“Ristruttureremo il Cinema Verdi. Ma solo se i reggiani prometteranno di andarci”.
Nel silenzio si potevano udire i grumi di colesterolo staccarsi dalle pareti delle arterie dei convenuti per impiantarsi direttamente nei rispettivi cervelli. “Io ha tanto soldi, che vuole spendere per cineme qui, in Regg-i-o Emi-l-i-a”. Sorriso. Qualcuno venne nelle mutande, grugnendo. La parola “soldi” non si udiva in tutta la sua franca, salvifica volgarità ormai da anni, troppo spesso eufemizzata in pittoresche acrobazie lessicali politichesi come “risorse” “disponibilità” “quantum” (pocum, di solito). Per udirla solennemente declamata c’era voluto un misconosciuto regista e sceneggiatore inglese che chissà perché, si era innamorato dell’ammorbante cittadina medio padana ed era disposto ad investire per il cinema. Temendo di non farsi capire, nella costruzione del suo pensiero fu fanciullesco. E fu capito. Attorno al tavolo insieme alla giornalista del Resto del Carlino c’erano i maggiori esponenti dell’attività cinematografica reggiana in quella che avrebbe dovuto essere la tavola rotonda per risolvere una volta per tutte il disastroso problema delle sale cinematografiche del centro storico. Ovvero la loro totale mancanza. C’era il Cineclub Peyote; c’era un vecchio gestore di cinema dai seggiolini appiccicosi che negli anni 80 era in grado di proiettare al pomeriggio “Goldrake contro Mazinga” e alla sera “Le cosce bagnate di tua sorella”; c’era l’Arci; c’era il regista e sceneggiatore inglese con il sacchetto delle monete nella parte di Pinocchio; c’erano alberi sotto cui seppellire il danaro; c’erano gatti e volpi sbavanti.
E poi l’assessore alla cultura, alto e curato, flessuoso in favore di vento come il ruolo istituzionale richiede, l’eleganza del miglior manichino promosso in vetrina e dotato della stessa meccanica mobilità.
E poi l’assessore al Centro Storico, liquido e anticonvenzionale, sempre con un maglioncino scuro da madrigalista e questo suo ipnotico modo di muovere le mani come fossero polipi in agonia. Egli riesce a comporre interi periodi senza usare un verbo, usa una settima forma pronominale oltre le conosciute in modo che sembri che tutto succeda per colpa/merito ne’ sua, ne’ tua, ne’ mia, ne’ loro, ne’ vostra, ne’ nostra. Succede, punto.
Reggio Emilia è una città strana. Il suo centro non ha più un cinema praticabile ma ha tanti negozi Kebab-farmacia-telefonia-sala operatoria-macelleria. E le ultime due attività affiancate mi fanno sospettare un po’ della prima.
Nell’immediata periferia sorgono quattro o cinque sale d’essai gestite col sangue di volontari/rapa capaci di miracoli. In compenso si organizza uno dei più importanti festival italiani del cortometraggio: Il Reggio Film Festival e l’Ufficio cinema organizza tutte le estati la Notte Bianca del Cinema e eventi collaterali legati al mondo della settima arte. A Reggio Emilia il cinema è importante. Solo che non si vede.
Dalla riunione non è uscito nulla se non un trionfale articolo sul quotidiano e un sondaggio estemporaneo tra i lettori per dare una risposta alla delirante dichiarazione iniziale dell’Assessore alla Cultura. I reggiani hanno risposto “si, ci andremo”. Peccato che quasi nessuno conosca la Sala Verdi, posta proprio sopra il bellissimo, barocco teatro Ariosto. Proprio di fianco al prestigioso Teatro Valli. Perché la Sala Verdi fa parte del trascorso culturale della città, sommersa da tonnellate di kebab, molto più redditizi. Comunque, la Sala Verdi è ancora lì nel suo splendido passato.
E’ in questo contesto che il Cineclub Peyote si muove.
Cos’è un Cineclub? E’ un luogo della mente prima di tutto, visto che un Cineclub non ha mai abbastanza risorse per permettersi una sede. In questo senso chiamarsi Peyote aiuta.
