Scusate se approfitto di questo spazio per parlare di me. “Prima o poi arriva un tempo che parlare o stare muti è la stessa cosa. E allora è meglio starsi zitti”, affermava con sferzante lucidità Philippe Noiret in quel capolavoro che è “Nuovo cinema Paradiso”. Non condivido, è sempre meglio parlare. E quindi fiato. Per quanto manchi di autostima, devo però ammettere che in quest’ultimo anno sono cresciuto, credo in meglio. Già affermando ciò posso considerare il mio percorso di autostima ben avviato, ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare di perché sono cresciuto e grazie a che cosa sto maturando. L’immenso François Truffaut diceva che “i film sono più armoniosi della vita”. Io dico che la vita è il più interessante dei film. Spesso e volentieri ho il dubbio che tutto ciò che mi circonda sia il frutto della fantasia di un Autore, un po’ “The Truman Show”, e ritenendo questa balzana teoria allora, di conseguenza, talvolta comincio a vivere un film. Non recitare, ma vivere seguendo una ideale sceneggiatura mentale. Il deja-vu è cifra caratteristica della mia esistenza, anche perché “i ricordi ti seguono ovunque”. Questa è una battuta, a mio parere potentissima, contenuta in “Prima del tramonto”, quel dolce sequel di “Prima dell’alba”. Una storia d’amore. L’amore. In quest’ultimo anno si è acutizzato in me tale sentimento. Essendo un sentimentale (ma non dandolo accuratamente a dovere – ho una reputazione di cinico e sarcastico da mantenere…), sono sensibile a certe emozioni. Uno sguardo, mi basta uno sguardo per capire ciò che la persona che mi sta a cuore pensa di me. Il fatto è che però i sentimenti non sono sempre corrisposti, e, come diceva Meryl Streep in quel dio di film che è “I ponti di Madison County”, “l’amore non risponde sempre alle nostre aspettative”. E quindi io che ho fatto?, ho cercato di esorcizzare questo stato d’animo, in vari modi, innanzitutto scrivendo. Ecco, probabilmente questo mio sedicesimo anno di vita (fra sette giorni spegnerò la diciassettesima candelina) è stato quello in cui maggiormente ho dato sfogo alla mia adorabile bestia scrivente che abita dentro me. Non che fino a ieri non scrivessi, tutt’altro, ma quest’anno ho dato sfogo alla mia passione con impeto e ardore. Chi disse che fino a diciotto anni tutti scrivono, e dopo continuano solo i folli e i cretini, o qualcosa del genere? Non ricordo, anzi, non ricordo neppure quale fosse esattamente la frase. Io probabilmente da grande vorrò continuare a scrivere. Il mio sogno è quello di fare lo sceneggiatore, casomai il regista, ma soprattutto io ho desiderio di scrivere. Da sempre, questo, sì, posso dirlo con esattezza. Qualcuno dice che scrivere è solo un hobby, che non può essere un lavoro. È vero? Io non credo, perché le persone hanno bisogno di leggere ciò che gli altri hanno voluto imprimere sulla carta. Perché “le parole possono cambiare il mondo”, come diceva John Keating, ossia Robin Williams nello splendido “L’attimo fuggente”, ci sarà sempre qualcuno al mondo interessato a ciò che scrivi. E l’interesse può provocare una sensazione di felicità, o almeno di serenità. La felicità. Cos’è la felicità? Cosa deve pensare un ragazzo di sedici anni in merito a questa affascinante utopia? Io, indirettamente, ho già detto quel che penso a riguardo. Tutti abbiamo diritto alla felicità (Nanni Moretti ne fece un leitmotiv nella prima parte della sua carriera – chi se la scorda quella battuta in “Bianca” in cui diceva “La felicità è una cosa seria, se c’è deve essere assoluta”?), ma la felicità ha diritto a noi? Qual è lo scambio, il rapporto che si sviluppa tra noi e la felicità? Felicità è ciò che l’uomo reputa perfetto, no? Ma allora la perfezione esiste? Apostrofare un individuo od una cosa come perfetto/a si può? A questa domanda oggi rispondo con un sonoro “no”, ma forse già fra qualche anno avrò un’altra idea in merito. Perché questa è l’età in cui si formano nell’uomo il pensiero, la coscienza, la civiltà, e dunque i pensieri e le considerazione possono mutare da un momento all’altro. Quando, allora, potrò affermare ciò che realmente penso? Quando capirò realmente ciò che penso, quando sarò in grado di distinguere il Bene dal Male, il giusto dallo sbagliato, il vero dal falso. Uno mi disse, un giorno, che io vedo solo bianco e nero. Io risposi lui che sono una “sfumatura vivente”, che io non sono di un colore definibile, tutto in me è mutevole, in attesa della consacrazione umana. Se mi si chiede qual è il tratto principale del tuo carattere, io rispondo “la malinconia”. Proprio perché la malinconia è un sentimento soffuso, non nitido, né triste né allegro, una bizzarra e, oserei dire, tenera via di mezzo del periodo che vivo. Sì, molto probabilmente resterà la mia caratteristica preponderante, ma in maniera diversa. Oggi la malinconia rappresenta quel che di meglio c’è in me, perché in tale stato d’animo si incontrano tutte le componenti del mio essere. Sono un uomo in costruzione, un work in progress vivente (e soprattutto pensante), uno totalmente immerso nel suo racconto di formazione. Lo vivo con curiosità sorniona, in beffarda attesa. In attesa di un segnale. Quel segnale che mi darà la prova che sono diventato grande. Chissà se lo percepirò attraverso la visione di un film. In fondo se quest’anno è stato così importante è perché ho imparato a vivere attraverso e grazie i film. E quindi mi avvio a segnare una nuova tappa. Sarà fondamentale? Chissà. Diciassette anni. L’adolescenza nel suo culmine più estremo. “Sono molti, sono pochi?” si interrogava Vittorio Gassman a proposito dei suoi ottant’anni ne “La famiglia”. Sui miei diciassette, devo naturalmente dire che sono pochi, ma condivido il finale della sua considerazione, certo rapportato al mio momento esistenziale: “pare sia l’età più bella”.
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