“SHE [LOUISE BROOKS] WOULD HAVE BEEN THE ULTIMATE ACTRESS, IF IT HADN'T BEEN FOR THE ALCOHOL.” (Augusto Genina).........
“PRIX DE BEAUTÉ” (MISS EUROPA) deve la sua nascita al genio creativo di Renè Clair che ne scrive sia il soggetto che la sceneggiatura (quest’ultima insieme a Georg W. Pabst) nell’ambito di una coalizione tra alcune case europee che si prefiggono lo scopo di arginare la travolgente avanzata delle majors hollywoodiane nel nostro continente nel corso degli anni trenta. La regia è invece affidata ad Augusto Genina, uno dei cineasti più versatili del cinema italiano, che dimostra in alcune sue opere, a parte la desecrabile parentesi militarista (“lo squadrone bianco”, “l’assedio dell’Alcazar”, “Bengasi”), una vera e propria vocazione europea, proteso spesso alla ricerca di una nuova ed originale rimodulazione del linguaggio fotografico ed affrancato dal vincoli imposti dalla cinematografia italiana, costantemente legata a vecchi moduli nazionali e regionali.
Ed ecco che Luise Brooks, dopo i travagliati fasti di “Lulù” ed un’incursione nel mondo del giallo (in un adattamento del capolavoro del grande giallista snob Philo Vance, “the canary murder case”) in aggiunta al pabstiano “Diario di una donna perduta”, torna senza grandi entusiasmi alla ribalta con questo travagliato “Miss Europa”, non convinta fino in fondo della validità del ruolo a lei assegnato. Ma le scoperte ambizioni degli autori saranno poi destinate in parte a naufragare sia a causa dell’infausta collocazione dell’opera nel bel mezzo della transizione tra muto e sonoro, con relativo scempio perpetrato ai danni della stessa tramite l’inserimento di un doppiaggio inadeguato (con la voce di una giovane Edith Piaf concessa in prestito alla protagonista), sia per la rocciosa resistenza opposta dalle varie censure europee nei confronti della libera divulgazione della pellicola, che oltretutto fu sottoposta a tutta una serie di sforbiciamenti correttivi. (In italia uscì con cinque anni di ritardo ed in piena estate).
Genina sa comunque come giocare al meglio le carte che si ritrova servite in mano e ci offre il desolante ritratto un’esistenza vogliosa di compiere un passo più grande della sua gamba per fuggire da una realtà che si preannuncia s(tinta) d’un grigio diffuso, finendo con l’essere irrimediabilmente stritolata dagli ingranaggi di un successo che non perdona ai suoi adepti un mancato approdo alla totale soddisfazione dei sensi.
E sì che il contrasto tra una squallida vita borghese in cui la donna percepisce a tratti l’impressione di un diffuso stato di cattività (e la metafora dell’uccello in gabbia che la protagonista si trova a contemplare con accorata malinconia è quanto mai calzante) ed i dorati fasti susseguenti all’immissione nella jet society dell’epoca non lascia adito a dubbi. Anche se probabilmente un abisso divide l’ambiente originario in cui si muove Lulù rispetto a quello di Lucienne, i due personaggi interpretati dalla splendida Louise Brooks hanno in comune non solamente la tragica discesa fino al fondo dell’abisso (molto più graduale nel caso dell’eroina pabstiana, più secco e tempestivo quello di Miss Europa) ma soprattutto una spiccata e fatale predilezione per una specie di olocausto autoindotto che passa, seppur con le opportune differenze per i due casi in questione, attraverso vari stadi di lussuria, ambizione, sensualità, concupiscenza ed autosublimazione del proprio io. Un io capriccioso, volubile, incostante, incapace di porre un freno all’ incombente precorrimento della sua successiva ed inevitabile perdita.
Traspare di primo acchitto in Genina il gusto del particolare, l’esaltazione di un trasfigurante meccanismo degli oggetti, priva del benché minimo accenno di autoreferenzialità. Automatismi che vengono trattati alla stregua di una materia vivente, mobilissima e palpitante, che si muove all’unisono con quella umana, tutt’altro che in posizione subordinata. “Non sono le immagini che contano ma il ritmo. E il ritmo non lo si impara. Si porta dentro”, afferma il regista a proposito di quella sorta di dinamismo oltre misura che costituisce una precisa cifra stilistica del film in questione e risalta particolarmente nelle sequenze di Neuilly relative ai movimenti delle masse tutte prese da un’irrefrenabile gioia di vivere e protese nell’esaltazione di un dilagante quanto velleitario progresso tecnologico. I volti spiritati dei personaggi paiono qui scolpiti nella durezza della roccia, in palese contrapposizione rispetto al viso eburneo di Lucienne/ Louise, che funge quasi da effetto frenante al frenetico movimento delle masse, del tutto avulsa da un delirio collettivo che infiamma i gangli nervosi della folla amorfa posseduta da una frenesia fallace di vita scandagliata in tutti i suoi aspetti, pervasa dall’illusione di chi è da poco emerso dagli incubi di una terribile guerra e non sa ancora che di lì a pochi anni si andrà a ricominciare ex novo. Sembra che a tratti il regista, accontentandosi di registrare freddamente ma senza drammatizzare, voglia quasi disinteressarsi del buon andamento narrativo per meglio fermarsi a registrare, alla maniera di un incalzante cinema verità dallo stile secco e bruciante e con la macchina da presa affrancata da eventuali momentanee smanie di soggettività, gli effluvi vitali che se la ridono dell’asfissia metropolitana profondendosi in una catarsi collettiva in grado di svincolare il singolo da eventuali angosce esistenziali grazie alla salvifica e beneaugurante visione di un benessere ormai ritenuto a portata di mano.
