CINEMA nostalgicamente retrò quello di Philippe Garrel, che pur in un eccesso di sottrazione sembra evocare a tratti l’ombra di un grande Bresson, riveduto e corretto, conservandone in parte il rigore visivo.
CINEMA che resuscita paventati fantasmi del passato, disponendoli in fila innanzi ai nostri occhi quasi a volerne dimostrare la fragilità congenita e la devastante ansia di autodissoluzione. E che soprattutto ci fa nuovamente respirare l’inquieta brezza di una Nouvelle Vague ormai sepolta tra le vestigia del passato ma pronta a resuscitare a comando al primo accenno di fervorosa corrispondenza. Chi conosce bene l’autore, d’altra parte, sa benissimo come sia ossessionato da un invadente senso di perdita nei confronti dell’inafferrabilità di un reale che sfugge continuamente davanti ai nostri occhi, costantemente minacciato dalla polvere del tempo.
E se c’è una cosa che non gli fa certamente difetto è la mancanza di costanza nel perseguire le sue tematiche preferite passandole metodicamente al vaglio di una sensibilità straziata da esperienze di dolore che si rinnovano puntualmente ogni volta che una sua nuova uscita viene data alla luce, frutto di un ennesimo doloroso parto tutto cosparso da quel senso irrimediabile di perdita che costituisce la costante immutabile della sua opera. E che lo spinge ad indugiare a lungo con la sua macchina da presa totalmente esente da immotivati sussulti sui volti ripresi sovente in primo piano, dall’espressione quasi assente ma in realtà intenti a confrontarsi con l’arida concretezza di un mondo che ha smarrito ogni connotazione reale, da considerare ormai come un volatile punto di riferimento rispetto alle millimetriche coordinate di un passato che si presenta tuttora alla mente con estrema vividezza e rappresentabilità.
CINEMA che si realizza nel suo raccontarsi come non-essenza, come afferma lo stesso Enrico Ghezzi, dalle immagini che materializzano uno stato puramente mentale, totalmente svincolato dal pur minimo intento commerciale. CINEMA che si muove in una maniera che si potrebbe definire “anarchica”, intimamente rapportata alla personale scansione dei flussi e riflussi interiori del suo artefice. Intento a scandagliare fra gli infiniti livelli di realtà alla ricerca di un’impossibile percezione ottimale del reale. CINEMA che scava nell’apparenza esteriore dei personaggi, deciso a decifrarne le fissità facciali per ridurle alla stregua di libri apertamente rivelatori, inducendoci in tal modo a guardare al di là dell’apparenza sensibile per leggere tra le righe i suoni delle corde dell’anima. CINEMA in cui le parole sussurrate in sordina arrivano ad assumere uno spessore rilevante in grado di restituire tono e vigore ad una narrazione restia a procedere per assimilazione a causa delle insidiose ellissi temporali che affidano per l’ennesima volta allo spettatore il compito di riempire i vuoti da esse creati e di restituire in tal modo un senso ai brandelli sparsi di memoria autobiografica. CINEMA dell’anima, dal passo lieve e meditato, precluso alle logiche prevaricanti dello star system hollywoodiano, dalle immagini distillate goccia a goccia con spiccata sensibilità, che riesce a commuovere grazie alla sofferta partecipazione emotiva dell’autore ed alla levità del suo sguardo, scivolando sottopelle quasi per un processo di osmosi naturale.
Ed anche in una delle sue opere più controverse, inedita per l’Italia, « elle a passe’ tant d’heures sous les sunlights », l’autore ci riserva lunghi silenzi rotti di tanto in tanto da improvvisi flussi di parole, intensissimi primi piani messi a nudo a tutto schermo che frugano tutt’intorno senza sapere bene cosa cercare. L’autore applica qui a tratti la lezione già ampiamente sperimentata nelle hautes solitudes con i suoi personaggi in perpetua perplessità latente, con gli sguardi immoti fissi nel vuoto, accarezzati dal suono della mdp che si bea del silenzio. Ed ancora una volta l’ombra dei ricordi viene a sfiorarci sotto forma di cinema puro, svincolato da qualsiasi compromesso, dove la finzione e la realtà s’intersecano tra di loro come in un meccanismo ben oliato. Garrel di frequente toglie l’audio dai dialoghi dando il via al silenzio degli sguardi e toglie il potere alle parole rafforzando quelle dello sguardo. Lunghi attimi in sospensione in cui il tempo pare fermarsi attorno ad una donna poggiata sul parabrezza dell’auto, mentre il tergicristallo gira incessantemente ed i tomorrow’s parties fanno da ossessivo sottofondo sonoro. Poi il suono svanisce di colpo e restano soltanto i lunghi silenzi di un uomo e di una donna che si scrutano in rigorosissimo silenzio.
Con Brigitte Sy, Philippe Garrel, Anémone, Maurice Garrel
Frammenti di un’autobiografia dolente filano via leggeri sulle ali di un tempo perduto ad immortalare la sacrale consistenza del “niente”. Perché un film non è una pattumiera per i rifiuti della vita.
Con Benoît Régent, Johanna Ter Steege, Yann Collette, Edith Boulogne
Continua a suonare in sordina la chitarra, sull’onda di preziosi ricordi custoditi tra le pieghe dei fotogrammi di un CINEMA che ci scorre davanti con dolente levità, mentre il naufragio si rinnova tra i gorghi di un’assorta (in)consapevolezza.
Con Mehdi Belhaj Kacem, Julia Faure, Michel Subor, Mathieu Genet, Valérie Kéruzoré
La forza del dolore che sacrifica giovani vite sull’altare dei ricordi irretisce in un circolo vizioso all’infinito la sua stessa intima essenza. E la storia continua a ripetere sé stessa con incalzante monotonia.
Con Louis Garrel, Clotilde Hesme, Julien Lucas, François Toumarkine
Generazione perduta nelle celebrazioni di una cieca iconoclastia nei confronti del suo recente passato o generazione (s)perduta che gira e rigira intorno a sé stessa tra fumi di vuoto? Non opera distinzioni la morte che bussa nell'ora del crepuscolo.
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