Il bosco di incongruenze che mi delimita. Sciatte odi ad un D’io mai pregatosi. Fiori di carne che mi scivolano tra le dita, oliose prospettazioni d’un non possesso mai abbastanza perduto, di cui avvertire una mancanza ossea, zampillar d’arteriosi assilli e plasma. Gemiti gridati. Assenze limpide come i cieli che le contornano. Non tutto evita d’accadere per una qualche ragione, assai più spesso è l’opposto. Di cosa? E che volete che ne sappia, non posso mica far tutto io. Traslucide sagome di pin up anni ’50 reclamano il rancio. Offrono le di loro vellutate deformità quale dovuta caparra del mio Tacere. Nel mentre, cose d’ogni età e dimensione affollano uno spazio vitale saturo di gas ed umori. Vagabondi e fantasmi si raccontano fiabe scaldati dal terreo oscillare d’umani falò. E dal pianto vanitoso dei pagliacci di strada. Connetto di rado, assai più spesso mi nutro. Ogni dinamica demolitiva dovrebbe saper scendere a patti con la propria stessa, originaria e del tutto intima, ragion d’essere.
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