In questa storia di ordinaria incomprensione che si ripete più o meno col medesimo copione casalingo fino ai nostri giorni, Genina sembra a tratti anticipare Bergman, con il suo indice puntato sulla componente maschile tutta chiusa nel suo freddo egocentrismo, in netta controtendenza rispetto ad una maggiore apertura da parte della componente femminile che d’altra parte è costretta a scontare fino all’ultima goccia i suoi peccat(ucc)i di volubilità, fatuità e frivolezza.
Lo sguardo assorto del regista è gettato su un rapporto di coppia irto di compromessi e condizionamenti unilaterali e velato di palese pessimismo, cui si frappone come un macigno lo spettro di un destabilizzante successo cercato ed afferrato con tutti e cinque i sensi, ma il cui prezzo non può non essere quello del sangue. Dramma della gelosia che acceca e divide dunque. E significativo trattato sull’impossibilità di condurre una vita fuori del normale (od anche nel normale).
Ed il personaggio di Lucienne è modellato in tutto e per tutto su una figura di donna emergente dell’epoca, parzialmente insoddisfatta e vogliosa di realizzarsi ma nel contempo incapace di rendersi parte integrante di una sorta di frenesia collettiva da lei percepita come qualcosa di estraneo, dibattuta tra desiderio di adesione e rifiuto di partecipazione. E per restare sempre in tema di opposti, Genina fa un attento uso di un montaggio alternato che procede per antitesi tra il grigiore quotidiano degli ambienti di lavoro ed il frivolo fervore delle stanze in cui viene celebrato il mito della donna oggetto, da considerare al tempo stesso come una falsa emancipazione erroneamente percepita come tale ed una sorta di mercificazione del concetto di bellezza che comporta come conseguenza una vera e propria mortificazione della propria capacità raziocinante.
Louise Brooks, presente nel finale in una doppia contemporaneità, con la sua prorompente freschezza e con tutto il suo pallore cadaverico, dona l’intera anima ad un personaggio che va considerato ancora una volta come una tacita vittima sacrificale della propria febbre autodistruggente. E s’impone più che mai come simbolo di una volontà di rinnovamento destinata a creare un inevitabile contrasto tra le aspirazioni individuali che mirano ad un’elevazione protesa unicamente nella sfera materiale dell’estetica intesa come mero aspetto esteriore e la realtà di un mondo i cui perversi meccanismi divistici sono improntati ad un impietoso sfruttamento dell’essere “donna” in quanto inerme oggetto dell’altrui passione e preda della rapacità dell’occhio collettivo teso a soddisfare ad ogni costo la propria fame di voyeuristica concupiscenza. Ma la codificata mediocrità quotidiana risulta tutt’altro che congeniale ai vari ruoli di “femme fatale” da lei impersonati, le cui strade sono perennemente predestinate ad intrecciarsi negli itinerari segreti del destino in un inevitabile istradamento verso una rotta da cui ogni ritorno è inibito. Perché anche le icone soffrono e piangono e muoiono, perennemente obbligate a sorridere come fantasmi sullo schermo mentre la loro parte reale giace al suolo riversa. Ed è la fine di un mito........ Oh, no, no, è solamente l’inizio!
Con Louise Brooks, Georges Charlia, Augusto Bandini, André Nicolle
E sfila disinvolta e leggera Miss Europa, gambe al vento, tra ali di folla plaudente. Momenti di gloria fittizia che sopravvanzeranno, nonostante tutto, la storia. Non sopravvive il corpo ad una morte silenziosa ma la fama non conosce confini.
Con Louise Brooks, Georges Charlia, Augusto Bandini, André Nicolle
Ed è sempre lei, Lucienne, a menare le danze, la donna del mistero che non ha più nessun mistero dentro di sé da svelare nel tempo intercorrente tra una pausa e l’altra di vita. In attesa del canto di morte a tutto schermo, definitivamente (im)palpabile.
Con Louise Brooks, Georges Charlia, Augusto Bandini, André Nicolle
Sorride dunque la donna sullo schermo, pura apparenza d’ombre e di luci, nel contemplare il suo alter ego reale che sfugge alla vita. (S)concerto per muta voce solista che scinde Eros e Thanatos in una duplice visione d’assieme. Quale sarà quella vera?
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