Il Cineclub Peyote è inserito come ospite in una libreria-casa editrice incastrata all’interno di un ardito complesso architettonico restaurato, dato in gestione ad una manciata di atelier e successivamente tradito dalle istituzioni, dal nome post-industriale/post moderno di Officina delle Arti. Facendo un parallelo medico-antropologico , il Cineclub Peyote è come un globulo rosso all’interno di un ciccione in coma.
Il suo ingresso è in favore di una strada a senso unico bilaterale contrapposto palindromo crittografico, quindi irraggiungibile da chi non conosce il posto, inspiegabile da chi deve dare indicazioni per arrivarci. Al suo interno si cerca di fare cultura.
Da qui, ogni mese, va in scena il Gran Guignol organizzativo del direttivo, composto da quattordici persone poste in cerchio come in una riunione di autocoscienza sinistrorsa pre “anni di piombo” o meglio ancora un’ adunanza di Aspiranti Suicidi Anonimi o almeno Autolesionisti. Il Sabba mensile del direttivo impone Dolore Lacrime e Sangue. Accuse e urla. Dita protese a indicare il colpevole di orribili misfatti, mentre si sciorina la lista dei film favoriti da cui trarre una rassegna che sia degna di essere vissuta. Lamenti e grugniti di disapprovazione alle mozioni di gente che promette, non verrà più per la trentaquattresima volta. Mentre si sgrana il rosario delle date papabili per il prossimo corso di cinema. Cultori del cinema russo che straparlano, fomentatori d’odio sciamano furtivi tra i convenuti a spargere fiele con la mano a coppa sull’orecchio del vicino e poi di quello accanto e accanto ancora. Esteti del più bieco cinema mainstream che non capiscono il lavoro di un coreano e il vassallo del cinema orientale che trama nell’ombra affinché quel nuovo film d’azione non venga neppure nominato. Sorrisi incrostati di bile, visi color epatite, sbuffi, sospiri, e stancamente la tempesta si quieta in una risacca dal silenzio di rane impaludate e immobili, felici, sotto un cielo di nuovo stellato.
Si dice che il cinema sia cultura, che apra la mente. Non è vero. E’ solo un modo come un altro per imporre la propria ributtante personalità sugli altri, solo con un pretesto di nobiltà riconosciuta. Uno stratagemma per esibire un comparto nozionistico e citazionistico annichilente, spacciandolo per sapere. Cosa che per esempio non succede, benché le dinamiche intellettuali Biscardiane siano le medesime, con i tifosi del pallone.
E così spacciamo la nostra visione lorda di sudore sugli altri, il cinema che non si vede, che non importa a nessuno, noi lo prendiamo lo ripuliamo dalle ragnatele e dalla polvere, gli diamo una forma che i più neppure conoscono e lo diamo in pasto ai nostri seguaci di un misterioso piccolo cinema resistente di una frazione pedecollinare della provincia di Reggio Emilia. Il cinema Eden dal quale Adamo ed Eva uscirono alla fine del primo tempo poiché sorpresi a pomiciare.
Tutto funziona però, misteriosamente, le cose succedono. I film ci sono, vengono proiettati e piacciono. Ci siamo inventati una cosuccia semplice semplice per fare votare gli spettatori all’uscita del cinema e far sentire la voce dei paganti ha avuto un successo strepitoso. I risultati pubblicati su internet, sul nostro sito. I corsi di cinema sono frequentati, graditi e nominati di bocca in bocca. E’ un miracolo. Il vuoto pneumatico dell’offerta cinematografica di Reggio Emilia favorisce chi ha un po’ di iniziativa, un po’ di coraggio mista a faccia di culo. Bisogna crederci e gli altri ci crederanno di conseguenza. Poiché a Reggio quando sei morto, muoiono tutti. E’ un piccolo paesone che si atteggia a città, un corpo unico formato dai corpi di tanti morti. Basta dare corrente e qualcosa prima o poi, si muove.
La resistenza cinematografica dal vago sapore nostalgico del bel tempo che fu che nessuno ha mai vissuto, al limite millantato, si trova in piena concorrenza con Il Multisala. Ne esistono due. Più altri due in provincia. Più altri due nelle città vicine. Quaranta sale per 8 film. Il Mausoleo di plexiglass e plastica colorata che ricorda il palazzo de “La terra dei morti viventi” di Romero, ogni sera viene assediata da piccoli zombi adolescenti. Solo che a differenza del film, lì li fanno entrare volentieri. Piccole pubescenti lolite a pancia fuori, gamba corta e culo basso come si conviene alle piccole padane cresciute a lasagne, Ipod nano & touch munite. Piccoli tamarri dalla pettinatura a schiaffoni, motorizzati e dallo sguardo reduce da un nulla profondo. Bar Trendy, e Zara che si impone con tre negozi tre. Attorno un corollario parassitario di negonzi, i luoghi di attrattiva per esseri nanocerebral, luccicosi e colmi delle ultime novità, qualsiasi esse siano. Ristoranti dal nome tipico della catena presente in altri multisala, come una plastificata origine Dop, sinonimo di garanzia che rassicura sull’assoluta medietà del cibo proposto. Sopra, il cinema. E gente alla cassa che si fa fare estemporanee sinossi dei film proposti da stanche, ciancicanti cassiere, poiché non sanno. Non sanno che fanno lì, se non passare due ore e scacciare quel tempo che trasforma in noia l’anoressia intellettuale. Non sanno ciò che vedono e non gli importa: “che cosa vediamo caro? Non so, non mi importa” (citazione cinefila, chi indovina vince il libro Depilarsi col Pilates: manuale di flessibilità estetica). Qui il Peyote non attecchisce, non mette radici, non ha tempo di spargere i suoi effetti psichedelici. Qui tutto è palese, programmato e firmato. Questi giovani uomini non si rendono conto che si recano in un posto in cui troveranno esattamente ciò che si aspettano di trovare, prodotti perfettamente collimanti con le basse esigenze di cui sono portatori gli adolescenti se non stimolati a dovere. Qui tutto è lucido e riflettente, rassicurante, caledoscopicamente moltiplicato di facce uguali e imprigionate in codici di familiare interpretazione. Non abbiamo potere qui, noi del Cineclub, non possiamo mostrare un Kim ki duk e i suoi lancinanti uncini. Non possiamo osare un Gilliam e la sua disturbata bambina necrofila.
Non riusciremo mai ad avere tra i nostri frequentatori questi ragazzi, almeno finchè come i non-morti del film di Romero, non smetteranno di fissare ottusamente felici i “fiori del cielo”, le luci artificiali dei fuochi pirotecnici e abbandoneranno lo sguardo in un altrove più importante. Non possiamo competere con i telefonini accesi in sala, con gli schiamazzi e le urla da stadio, con i risucchi baritonali delle fante e delle cocacole. Non possiamo intervenire sui piedi appoggiati allo schienale davanti, i chiacchierio disinteressato. Noi resistiamo, nel nostro Gran Guignol mensile, la mestruazione in grado di liberare scorie e rendere fertile le nostre iniziative, partecipiamo alle riunioni del comune per risolvere le questioni del cinema nel centro di Reggio, luoghi ormai ridotti a buchi maleodoranti, abbandonati e neri come carie in bocca ad un tossico. Abbiamo la presunzione di fare cultura cinematografica, e quindi di vita ed educazione. Ma nulla si può a Reggio Emilia quando sei morto, se non hai nessuna voglia di risorgere.
Il direttore di un noto Quotidiano mi confidò di aver visto un bellissimo film. Questo. Mi sono buttato a terra appallottolandomi e fingendo di essere morto per non rispondere. Come gli armadilli.
Con Chen Shiang-chyi, Lee Kang-sheng, Hsiao Huan-wen, Hu Huan-wen, Lin Hui-xun
Proposto in rassegna ha suscitato le ire bipartisan di tutti i convenuti. Non c'è nulla da fare, l'anguria non va, non tira. Meglio Prosciutto Prosciutto, è più della nostra terra......
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