Assimilare le tematiche kieslowskiane equivale ad essere testimoni di un affresco epocale di vaste proporzioni che trae le sue coordinate direttamente dall’interno della complessa struttura della psiche umana, controllandone i meccanismi di reazione e svelandone impietosamente i relativi malfunzionamenti in maniera strettamente impersonale. L’intera architettura del Decalogo presa sia nella sua globalità che singolarmente è sicuramente da annoverare tra le più alte vette dell’ingegno artistico dell’uomo e la conclusione che traspare dalla sua lettura non fa che ribadire la pochezza dell’individuo di fronte ai misteri dell’universo ed all’imprevedibilità del caso. Ma non è certo intenzione dell’autore di ergersi a moralista: la sua aria di distacco davanti alle brutture di un mondo allo sbando sta a testimoniare l’assoluta incapacità di applicazione di un qualsiasi giudizio critico. In una serie di casi sintomatici come quelli del Decalogo Kieslowski si concede la facoltà di rendere muta testimonianza di quanto si svolge davanti ai suoi occhi ma non quella di interferire a suo piacimento per modificare o condizionare lo svolgimento della narrazione.
Nel Decalogo 5, ad esempio, il regista non tenta in alcun modo di introdurre circostanze attenuanti a favore del condannato con mielosi tocchi da melodramma alla maniera degli stereotipi hollywoodiani del tipo “Non voglio morire”. Non scivola sulla buccia di banana di zuccherosi patetismi per conquistare al protagonista la simpatia del pubblico, limitandosi per tutto l’arco del film a renderci una cronaca il più precisa possibile della sua efferatezza, per nulla interessato alle motivazioni psicologiche che portano l’individuo a gesti estremi. In altre parole per lui un delitto è pur sempre un delitto e per una sorta di “par condicio” pone sullo stesso piano giudice e condannato, dando vita ad uno sconvolgente capitolo scandito in tutto il suo percorso da segni e simboli che gettano una luce sinistra su una società malata che continua a contagiare irrimediabilmente i suoi figli.
A Kieslowski interessa inoltre soffermarsi sul gioco degli sguardi muti dei suoi personaggi che chiedono, implorano, invocano, sollecitando risposte sospese tra cielo e terra. Sguardi intristiti che a volte spiano da dietro la finestra il faticoso cammino di muti passi sul selciato, vani palpiti di anime che non si rassegnano all’attesa, protese in fremiti d’esistenzialità tendenti ad esorcizzare l'"horror vacui" che incombe tutt’intorno.
Con Henryk Baranowski, Wojciech Klata, Maja Komorowska, Artur Barcis, Agnieszka Brustman
Stando al detto “Errare umanum est”, a cagione della sua natura disumana il computer non dovrebbe commettere errori, se solamente fosse dotato di un suo libero arbitrio non vincolato dalla mano fallace dell'uomo.
Con Adrianna Biedrzynska, Janusz Gajos, Artur Barcis, Aleksander Bardini, Adam Hanuszkiewicz
Ania è completamente all’oscuro della linea di demarcazione fra l‘amore filiale e la pura aberrazione. La sua disarmante innocenza la svincola dal senso della colpa ma non la esenta dal peso del peccato.
Con Grazyna Szapolowska, Olaf Lubaszenko, Stefania Iwinska, Artur Barcis, Stanislaw Gawlik
Tomek, il demiurgo, ha preso a noia il suo sguardo supremo. E’ voluto tornare con i piedi per terra pagando di persona. La forza dello sguardo piegata alla (im)potenza del reale.
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