Beh, io prima di tutto vorrei rinnovare i miei auguri oltre che ai miei soliti amici del sito (inutile nominarli ancora), a tutti coloro che nel corso dell’anno si sono intrattenuti con me a conversare in box ed anche a chi ha avuto occasione di leggere qualcosa di mio, playlist o commento che sia, anche per una sola volta.
Invece di elencare i film del 2005 in testa ai miei gradimenti, ho preferito stilare un secondo elenco di pellicole che esercitano su di me un potere di richiamo irresistibile e che quindi non mi stancherei mai di rivedere, tirando in ballo una serie di magnifici sette, sempre volutamente scelti (NON) tra quelli appartenenti ai miei registi preferiti in assoluto (Kieslowski, Bergman, Rohmer), né fra altri titoli abbondantemente da me citati in passato. Ed inizio subito col rivettiano “CELINE E JULIE VANNO IN BARCA”: qui non conta granché l’inverosimiglianza del metodo usato dall'autore per pervenire ad una soluzione di comodo in un film in cui l’unico ingrediente che fa difetto è la normalità, e dove la solubilità del mistero viene peraltro lasciata lettera morta, eclissata da un esilarante epilogo dai toni pirotecnici che fa da degno coronamento ad uno stressante tour de force ed in cui tutto viene rimesso in discussione nell'ultima sequenza che lascia intravedere la realizzazione di un andamento ciclico a soggetti invertiti. Citerei di seguito "HERMANNCHEN", il più fervido ed appassionato capitolo di “Heimat”, vero e proprio preludio alla seconda serie, che ha per tema la tormentata storia d’amore fra il giovane Hermann e la matura Klarchen, sicuramente da considerare tra le pagine più toccanti dell'intera storia del cinema. La forza delle parole non sarà mai sufficiente a descrivere il viscerale senso di emozione che si prova alla visione di quella che a tutti gli effetti è da considerare come un’autentica tragedia dell'adolescenza dai toni profondamente elegiaci, strutturata alla stregua di una composizione sinfonica che partendo da un adagio iniziale, perviene ad un allegro con moto sempre più in crescendo per poi decrescere gradualmente e pervenire alla fine ad un nuovo macerante adagio che entra decisamente sotto la pelle procurando brividi ed emozioni a non finire. Segue poi un classico di Truffaut, stimato autore francese che nel campo delle mie preferenze sono solito porre in sottordine ad Eric Rohmer: "L’AMORE FUGGE", l’ultimo omaggio affettuoso dell’autore al suo dinamico alter ego Antoine Doinel, seguito minuziosamente dall’occhio della macchina da presa lungo l’arco di vent’anni per un totale di cinque testimonianze filmiche e qui raffigurato nei più importanti momenti della sua vita, messo costantemente di fronte alle sue angosce, manie e bugie. Esperimento unico nella storia del cinema, in cui emerge l’abilità dell’autore nell’incastrare i singoli pezzi risalenti a diverse epoche precedenti, con un montaggio che tende sempre a dare il massimo rilievo all’azione. Non può mancare poi un’altra convincente performance di Winona: "REALITY BITES" (una medaglia di cartone va assegnata di diritto all’ideatore del delirante titolo italiano) in cui Ben Stiller, al suo esordio nella regia, ci parla del potere creativo individuale contaminato dall’insaziabile fame di sensazionalismo dei media nell’ambito di una spasmodica ricerca interiore faticosamente immortalata su nastro e ridotta ad un insipido purè ad uso e consumo di un’onnivora audience sempre presente a sé stessa nella consueta fiera delle banalità. Una caustica ed ispirata commedia di taglio giovanile inframmezzata da frequenti spezzoni finto documentaristici che sotto forma di una sorta di cinema-verità degli anni ’90 ci rivelano un inquietante spaccato di gioventù del tutto priva di modelli di riferimento. Segue poi un film contraddistinto da una trama ridotta all’osso, ma non per questo incapace di giungere al cuore delle cose, tutto da guardare ed assaporare in silenzio, una vera e propria sterzata dell’autore in direzione di un cinema primitivo, leggero e compatto allo stesso tempo: "DOPO MEZZANOTTE". Cinema di poche parole, tutt’altro che “urlato” ed esagitato, agli esatti antipodi di quello mucciniano, dove la cristallina trasparenza di personaggi usciti pari pari dai classici busterkeatoniani ingrigiti dalla polvere del tempo ed avvolti dal velo opaco dell’oblio vivono una vita sospesa in un tempo senza tempo, dispersi ma sempre presenti a sé stessi in una sognante dimensione metafilmica distante anni luce dalla disagiata realtà esterna dove la morte colpisce quasi per gioco ed il sorriso berlusconiano è sempre pronto a benedire l’ultimo respiro di vita.
