGLIO. Eppure IL MATRIMONIO DI LORNA è un capitolo nuovo nella produzione dei due fratelli. Così come Rossellini dopo il Neorealismo, e quindi dalla registrazione del reale, passò all’analisi della realtà, anche i Dardenne hanno stravolto i canoni intransigenti che li hanno resi famosi. Certamente IL MATRIMONIO DI LORNA non è un film radicale, non porta con se le innovazioni tecnologiche di un CORALINE, ma guardatelo bene... si può non definirlo un film MODERNO? In perfetta sintonia con il caos del nostro tempo, con i problemi che globalizzazione e immigrazione si portano dietro; eppure i Dardenne non si accontentano di guardare: “pedinano” la protagonista come nel passato, ma poi scelgono l’arte del cinema, osservando non più (o almeno non solo) la realtà in quanto oggetto: un cinema della dignità che come il Rossellini di STROMBOLI parte dalle cose, dal paesaggio, per avvicinarsi all’esterno violabile, nella nozione al limite del soggettivo di un realismo che vuole mantenersi tale, osservare “dal di fuori” le evoluzioni.
Il cinema francese più di qualunque altra cinematografia europea sembra rinascere. E ogni reincarnazione comporta il problema di pennellare un’identità. La sua forza è quella di essere un cinema aperto: ogni voce sta pretendendo il suo spazio. LA CLASSE si china artisticamente per raccogliere il furore delle periferie, per dare un microfono con cui sfogare ragioni e contraddizioni del dialogo tra emarginati e Sistema. Un lavoro di tesi, antitesi e sintesi straordinario, collegato in presa diretta con la contemporaneità, con al centro l’istituzione scuola per ciò che è, senza infingimenti e facili soluzioni argomentative. Un nuovo taglio realistico + una profonda comprensione dell’attuale stagione del mondo + una telecamera che ha imparato ad aspettare i comportamenti umani e non pretendere di giudicare le reazioni (così come Kechiche, un altro nome da tenere d’occhio, che con LA SCHIVATA e COUS COUS smentisce tutti gli apocalittici del motto “il cinema sta morendo”).
Abbandonate la Storia per come è stata sempre concepita, soprattutto dal cinema americano. Il “Che” di Soderbergh, spezzato in due dalla distribuzione, non è un “bel” film: la sua estetica è ruvida, ottusa, estremamente e perennemente contratta. Un film inavvicinabile e più di ogni altra cosa - sembrerebbe una contraddizione dato che il cinema è prima di tutto un’esperienza visiva- imperscrutabile. Quali sono i sentimenti, le sensazioni del Che? Lo sappiamo solo quando gli occhi si spengono, quando il rivoluzionario è ridisceso a uomo e può finalmente svestirsi dallo stoicismo; e il film di Soderbergh ha come priorità rispettare all’estremo Che Guevara: non vuole martirizzarlo, non vuole miracolarlo, eppure, scegliendo di annullare la narrazione per essere volontariamente soltanto cronaca, non decide di mostrarlo per quella che è la sua virtù più rivoluzionarmente “umana”, il seguire un ideale fino in fondo? Hanno detto che è un film freddo, ma proprio il rigore che Soderbergh si impone per mostrare ciò che è stato e non ciò che avremmo voluto che sia, dovrebbe farci pensare in direzione opposta. Il suo rispetto assoluto dell’uomo Guevara e della sua virtù di rivoluzionario. Credo che pochi l’abbiano apprezzato come merita, anche perché una piccola grande “revolution” la pone davvero: si può filmare un biopic manipolandolo - ed è stata quasi sempre una prerogativa del cinema o per banalizzare la vita di un singolo (e le fiction tv lo sottoscrivono) o per elevarlo alla rappresentazione di un’ambizione più grande (AMADEUS, BARRY LYNDON, PAT GARRETT & BILLY THE KID, o ancora - tanto per sconfinare: non è quello che ha fatto un certo William Shakespeare…..), oppure provare coraggiosamente a riprodurne l’integrità, magari anche rinunciando all’emozione.
Con Morjana Alaoui, Mylène Jampanoï, Catherine Bégin, Robert Toupin, Patricia Tulasne
Ecce horror. Uno delle pratiche filmiche più sconvolgenti dell’annata e forse la più controversa, moralmente parlando. Un boomerang di violenza intollerabile che si ritorce sullo spettatore o qualcosa di più che un’esperienza formale? A prescindere dai (per molti presunti) meriti artistici, MARTYRS comunque non si può cancellare facilmente, neanche volendo esorcizzarlo come un manifesto di violenza espansa e irrazionale: cosa sarà l’horror dopo questa frontiera??? Farà da lanterna per i film di genere che verranno? L’horror ha sempre cercato di sfidare lo spettatore, stupire chi è abituato a leggere cronaca nera o non si impressiona con una sragionata dose di sangue e amputazioni sullo schermo. Eppure MARTYRS deve aver sfondato molte colonne d’Ercole se perfino stomaci cinematograficamente testati hanno invocato il disgusto. Se MARTYRS insegna, in futuro dovremo aspettarci una dose sempre più massiccia di efferatezza; ma è solo questo l’aspetto più appariscente del film? MARTYRS, almeno secondo il sottoscritto, non è stato un esperimento del disgusto fedele al monito "violenta il pubblico più che puoi". In questa parabola c’è uno straordinario senso di moralità, che in alcuni casi proprio i moralisti non hanno colto: possibile non vedere che trattando un argomento così delicato, si può raggiungere la nobiltà del martirio solo passando per l’abominio del supplizio umano e del disgusto suscitato dal comportamento degli uomini? Non è una storia lontana da LA PASSIONE DI GIOVANNA D’ARCO di Dreyer, al di là dell’opinione che possiamo avere sul valore del film. Di conseguenza ecco la più grande novità di MARTYRS: ha dato all’horror un senso morale, una dignità che forse non ho mai visto sinora.
Non ci sono nick associati al tuo profilo Facebook, ma c'è un nick con lo stesso indirizzo email: abbiamo mandato un memo con i dati per fare login. Puoi collegare il tuo nick FilmTv.it col profilo Facebook dalla tua home page personale.
Non ci sono nick associati al tuo profilo Facebook? Vuoi registrarti ora? Ci vorranno pochi istanti. Ok
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta