Vidi il primo film di Quentin in un gelido inverno in una rassegna sul noir che andava dagli anni ’50 e si chiudeva con “Le iene”. Non ressi la scena della tortura, uscii a bere una camomilla, poi rientrai e lo seguii fino alla fine. Poi fu tempo di “Pulp fiction”, lo vidi 3 volte al cinema e pensai che se il suo primo film era un capolavoro, adesso mi trovavo di fronte a un’opera anarchica e rivoluzionaria. A questo punto mi dissi che dopo due film del genere la successiva sorpresa di Quentin avrebbe potuto essere un film “normale”, più convenzionale, e in effetti fu la volta di “Jackie Brown”. Fu allora che, un po’ per gioco, mi venne da fare un parallelismo con Orson Welles: l’opera prima un capolavoro, poi un film convenzionale (“L’orgoglio degli Amberson”), infine l’ostracismo di Hollywood e tanta fatica per realizzare le perle successive. Era questo il futuro che presagivo per Quentin, perché lui era portatore di una ventata nuova, di un movimento sussultorio che scuoteva Hollywood dalle fondamenta e poteva portare il sistema a rivoltarglisi contro. Il film successivo dimostra che avevo torto: la sequenza iniziale di “Kill Bill” sulle note di “Bang bang” mi fece sperare in un nuovo capolavoro, trovai geniale l’idea di raccontare con un “anima” l’infanzia violata di Oren Ishee, discreto il fatto di un Bill sempre nell’ombra…ma tutto il resto…e il finale che rimanda e invoglia al capitolo successivo, veramente irritante. Ecco, lì pensai che Quentin si era venduto alle logiche di mercato, non c’era più un autore ma un abile mestierante che cavalcava l’onda. Vidi comunque il capitolo successivo ma non “Grindhouse”, mi sembrava davvero troppo. All’orizzonte si staglia “Inglorios basterds”, lo vedrò, nella speranza di cogliere qualche scheggia degli albori ma ad oggi Quentin mi ha deluso, perché mi sembra abbia buttato via il suo talento.
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