E’ la volta poi di “THE LIFE OF DAVID GALE”, dove Alan Parker, esatta antitesi del patriottico ed insulso Ron Howard, dà vita ad un film dominato da un’atmosfera oppressiva, restringendo con spietata gradualità il campo visivo della nostra percezione ottica attorno al controverso fato di un essere umano coinvolto (in)volontariamente in un ingranaggio mortale, esasperando volutamente tinte fosche di tragedia che scuotono un intero sistema fin dalle fondamenta ed avvolgendo il tutto in un’aura di inevitabile fatalismo.
Ed infine lo struggente "J’ENTENDS PLUS LA GUITARE". Qui Garrel sublima il ricordo di Nico, la sua compagna nel bene e nel male, tramite un sentito atto d’amore tutto celebrato in sottrazione, evitando accuratamente le potenziali trappole innescate a causa della delicatissima materia trattata e riuscendo a rivestire della sua particolare sensibilità le sue disadorne storie di ordinario squallore, tramutandole in una disperata musica sotterranea i cui accorati echi si fanno sempre più flebili fino a sparire del tutto, ingolfati in un’apparente semi indifferenza generale di seconda mano, ma in realtà destinati a lasciare dolorosi e duraturi strascichi nell’animo umano pervaso di tanto in tanto dalle mareggiate della memoria.
Con Juliet Berto, Dominique Labourier, Bulle Ogier, Marie-France Pisier
Frammenti di realtà in sospensione offerti in dose sempre più massiccia, scomposti e ricomposti incessantemente in modo rigorosamente iterativo, in una sempre più crescente tensione narrativa nonostante il ritmo volutamente lento dell’incedere.
Titolo originale Heimat: Eine Chronik in elf Teilen - Hermännchen
Regia di Edgar Reitz
Con Peter Harting, Gudrun Landgrebe, Marita Breuer, Jörg Richter, Mathias Kniesbeck
Cinema come fabbrica di emozioni procurate dalla visione di pagine dal tocco lirico bagnate alla fonte di un sentimento temprato da una maestria tecnica e da un’evidente armonia narrativa colte in flagrante funzione sinergica.
Con Jean-Pierre Léaud, Marie-France Pisier, Claude Jade
“Suona bene il violino, Alphonse,” raccomanda Antoine Doinel a suo figlio, “se studi ed hai talento, diventerai un grande musicista, altrimenti prenderai molte stecche e farai il critico musicale.”
Winona, aggraziata figuretta dalle parvenze quasi naif e dall’aria talvolta malinconica ma non priva di risolutezza di carattere sfoggia nel volgere di un battito di ciglia la più ricca varietà di espressioni possibili ed immaginabili.
Con Giorgio Pasotti, Francesca Inaudi, Fabio Troiano, Francesca Picozza
Un ansito di quiete, un turbinare indistinto nell’aria di parole non dette, che spingono l’anelito individuale in direzione di una pace interiore e di un’assolutezza in grado di trascendere l’adamantina realtà di rarefatti silenzi.
Una discesa all’inferno dai toni di dramma immersi in un nero color tenebra che richiama palesi echi woolrichiani.Il ralenti sul volto di Kate scosso da singhiozzi strozzati di impotente disperazione scava lunghi solchi sull’imberbe coscienza dell’America
Con Benoît Régent, Johanna Ter Steege, Yann Collette, Edith Boulogne
L’amore come perdita irreparabile. L’impossibilità di essere eroi e di non poter dare una svolta alla propria vita. L’ineluttabilità di un passato che pesa come un macigno. Il divenire turbinoso del presente che non lascia adito a riflessioni.
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